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di Mauro Piras

 

La scena è questa. Esame orale di recupero del debito (vulgo: esame di riparazione), greco e latino, due anni fa. La ragazza dovrebbe entrare in terza liceo classico, cioè al quinto anno. Non sa niente. È imbarazzante, anche per uno come me, a digiuno di greco e latino dai tempi della maturità. Non capisce, non sa, non ha le competenze fondamentali. Che cosa vuoi fare, la promuovi? Sarebbe assurdo, ingiusto nei confronti di quelli che sanno, perché hanno studiato. Guardo fuori, il sole di settembre, l’aria leggera. Mi piacerebbe essere giù al bar, non dovermi prendere questa responsabilità. So già però che finirà così, che allo scrutinio dovremo bocciarla. Non è accettabile promuovere una persona in queste condizioni. Guardo la ragazza. La conosco bene, ma la guardo ancora. La famiglia è mezza egiziana; una famiglia modesta, culturalmente povera. Lei non è motivata, è pigra, debole psicologicamente. Ha bisogno di molto sostegno, lo so; ma anche così rende poco. E poi con il greco e il latino, con i fondamentali del liceo classico, non c’entra niente. È fuori contesto. Ma l’abbiamo portata fin qui, e adesso non possiamo che bocciarla.

 

Mi chiedo come se ne possa uscire. Non si può. Nel suo caso è impossibile. So che dobbiamo fare una cosa che mi fa infuriare, perché il segno classista di questa bocciatura è evidente, stampato a chiare lettere. Ma date le norme e i risultati dell’esame, non c’è altro da fare. Mi dico che dovrò essere molto più vigile, nei consigli di classe, perché non si creino in futuro situazioni del genere. Bisogna lavorare per prevenirle presto: riorientare in fretta i ragazzi che non sono adatti alla scuola, seguire con più impegno quelli che decidono di restare. Si sanno, queste cose. Ma il problema è più radicale, mi dico. Se bocci, sei esposto sempre a questi rischi. Poi, che si facciano o meno gli esami di riparazione (di recupero del debito, come si dice ora), il problema resta lì.

 

E comincio a pensare: come si potrebbero eliminare le bocciature senza rendere la scuola troppo permissiva? Ci penso, mi viene in mente un’idea, mi convinco. Le bocciature vanno abolite, cambiando però un bel po’ di cose.

 

Adesso finalmente se ne discute. Negli ultimi anni, quando si parla di scuola, o si parla di emergenze, o si parla di questioni relativamente marginali. Da un lato le emergenze “strutturali”: il precariato, il rinnovo del corpo docenti, le loro retribuzioni, l’edilizia scolastica, i finanziamenti. Dall’altra, iniziative di modernizzazione importanti, sì, ma surreali, e marginali, in questo quadro desolante: la digitalizzazione, per esempio. E così non si parla quasi mai della cosa fondamentale. E cioè che la scuola italiana è da ripensare nell’organizzazione della didattica, perché è troppo rigida, sotto tutti i punti di vista: le classi, i programmi lineari, i sistemi di verifica e di valutazione, le promozioni e le bocciature.

 

Ora si parla di bocciature, finalmente. Una delle chiavi di volta di una idea diversa di didattica. Se ne parla perché la ministra Carrozza ha fatto una breve dichiarazione sulle bocciature. Niente di eccezionale, a dire il vero. Ha solo detto che si dovrebbe bocciare di meno, che la bocciatura è un fallimento, perché implica uno spreco di risorse per le famiglie, la società e lo stato, che bisognerebbe fare di tutto per evitarle, con corsi di recupero ecc. Cose che si sanno. Ma è utile sottolinearle. Bisognerebbe però essere molto più radicali e aprire un dibattito su questa domanda: le bocciature servono a qualcosa?

 

La mia impressione è che le bocciature non servano a niente; e inoltre, oggi, colpiscono quasi solo le stesse classi sociali, cioè le più svantaggiate culturalmente. Ciò non vuol dire sempre le più svantaggiate economicamente, ma il capitale che permette a una persona di realizzare una ascesa sociale, di migliorare le proprie condizioni non è solo economico, è anche culturale e sociale. Inoltre, nel contesto di questa crisi economica, i lavoratori più deboli sul piano delle competenze sono quelli che fanno più fatica a reinserirsi nel mercato del lavoro, quando perdono il posto. Quindi è cruciale chiedersi se una scuola che boccia, e boccia sistematicamente verso il basso della scala sociale, vada mantenuta. I dati mostrano che le bocciature sono uno dei fattori che favoriscono la dispersione scolastica. Inoltre, la maggior parte dei ragazzi bocciati non migliora la propria carriera scolastica dopo la bocciatura. Tutto questo a fronte di un maggiore investimento da parte della famiglie, di una perdita di tempo (di vita), di un maggiore uso di risorse da parte della scuola pubblica. E ovviamente di crisi di autostima, difficoltà psicologiche, crollo della motivazione ecc.

 

A quanto pare, quindi, questi costi sono troppo alti, visti i risultati. La soluzione allora è a portata di mano: abolire le bocciature. È una grande occasione per ripensare alcune strutture fondamentali della didattica.

 

È ovvio infatti che non si possono abolire le bocciature mantenendo il sistema attuale. La scuola ha il compito di garantire la formazione degli studenti; e deve farlo in maniera giusta, come è ovvio. Quindi è indispensabile un sistema di valutazione, che funzioni da un lato da incentivo, premiando chi fa bene e sanzionando chi fa male, dall’altro come giusta retribuzione. Non si può certo sperare che gli studenti studino solo perché ne hanno voglia, per quanta energia si possa mettere per entusiasmarli. Se si abolissero le bocciature senza modificare la struttura attuale della didattica, si avrebbe questo effetto: gli studenti che non fanno niente, o che comunque non riescono ad apprendere, per qualsiasi ragione, arriverebbero al diploma come tutti gli altri. Questo sarebbe profondamente ingiusto nei confronti di chi invece studia e impara; inoltre, un fallimento anche per quegli stessi studenti, a cui si darebbe un pezzo di carta senza avergli realmente insegnato qualcosa; infine, il lavoro degli insegnanti, in queste condizioni, sarebbe impossibile.

 

Insomma, comunque la si prenda, va male: se si boccia, si commettono ingiustizie e non si garantisce il successo formativo; se non si boccia, idem. È evidente che bisogna cambiare qualcosa nella struttura della scuola stessa, perché si possano abolire le bocciature.

 

Bisogna abolire il gruppo classe e modificare del tutto la natura del diploma che si rilascia alla fine.

 

Facciamo due ipotesi. Andrea si iscrive a un liceo scientifico. Va molto male in matematica, scienze e latino. Se esistesse la possibilità di formare in modo, come dire, “modulare” il proprio curriculum, fin dall’inizio si potrebbe dire ad Andrea non di cambiare scuola, ma di scegliere un curriculum in cui queste materie non ci sono (nel caso di latino) o sono meno importanti. Giulia invece, iscritta alla stessa scuola, va male solo in latino; per il resto ce la fa. È la tipica situazione da materia a settembre. Ma se non si boccia, non si rimanda neanche. Allora come si fa? Così. L’anno successivo, Giulia, che per esempio ha 4, quindi è molto scarsa, ricomincia il corso di latino dal primo anno, mentre i suoi compagni vanno avanti al secondo anno; in tutte le altre materie, in cui è sufficiente, Giulia va anche lei al secondo anno. Se nel corso del suo secondo anno recupera, va avanti in latino restando indietro di un anno; se recupera in fretta e molto bene, può accelerare e fare anche il secondo anno, e riallinearsi. Supponiamo che Giulia arrivi in fondo, al quinto anno, senza avere recuperato l’anno di latino. Nel suo diploma non ci sarà scritto semplicemente “Diploma di liceo scientifico”, ma ci sarà scritto che il suo livello è buono in matematica, eccellente in scienze, sufficiente in storia, e insufficiente in latino, nella misura del ritardo di un anno di corso. O altre formule che permettano di esprimere il reale livello raggiunto da Giulia nelle singole materie. Questo livello è definito dal punto del percorso che lo studente è riuscito a raggiungere.

 

È ovvio che per fare questo bisogna eliminare il gruppo classe. Non ci devono essere classi che vanno avanti tutte intere, tolti i bocciati, per cinque anni, ma si devono formare gruppi che ogni anno si iscrivono al corso di una disciplina; questi gruppi non sono sempre uguali, perché ci possono essere quelli che sono rimasti indietro, o che hanno cambiato curriculum, che si inseriscono più tardi rispetto all’inserimento “naturale”. In un corso di matematica del terzo anno ci saranno molti studenti di sedici anni, ma anche qualcuno di diciassette o diciotto (e anche, perché no, qualcuno di quindici, se per esempio è “più avanti”). Chi lavora di meno, avrà alla fine un diploma in cui si dice che sa di meno. È molto importante che cambi la natura del diploma rilasciato. Non serve a nulla dare un diploma “onnicomprensivo” che dice solo “Diploma di liceo classico”. Un titolo del genere implica che chi lo ha sa il greco. Però se è stato un ciuccio per cinque anni e non sa niente di greco, e l’ha sfangata comunque, questo non risulta dal diploma. Il diploma deve elencare le materie fatte e le competenze raggiunte. La vere certificazione deve essere questa, delle competenze raggiunte in ogni singola disciplina. Se lì è scritto che di greco non sai niente, questo conta. Ma che interesse può avere una persona ad avere un pezzo di carta in cui c’è scritto che non sa niente?

 

In sintesi, ci vuole un sistema molto elastico, in cui vengano aboliti i gruppi classe e i diplomi “onnicomprensivi”, privi di specificazioni. E forse anche gli indirizzi di studio. O meglio, gli indirizzi devono essere meno rigidi. Pensiamo al caso di Andrea, all’inizio. Se, scegliendo lo scientifico, ha sbagliato, oggi deve cambiare scuola. Perché o fai lo scientifico, o fai il classico, o fai il tecnico ecc. Questi indirizzi sono spesso diversi come realtà fisica (sono proprio edifici scolastici diversi), e anche quando sono nello stesso edificio, sono un unico blocco, per così dire, e trasferirsi dall’uno all’altro non è mai facile. C’è il nulla osta, la domanda di trasferimento, l’esame di idoneità. E poi, siccome ci sono le classi, magari Andrea non vuole lasciare la sua classe. E non vuole lasciare l’ambiente della sua scuola. Ecc. Se invece gli indirizzi fossero concepiti come componibili, per moduli, la cosa sarebbe più semplice. Andrea va male in matematica, scienze e latino? Intanto, non dovrà più fare latino, se non vuole. Poi, potrà scegliere un indirizzo in cui segue dei corsi di matematica e scienze diversi, e ne segue altri di altre materie. Ma perché non pensare che possa rimanere nella stessa scuola, continuare a frequentare alcuni corsi che già frequentava, con profitto, e cambiarne soltanto altri?

 

Tutte queste innovazioni sarebbero enormi, per la scuola italiana. Siamo in un sistema sempre più rigido, sempre più difficile da gestire. Ma sempre più fallimentare. Perché non pensare a un cambiamento radicale? Certo, a fronte della situazione reale, sembrano fantasie, esercitazioni retoriche e inutili. Nella realtà, vediamo cose sconfortanti come la girandola insensata dei docenti a ogni inizio di anno scolastico, giustificata solo da rigidità burocratiche che non hanno niente a che fare con la didattica. Ma non risolveremo mai niente della nostra scuola, neanche queste difficoltà quotidiane, se non abbiamo un’idea forte del modello che vogliamo. Quindi iniziamo a costruirlo questo modello ideale. E un primo tassello è questo: fine dei gruppi classe, elasticità degli indirizzi, abolizione delle bocciature.

(Torino, 4 settembre 2013)

[Immagine: Ron Mueck, Fondation Cartier, Parigi 2013 (foto di Thomas Salva) (gm)].

 

95 thoughts on “Abolire le bocciature

  1. Caro Mauro, la proposta (già ne parlammo) è interessante e per molti versi condivisibile. Mi piacerebbe lavorare in una scuola più flessibile.
    Al Miur però, se mai aboliranno le bocciature, faranno come per i Bisogni educativi speciali: emaneranno in pompa magna una circolare che proclama le magnifiche sorti e progressive dell’inclusione, additando il meraviglioso fine, e poi non daranno un soldo, uno strumento, un insegnante in più.
    Da noi le rivoluzioni si enunciano teoreticamente, quanto a tracciare un piano di battaglia dettagliatissimo, i generali lasciano sempre che siano i soldati sul campo a sfangarsela (ieri era l’8 settembre, nevvero?)
    La nostra scuola funziona per sottrazione. Insomma: toglieranno le bocciature perché sono ingiuste e classiste e… (e citeranno al solito – male, ché lui intendeva un’altra cosa – don Milani: “una scuola che boccia, boccia se stessa”), magari otterranno anche il plauso di qualche pedagogista ex cathedra, (che interverrà a stigmatizzare gli interventi come i miei, che sono certamente dettati solo da conservatorismo e difesa di rendite acquisite), ma tutto finirà come dici tu stesso: “Se si abolissero le bocciature senza modificare la struttura attuale della didattica, si avrebbe questo effetto: gli studenti che non fanno niente, o che comunque non riescono ad apprendere, per qualsiasi ragione, arriverebbero al diploma come tutti gli altri. Questo sarebbe profondamente ingiusto nei confronti di chi invece studia e impara; inoltre, un fallimento anche per quegli stessi studenti, a cui si darebbe un pezzo di carta senza avergli realmente insegnato qualcosa; infine, il lavoro degli insegnanti, in queste condizioni, sarebbe impossibile”.
    Perdona il disfattismo, che – davvero! – non vuole togliere nulla né alla tua proposta né alla tua passione e intelligenza di insegnante. Ma qui servono soldi, e parecchi.

  2. L’analisi e la critica dello strumento della bocciatura colgono nel segno. Così come è interessante la prospettiva di riforma del sistema educativo. Se non capisco male, da profano, mi pare che sia qualcosa di molto simile al sistema tedesco, dove agli studenti viene data la possibilità di creare il proprio piano di studi sulla base dei loro interessi e di modulare di conseguenza il numero di ore e materie seguite.

  3. Il gruppo classe non è previsto nell’ordinamento di altri paesi. Non è possibile qui entrare nel dettaglio; in genere lo studente può scegliere tra un certo numero di discipline, altre sono comunque obbligatorie in quanto caratterizzano l’indirizzo prescelto.
    Per valutare con serietà pregi e difetti del modello flessibile rispetto al rigido bisognerebbe disporre di dati numerosi e attendibili. E fare delle scelte didatticamente fondate, si capisce.
    Trovo però assurda, nell’attuale ordinamento, la presenza nel penultimo anno del classico di uno studente che “Non capisce, non sa, non ha le competenze fondamentali” di greco. Che poi venga da altro paese, eccetera, evoca il “sociologismo” di maniera che non ha giovato alla nostra scuola superiore.
    Avrei qualche perplessità anche ci trovassimo in un sistema duttile. Il non- latino di Andrea che rimane nel gruppo a indirizzo scientifico ci può stare, che dire del non-greco in quello “classico”?

  4. Condivido in pieno quanto scrive Piras e il suo primo abbozzo di un’idea diversa di sistema educativo. Volevo chiederle cosa pensa di un punto, che a me sembra decisivo. Sarebbe lungo e complesso discuterne e non vorrei che fraintendesse le mie intenzioni – ma corro il rischio. Il punto decisivo mi sembra introdurre un accesso regolato all’università che dipenda dai voti ottenuti all’ultimo anno di superiori – questo si può fare in molti modi e gli altri sistemi educativi europei offrono molti modelli.

  5. Sono assoluttamente d’accodo sulla proposta di abolire la bocciatura. Il problema è che troppi professori continuano nel migliore dei casi a considerarla una “strumento” didattico cui è lecito ricorrere in casi estremi, nel peggiore a utilizzarla come una vera e propria arma di selezione, per sfrondare le classi degli elementi più difficili. In quest’ultimo caso (per nulla infrequente) la bocciatura è proprio ciò che permette al professore svogliato o poco capace di non fare ciò che dovrebbe fare (e di nascondere a se stesso la propria svogliatezza o la propra incapacità): diversificare la programmazione calibrandola sulle esigenze individuali degli alunni, osservare e saper valutare gli oggettivi miglioramenti di quegli alunni in difficoltà che, pur non arrivando ai famosi “obiettivi minimi” richiesti per la sufficienza, hanno mostrato comunque di acquisire nuove abilità, di aver sviluppato degli interessi etc. A quanti (ex) colleghi ho sentito dire, al consiglio di classe di novembre: “beh , questo lo bocciamo, c’è poco da fare”, anziché chiedersi che strategie applicare per permettergli di lavorare, di migliorarsi, di vivere in modo propositivo e sereno l’esperienza scolastica.
    Per quanto riguarda la proposta di “eliminare il gruppo classe”, invece, ho dei dubbi. Credo che i gruppi classe invariabili, all’italiana, siano uno dei motivi per cui da noi sia ancora possibile parlare della scuola come di una comunità, dunque di un luogo e di un tempo di esperienza, al di là dei risultati “certificabili”.

  6. Alleluia! Genio!

    Io è da quando avevo 12 anni che sapevo della totale inutilità della bocciatura, come del concetto di diploma, un pezzo di carta che vorrebbe attestare cosa uno sapeva il giorno x, e che vorrebbe fare da garanzia per il futuro. C’è speranza dunque.

  7. @ Solinas. Troppo semplice così, e anche un po’ propagandistico. La colpa è sempre dei professori, la bocciatura solo uno strumento per pararsi le spalle, dunque? No, le cose sono molto più complesse.
    Nella proposta di Piras l’abolizione del gruppo classe è coessenziale a quella della bocciatura, per questo la sua proposta è interessante.
    Abolisca le bocciature e non cambi il resto: vedrà che succederà quello che paventava Piras (le parole che io ho citato nel mio commento). Il tana libera tutti.

    Proprio per questo io ho messo le mani avanti nel mio precedente commento, ho fatto un fastidioso esercizio di lamentevole pessimismo; perché poi alle proposte intelligenti si attaccano tutti e ci scaricano su ciascuno le sue insofferenze: i poveri ragazzi vittima di insegnanti frustrati e masochisti, o anche solo incompetenti (si boccia solo per quello, si sa), gli insegnanti emissari del sistema classista e borghese (si boccia solo per quello, si sa), la scuola che non sa trovare alternative a questa barbarie della bocciatura (si boccia solo per mancanza di fantasia, si sa), l’Italia che non è come la Finlandia, il paese dei belli biondi felici e senza bocciature (si sa che bocciamo solo perché noi siamo ancora al Medioevo dei paesi latini), …

    Torno a ripetere, caro Mauro, la tua è una bellissima proposta, mi piace, e ti chiedo scusa per il disfattismo. Parliamone. Occhio solo alla deriva delle interpretazioni del tuo testo presso terzi, che mi pare già iniziata.

  8. Aggiungo un’altra cosa, un po’ più seria, perché ho sempre contestato la concezione di giustizia che mettiamo nelle vicende scolastiche. Si dice se facciamo passare tutti non è giusto nei confronti di chi studia e si impegna. Ora, al di là delle implicazioni bio-psico-sociologiche disconosciute nel dare merito a chi si impegna ( vorrei che qualcuno mi spiegasse quale merito si abbia nell’essere più intelligenti e più propensi a studiare ), l’ingiustizia dove sta? Chi studia molto ha piacere nel farlo e avrà dei vantaggi che nessun diploma con il minimo della sufficienza potrà mai inficiare, tanto più che c’è il voto finale.

  9. Caro Lo Vetere, eppure io, sulla base della mia esperienza (certo non lunghissima) di insegnante alle scuole medie, insisto nel dire che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sostituiva la bocciatura al lavoro differenziato, o al recupero individualizzato che si sarebbe potuto e dovuto fare durante l’anno. Certo, son d’accordo, mancano i soldi, le risorse etc., ma, per quanto ho potuto vedere io, mancava innanzitutto la volontà da parte dei professori.
    Non credo che questi ultimi siano frustrati, credo piuttosto che abbiano un’idea della scuola, o meglio, per esser più precisi, della valutazione, francamente assurda.
    Un’idea che riassumerei più o meno così: il professore è una sorta di giudice sportivo. Come nel salto in alto,c’è una sbarra orizzontale da oltrepassare per superare la prova e passare alla classe successiva. Se lo studente non va oltre quell’altezza, non possiamo fare niente, ci dispiace, ci piange il cuore, ma va bocciato. Al di là di quelli che sono i motivi delle difficoltà di uno studente, secondo me si dovrebbe innanzitutto non limitarsi allo schema: “spiego e poi valuto: chi mi sta dietro bene, se no arrivederci”, e lavorare di più per moltiplicare i canali attraverso i quali gli studenti possano acquisire delle abilità di base che poi renda loro meno penoso seguire i contenuti disciplinari. Dunque lavorare di più su aggiornamento didattico e pedagogico. Secondo me se si facesse questo, il numero di quelli che comunque non farebbero niente, contando sul fatto che comunque rimangono impuniti, sarebbe ridottissimo. Certo, sto parlando delle scuole medie (e volendo del biennio delle superiori), non di studenti di 16 o 17 anni.
    Per quando riguarda i finlandesi biondi ed il medioevo latino credo (lo deduco dal suo fastidio per certi luoghi comuni) di essere d’accordo con lei. E aggiungo che continuo a ritenere il sistema formativo italiano uno dei migliori che ci siano, stando ai risultati. Forse (ahimé) anche per le bocciature. Ma probabilmente è così che è troppo facile. Un saluto, complimenti per la discussione che mi sembra più che opportuna e che continuerò a seguire, anche se non credo che avrò modo di intervenire di nuovo.

  10. A @Dwf vs Jf: la faccenda del “chi è più intelligente” e “propenso a studiare” non è così semplice come Lei la propone. Intanto, quando si parla di intelligenza, bisognerebbe considerare che le intelligenze sono multiple: c’è chi è più intuitivo, chi è più logico-matematico, chi è più pratico, ecc. Ovvero: chi è più “intelligente” in date materie deve far comunque una buona parte di fatica, per mantenersi a galla in quelle che gli sono più ostiche. Non è un “eletto” con la bacchetta magica. Per il resto, ricorderei la favola della lepre e della tartaruga: senza applicazione e buona volontà (quindi, “merito”), le doti naturali non servono a un granché. Ergo, se qualcuno risulta “secchione”, non si bollino i suoi buoni risultati come “fortuna” o “doni innati”. Sono stata “secchiona” anch’io e so quanta fatica e quanto tempo ci vogliano per ottenere buoni voti, anche se si è “propensi allo studio”. Soprattutto, bisogna dedicare ai libri di scuola ore che si impiegherebbero volentieri altrimenti: anche agli studiosi piace uscire e distrarsi, sa? ;-)

  11. Caro Solinas, grazie della risposta puntuale.

    Sì, in effetti superiori (trienni soprattutto) e medie sono faccende molto diverse. Io ho esperienza di entrambi i gradi e devo dire che mi sto fortificando nell’idea che insegnare alle medie sia per moltissimi versi assai più complicato. Troppe le ragioni per elencarle qui.

    Non nego che la bocciatura si presti anche all’uso di cui parla lei (anche se a volte le ragioni addotte e buttate lì in sede di scrutinio sono poi una specie di razionalizzazione/giustificazione a posteriori del docente di fronte alla difficoltà di valutare – perché diciamocelo, valutare quelle cose che stanno oltre il possesso di conoscenze, le competenze, di cui tutti oggi parlano e che pongono come tema ineludibile nell’agenda scolastica, è una roba difficilissima, specie alle medie dove la valutazione è molto più pedagogica che sui contenuti/abilità disciplinari).
    Tuttavia io ho anche l’esperienza contraria: quella di una scuola (docenti, dirigenti) che boccia poco: per non avere problemi, per non avere ricorsi, ma anche per aver, credo, interiorizzato l’idea che in effetti certi ragazzi è proprio inutile se non psicologicamente o pedagogicamente dannoso bocciarli. In due parole: almeno alle medie, non ho mai visto queste stragi di giovanissimi.
    Insomma, visto che sia la mia che la sua sono esperienze (o punti di vista sulle stesse esperienze) veri e legittimi, io dico solo: quando parliamo di scuola, molto pragmatismo. Basta con le opposte retoriche del donmilanismo tardivo (e frainteso) e della spocchietta da liceo.

    Le nostre opinioni sono entrambe vere, perché (a me pare, da qualche lettura sul tema e dall’esperienza sul campo) che nella nostra scuola ci sia una tensione non risolta (e oggi dannosissima) tra il vecchio modello borghese ottocentesco della scuola chiamata a selezionare la classe dirigente e modelli ed esperienze di didattica democratica e radicalmente egualitaristica. Perdiamo troppo tempo a litigare sul fatto se la nostra scuola sia ingiustamente selettiva o ingiustamente buonista: ciascun partito ha dalla sua un buon numero di indizi e prove, le adduce, e trae le conclusioni, saltando al collo di quelli dell’altro partito. Hanno (abbiamo) ragione entrambi. Basta litigare, sguardo laico.

    Dunque, ecco quelli che secondo me sarebbero i punti da tenere ben fermi a mente:

    1a) La scuola è chiamata a selezionare. Nel senso che valuta le differenze, indirizza, si sforza di trovare il contesto giusto per ciascuno. Non tutti faranno gli architetti di grido, o i ricercatori al CNR, non tutti devono fare il liceo classico o scientifico.
    1b) La scuola oggi ha molti compiti, perciò non può più limitarsi a selezionare, nel senso di selezionare la futura classe dirigente, secondo quel modello ottocentesco di cui sopra (deve fare anche questo, ma è uno solo, e non dei principali, compiti). Probabilmente certe bocciature applicano ancora inerzialmente quel principio, indebitamente estendondolo a chi non dovrebbe esservi sottoposto. Il problema, più che al liceo (da dove puoi comunque sempre riorientarti verso altri indirizzi di scuola), è nei professionali, perché i bocciati lì escono dal circuito scolastico e vanno a ingrossare le fila di quell’esercito di ragazzi che né studiano né lavorano.
    2a) Una scuola di massa ha a che fare appunto con una massa sterminata di umanità varia. A ciascuno bisogna offrire ciò di cui ha bisogno, senza aver paura di essere tacciati di classismo. Foscolo e Manzoni, se scrivevano versi in quella lingua, in effetti non volevano bene ai poveri, aveva ragione don Milani. Dunque meglio l’italiano di un romanzo contemporaneo, anche di consumo (ci sono anche libri di consumo di alta fattura). Lo scopo è che lo studente scriva meglio e inizi ad amare la lettura.
    Ma il futuro insegnante, il futuro giornalista, il futuro politico… Foscolo dovrebbero almeno averlo leggiucchiato a scuola.
    2b) L’umanità è varia, ma (magari almeno idealmente) è una: in una classe di professionale io Dante l’ho letto e a metà classe è piaciuto. Dunque mai mettere limiti alla Provvidenza e non decidere mai per partito preso che con certi certe cose non si possono fare.

    Questi (miei, altri la vedranno diversamente) assiomi evidentemente si concretizzano in proposte di architetture curricolari, di indirizzi di studio, ecc… ma ho già rubato molto spazio.

    Saluti

  12. La duplice proposta di abolire le bocciature e di istituire il gruppo classe, avanzata da Piras, mi trova in radicale disaccordo per più motivi. Innanzitutto, perché si inscrive in un’ottica neoliberistica di destrutturazione della scuola, che ricorda molto da vicino, anche se declinata a sinistra, la concezione e la pratica che hanno caratterizzato il periodo della gestione morattiana, quando, sotto l’influsso di pedagogisti cattolici come Giuseppe Bertagna, vennero introdotti i piani di studio personalizzati e i relativi percorsi di apprendimento e profili culturali ed educativi di uscita. Il segno di questo indirizzo ‘riformatore’ era sostanzialmente quello di una privatizzazione della formazione mascherata dalla cosiddetta ‘libertà di scelta’ posta in capo alle famiglie, all’insegna di una parentocrazia integralista e conservatrice di impronta squisitamente ciellina, anche se mutuata dalla pedagogia d’oltreoceano. Per ridurre gli alti tassi di abbandono e dispersione e prevenire le necessarie bocciature sarebbe semmai utile intervenire ‘in itinere’ ridefinendo e riqualificando, in chiave di riorientamento scolastico, l’idea delle ‘passerelle’ di berlingueriana memoria. In secondo luogo, perché spiana la via all’abolizione del valore legale del titolo di studio, essendo gli esiti formativi, conseguenti ai diversi percorsi seguiti dagli allievi nei gruppi classe, così differenziati da annullare qualsiasi possibilità di certificazione di un titolo di studio minimamente omogeneo. In terzo luogo, perché, se una simile proposta venisse attuata, non esisterebbe più nel sistema di istruzione del nostro Paese una base culturale comune su cui far poggiare la formazione delle nuove generazioni. Al limite, potrebbe accadere, come mi ha riferito un’insegnante spagnola che ho conosciuto durante gli esami di Stato presso un liceo linguistico di Genova (insegnante che, tra l’altro, giudica il nostro sistema scolastico nettamente superiore per la sua qualità culturale e formativa a quello del suo paese), che un allievo giunga a concludere il ciclo della scuola secondaria superiore senza aver mai studiato la matematica (ridotta così ad un lontano ricordo della scuola media). In quarto luogo, perché il problema delle bocciature non può essere disgiunto, in quanto tappa terminale della valutazione di un determinato segmento del curricolo scolastico, dal problema complessivo dell’efficienza formativa di tutto un ciclo di studi (essendo semplicemente assurdo, anche se ciò avviene, che si arrivi a bocciare una studentessa, come quella che viene descritta nell’articolo introduttivo, in un esame di recupero del debito del quarto anno di un liceo, quando ad essere bocciati dovrebbero essere gli insegnanti di quel corso che, dimentichi o ignari del fondamentale criterio della propedeuticità, le hanno consentito di arrivare sino a quel punto in quelle condizioni di impreparazione). In quinto luogo, perché resto favorevole – ovviamente nella scuola secondaria superiore – alla bocciatura, e questo non per sadismo didattico, ma per la maturata convinzione della sua indispensabilità educativa. I giovano hanno diritto ad essere valutati con il massimo di obiettività, di rigore e, insieme, di serenità, non ad essere blanditi o illusi o, peggio ancora, truffati da una formazione che, con i suoi comodi lasciapassare, si risolve in un derisorio succedaneo della socializzazione. In sesto luogo, perché le proposte che, sia pure con le migliori intenzioni (ma sappiamo tutti di quali intenzioni siano lastricate certe strade), assecondano la deriva neoliberista del nostro Paese, rischiano di determinare una ‘balcanizzazione’ del nostro sistema scolastico, mettendone a repentaglio il carattere nazionale e spingendo, attraverso una crescente omologazione della cultura italiana al ‘pensiero unico’ delle oligarchie finanziarie e all’imperialismo, verso un’ulteriore destrutturazione dello Stato nazionale.

  13. Buonasera a tutti, ho trovato questo blog quasi per caso e ho letto solo un paio di post, quindi mi scuso se non ho ancora capito il contesto generale e se mi fisso su un unico dettaglio.

    Però sono insegnante delle superiori, e credo di poter dire la mia su quest’ultimo argomento.

    Ho l’impressione che chi, per argomentare animatamente pro o contro le bocciature, fa riferimento solo a casi particolari come quelli di ragazzi del liceo classico che vanno male in una sola materia, abbia una visione piuttosto parziale della questione.

    Scusate la brutalità, ma quanti di voi hanno mai messo piede in una classe di biennio inferiore di un istituto professionale o di certe categorie di istituti tecnici?

    Adesso sono anch’io in un liceo, ma in un tecnico di quelli “problematici” ci sono stata per parecchi anni, e ogni anno ho sempre avuto almeno una classe prima, e a volte anche più di una in parallelo. In ognuna di quelle classi c’era sempre, FISSA, con variabilità minima, una media di almeno il 25% di bocciati al primo anno, che arrivava anche al 30% se si contavano anche quelli che non facevano nemmeno in tempo a farsi bocciare, ma si ritiravano prima. Diciamo che la normalità era avere le prime di 30 alunni e le seconde di 20.

    Dobbiamo concludere che quella scuola fosse severissima e che adottasse dei criteri di valutazione eccezionalmente selettivi? Ma manco per idea… oltre una certa soglia di accettabilità minima, le maglie diventavano larghissime e si promuoveva di tutto.

    Solo che c’era un’altissima percentuale di alunni che, semplicemente, non facevano nulla.

    Non so se mi spiego, ma “nulla” vuol dire davvero NULLA in assoluto.

    Non è che se la cavassero in alcune materie ma facessero fatica in altre, o che venissero messi in difficoltà da qualche singolo insegnante più esigente degli altri.

    Non è che arrivassero allo scrutinio finale con “due materie col quattro e due col cinque”, e che quindi ci fosse da discutere se aiutarli o meno.

    Quelli che di materie insufficienti ne avevano “solo” quattro, li si aiutava eccome!

    Quando parlo di quel 25 o 30% di bocciature, sto parlando di bocciature automatiche e autoevidenti, di tabelloni con sette o otto materie insufficienti. Ragazzi che, fin dal primissimo pagellino di novembre, incassavano sfilze di 2 e di 3 in quasi TUTTE le materie, comprese quelle assolutamente generali che non riguardavano affatto l’orientamento tecnico della scuola, ma che sarebbero state identiche in qualsiasi altro corso, e che erano già abituati a fare anche alle medie. E che, nei mesi successivi, non fanno assolutamente nulla per provare a rimediare, semplicemente prendono atto che i risultati sono quelli, e si fermano lì.

    Ragazzi che consegnano le verifiche quasi in bianco, che se interrogati ammettono tranquillamente di non sapere nemmeno di cosa si stia parlando, che portano avanti e indietro libri di testo praticamente intonsi (oppure tagliuzzati e scarabocchiati, ma non per sfida provocatoria, ma semplicemente per noia, perché non avrebbero saputo che altro farci), che i compiti a casa non li fanno MAI, che hanno quaderni di esercizi arretrati di due o tre mesi…

    E nel caso specifico della mia esperienza, in generale, non si trattava affatto di ragazzi provenienti da ambienti marginali, o particolarmente svantaggiati. In quella scuola, incidentalmente, gli stranieri erano pochissimi, e quei pochi erano nati in Italia e perfettamente integrati. Il livello socioeconomico era estremamente variegato, e in media NON problematico, quelli che diremmo “poveri” erano oggettivamente pochi, i benestanti non mancavano affatto, e quasi tutti erano perfettamente in condizioni di garantire ai figli motorini, telefonini sfiziosi, accessori alla moda e attività sportiva agonistica.

    Eppure, non mi sto inventando balle: in ogni classe, in ingresso, c’era in media un 25-30% di iscritti che sembravano non avere la più pallida idea di come si stesse a scuola e di cosa ci andassero a fare. Eppure parlo di gente che a scuola ci veniva, rigorosamente, per tutto l’anno, eh, NON di quelli che si perdono e che si fanno bocciare per le assenze! Nel caso peggiore, ci venivano apposta per provocare, disturbare e fare i bulli… ma anche questi erano pochissimi: per la maggior parte, ci venivano semplicemente perché obbligati, o per socializzare, per frequentare amici, per accontentare i genitori, o perché altrimenti non avrebbero saputo che altro fare, ma rimanendo completamente alieni a qualsiasi attività specifica che si facesse a scuola.

    Ragazzi che proprio non hanno idea di che cosa voglia dire “studiare”, non hanno mai imparato come si fa, e che se anche volessero provarci non saprebbero da dove cominciare, ma che comunque pensavano che andasse bene anche così, perché finora li avevano sempre promossi lo stesso…

    Comprendo che, per chi ha sempre visto solo licei (e magari solo trienni superiori dei licei) questa descrizione sia difficile da capire, e appaia come roba di un pianeta diverso, ma l’Italia è piena di scuole dal bacino di utenza di questo tipo.

    In casi del genere, come si fa a sostenere che “bisognerebbe abolire le bocciature”?

    Quale è l’alternativa?

  14. @ paniscus

    1. “Ragazzi che proprio non hanno idea di che cosa voglia dire “studiare””
    2. “In casi del genere, come si fa a sostenere che “bisognerebbe abolire le bocciature”?”

    Mi scusi, ma che relazione c’è tra i due punti?
    Io mi affannerei prima a capire il perché quei ragazzi non hanno idea di cosa voglia dire studiare (o pare che non l’abbiano). Oppure se la scuola, la famiglia, l’ambiente offrono loro le condizioni minime adeguate per essere attratti dallo studio; e poi vedrei se dispongo/disponiamo della cura adatta (senza buttarmi subito sulla bocciatura, che tra l’altro non è una cura, se non in casi particolari).

  15. Quindi tu, piuttosto che ricorrere “subito” alla bocciatura (che comunque arriva dopo un anno intero di tentativi, di segnalazioni, di convocazioni dei genitori, di corsi di recupero… non è che li si espella da scuola dopo un mese) proporresti di promuoverli comunque? Anche se hanno oggettivamente lacune gravissime in TUTTE le discipline? Boh, francamente non capisco perché mai questo dovrebbe aiutarli, o tantomeno rappresentare “una cura” migliore della bocciatura.

    saluti
    Lisa

  16. @ Erica

    ma forse la buona volontà non è una qualità dell’intelligenza? O c’è una vaga cortina morale in ciò? Se ti impegni di più hai voti migliori, il tuo premio è il voto, se un altro passa con un voto minimo dov’è l’ingiustizia verso chi studia? Al massimo si può parlare di ingiustizia nei confronti di uno che pur impegnandosi al massimo riesce a prendere solo la sufficienza come un altro a cui viene data senza aver fatto nulla, ma basta semplicemente avere scale di voti differenti. Forse che nei voti è contenuto il tasso di impegno a fronte della capacità? Senza contare che nel mondo del lavoro è del tutto ininfluente e per l’università idem.

  17. @ paniscus (Lisa)

    Io sto facendo il serale, da studente ( ho 28 anni ), e ci sono molti ventenni rispetto al passato, almeno da quello che ho capito. Ragazzi che smettono al mattino e passano al serale perché è più facile. Alcuni di loro sono stati bocciati, quelli più casinari, altri passano, senza far molto, le persone che più si impegnano sono quelle adulte. I ventenni o diciottenni non fanno nulla proprio come dici. In classe giocano col cellulare e ogni tanto se ne vanno alla macchinetta o a fumare.

    Ma il punto è un altro. La bocciatura può essere giusta o ingiusta, ma non è questo il senso, è che è inutile per ciò che vorrebbe fare. Se uno ha voglia di recuperare ciò che non sa può benissimo farlo mentre continua il suo normale corso di studi. Se uno non sa nulla e non ha voglia di fare nulla non è bocciandolo che cambierà qualcosa. La bocciatura vorrebbe funzionare come pena/deterrenza, ma la scuola è finalizzata all’apprendimento. Senza contare che fissare l’asticella della sufficienza spinge la maggior parte degli studenti a far quel tanto che gli basta per non aver problemi. Mia madre è diplomata, nella sua vita ha fatto vari lavoretti, adesso è impiegata, dopo essere entrata come portinaia. A scuola era bravina, adesso non sa nulla di nulla. Per il suo lavoro la scuola è stata inutile, bastava un corso di matematica di base e un po’ di italiano e al massimo di diritto. Un mio amico fa l’operaio, è stato bocciato e non si è neanche diplomato ( non che cambiasse qualcosa ), anni buttati in un posto inutilmente.

  18. @Dwf vs Jf: Nessuna sfumatura morale. Intendo soltanto dire che la faccenda dei doni naturali non va vista in modo semplicistico come è abituato a far qualcuno… perché ciò significherebbe disconoscere la parte di fatica che tocca a ognuno, intelligente o meno.

  19. @ Dwf vs Jf. Qui la questione non è personale (cosa cambia a quello, cosa cambia a questo, per le sue ragioni e sragioni private e intrinseche), bensì di sistema. E’ un tantino più complicata.

    Abate ha ragione a osservare che la bocciatura non cambia nulla (dal punto di vista dei ragazzi), soprattutto nel contesto descritto da Lisa: quei ragazzi sono sostanzialmente al fondo della rete (del contenitore “scuola”) e, rotte le maglie, semplicemente sono FUORI. Non c’è più un’istituzione a raccoglierli e accoglierli.
    Bisognerebbe capire perché non studiano e proporre soluzioni, infatti.
    Ma questo è il punto: a chi tocca farlo? Agli insegnanti, soli contro tutti? No, così gli insegnanti finiscono solo per cercare di sopravvivere alla meno peggio e, per quanto sia brutto dirlo, la bocciatura la usano come strumento di “autodifesa”. Prima di giudicarli male, entriamo in classe con loro, osserviamo e sforziamoci di capire. E prima di prendercela con i singoli, e anche dopo aver ammesso che esistono singoli che non dovrebbero fare questo mestiere, pensiamo prima di tutto alle condizioni materiali di lavoro in classe e domandiamoci se gli insegnanti hanno EFFETTIVAMENTE gli strumenti per agire (ché, come già detto, proclamarli posseduti per decreto è una pura idiozia, se non una vile ipocrisia).
    Per concludere: l’inclusione scolastica di quei ragazzi bocciati al professionale di cui parla la collega spetta alla politica e all’istituzione scolastica tutta. So che non è un problema da poco e ci va molta pazienza e fatica. Ma in assenza di questo, è fin troppo facile colpevolizzare gli insegnanti e le loro turpi bocciature.

  20. per Dwf:

    innanzi tutto, ti faccio i miei più sinceri auguri per i tuoi studi, che evidentemente hai intrapreso PER SCELTA e non perché ti sentivi costretto, e con una maturità di testa completamente diversa da “prima”.

    Ma forse non hai chiaro un punto importante: non è affatto vero che la bocciatura sia concepita come una punizione, o come una deterrenza. La bocciatura dovrebbe essere una normale *presa d’atto* che le competenze necessarie per passare al livello successivo NON SONO state raggiunte, senza nessun contenuto di giudizio morale, o tantomeno di rappresaglia personale.

    In questo contesto, perché ammantarla di significati simbolici che non dovrebbe avere?

    Se un ragazzino di prima superiore dimostra di non conoscere praticamente nulla dei contenuti didattici di quella classe, non è in grado di sommare due frazioni (in matematica), di coniugare correttamente un congiuntivo (in italiano), di chiedere che ore sono (in lingua straniera), o di distinguere un metallo da un gas nobile o un anfibio da un pesce (in scienze naturali), PERCHE’ dovrebbe andare in seconda? Cosa c’è di male a fargli ripetere la prima?

    Non è che lo si bocci “per punizione”… lo si boccia semplicemente perché non possiede le basi necessarie per affrontare gli argomenti dell’anno successivo, tutto lì.

    Tu dici che la scuola serve per apprendere, ma appunto, se uno non ha appreso nulla, perché lo si dovrebbe promuovere lo stesso? Quale sarebbe il vantaggio, per lui o per la comunità in generale?

    Scusami, ma mi permetto di rovesciare pari pari la domanda che hai fatto tu: tu chiedi “a cosa serve bocciarlo”, io invece ti chiedo di riflettere sull’esatto contrario, ossia a cosa servirebbe promuoverlo. Non è una provocazione, è una domanda serissima, giuro!

    Peraltro, nell’istituto tecnico di cui parlavo io, c’era anche il corso serale per adulti, e quindi credo di conoscere la realtà di cui parli. Anche da noi, nelle stesse classi, si ritrovavano insieme sia persone di mezza età, con lavoro, figli e responsabilità quotidiane pesanti… sia giovani di 18-20 anni che fino a un anno prima frequentavano il corso ordinario, e che poi passavano al serale solo perché non avevano più voglia di svegliarsi presto la mattina, o perché dopo due o tre bocciature si erano stufati di stare in classe con ragazzini tanto più giovani di loro. Ovviamente non c’era confronto tra il livello di serietà e di impegno dei primi e dei secondi! Ma comunque, continuo a non capire per quale motivo la soluzione al problema dovrebbe essere quella di promuovere tutti e dare il titolo a tutti.

    I casi sono due: o pensi che il titolo ti serva davvero per trovare lavoro, o per accedere a un lavoro migliore di quello attuale; oppure non ti interessa a fini lavorativi, ma lo fai solo per soddisfazione personale. In entrambi i casi, non capisco proprio perché rivendicare il diritto alla promozione anche se non si è imparato niente! Se uno deve andare a fare un lavoro che non c’entra niente con il diploma preso, e che avrebbe potuto fare benissimo anche senza, perché bisognerebbe dargli il diploma per forza, tanto quel lavoro può farlo ugualmente? E se invece uno lo fa solo per passione personale, come gli viene in mente di non studiare nulla e di pretendere la promozione lo stesso?

    saluti
    L.

  21. cercherò di rispondere più compiutamente e dopo aver letto i vostri messaggi. Per intanto cerco di spiegarmi meglio @ paniscus. dal momento che il titolo vale in sé, cosa assurda, molte persone vanno inutilmente a scuola per averlo, o meglio ancora se lo pagano, probabilmente c’è anche una sopravvalutazione culturale. è solo in relazione all’ottenimento del titolo che la bocciatura ha senso, ma a noi interessa l’apprendimento. di per sé ripetere un anno, rifare gli stessi argomenti, compresi quelli che uno già conosce, cosa aggiunge? è insistere su un argomento che ti fa apprendere se ne hai voglia e capacità, non la ripetizione dell’anno. all’università hai degli esami, o li superi o non li superi, e quello ha senso. alle superiori devi creare un sapere di base, fai quello, bocciare o promuovere cosa cambia? se uno non apprende cosa mai gli aggiunge aver ripassato un anno in più di tutto? ha senso per certe materie in cui servono le basi, per cui a qualcuno serve dedicare più tempo per capire e passare al livello successivo, e poi finiti i 5 anni dove è arrivato è arrivato, amen. per questo basta seguire corsi diversi, in certe materie stai più avanti in certe più indietro. non c’è niente di male nel bocciare, è che non serve per migliorare la situazione di qualcuno e può peggiorare la situazione di altri. è nel migliore dei casi inutile, per il resto dannoso. così come non serve promuovere, ma preso atto dell’assurdità della promozione-bocciatura, pensiamo a cosa serve davvero. alcuni miei compagni hanno dei debiti, e hanno fatto l’esame a settembre. ha senso che uno se non supera un esame per una materia non consegue l’anno scolastico?

  22. Ma scusa, continuo a non capire.

    Il fatto che ci sia qualcuno che pretende il titolo “solo perché il titolo vale in sé”, non implica mica che la scuola sia obbligata a darglielo solo perché quello lo vuole! Se la persona ci tiene, che faccia il minimo indispensabile che è richiesto per prenderselo, non mi pare così difficile!

    Se tu dici che “la cosa più importante è l’apprendimento”, quale sarebbe il vantaggio, il progresso o l’opportunità di dare il titolo d’ufficio a tutti, anche a chi non ha appreso assolutamente nulla? La scuoa deve creare un sapere di base? Bene, ma credi che questo sapere si crei in automatico, anche se lo studente non fa assolutamente nulla per realizzarlo? Mi dispiace, ma non funziona così!

    La scuola può anche offrire opportunità elevatissime, ma se poi lo studente se ne frega, e non fa niente per coltivarle, il sapere di base NON lo ha assimilato, punto. Non è una punizione, è un dato di fatto!

    Tra i compiti della scuola c’è anche quello di CERTIFICARE delle competenze effettivamente raggiunte. Se lo studente non le ha raggiunte, perché mai la scuola dovrebbe dichiarare il falso promuovendolo lo stesso? E soprattutto, perché pensi che questo AIUTI lo studente?

  23. Egregio Mauro Piras,

    la soluzione da lei prospettata mi è sembrata funzionale fino a quando non ho considerato alcuni aspetti, relativi alla mia stessa esperienza di studente prima e di insegnante poi. Alla luce di questi, temo che il genere di licenza che in questo modo verrebbe promossa contribuirebbe a creare altre “carte d’identità” di cui non c’è bisogno. E questo per una semplice ragione, che molto spesso può accadere che il desiderio dei singoli possa giacere latente e conoscere anche lunghi momenti di inibizione, prima di essere scoperto, e affidare la propria presentazione a un attestato che inchiodi il percorso di un individuo alle sue scelte contingenti e pregresse, equivalga a compromettere la possibilità di sbalorditivi riscatti dalle forme in cui esse si sono espresse. Voglio dire, chi non ha voglia di studiare, può essere che la riscopra in tarda età; chi non si è impegnato col latino, o non l’ha proprio studiato, può essere che lo riprenda in mano da solo, lavorando per colmare le lacune accumulate. Anche se suona molto all’antica, bocciare uno studente – o preoccuparlo col timore di una bocciatura – credo abbia invece la funzione di far rispettare un ordine che è giusto che resti garantito, senza peraltro pregiudicare l’eventuale presentazione con la quale, rimessosi anche se tardivamente in careggiata, egli potrebbe comparire alle porte dell’università o di un lavoro. Quando interrogo, io personalmente non guardo mai il libretto, non guardo gli altri voti né la scuola di provenienza. Se l’esame prevede di sapere chi è sant’Agostino o quali tragedie ci siano rimaste di Euripide, che cosa voglia dire “locus amoenus” e che cosa sia un “topos”, lo studente deve saperlo indipendentemente dal fatto che l’abbia studiato o no, o che l’abbia fatto bene o male: il programma parla chiaramente, e alui spetta il compito di adeguarvisi con più o meno fatica a seconda che la sua preparazione poggi su basi già consolidate o costruite ex-novo. E’ solo un esempio, ma credo sia sufficiente a giustificare il mio timore per quelle che ho chiamato “carte d’identità”, dal momento che l’identità di una persona (quindi anche culturale, in questo caso) non può essere un dato acquisito e registrabile, ma una “pratica” che richiede il suo corso. Il tempo, come direbbe Borges, è una finzione, e chi ha voglia, “prima o poi”, se ne appropria. D’altro canto, chi deve giudicare, è giusto che giudichi l’adesso di quel percorso, e non la presupposta totalità conchiusa di un insieme esperienziale definito.
    Cordialmente.
    Luca Piantoni

  24. Suggerirei di distinguere, anzi di separare proprio, i due discorsi su “scuola e mondo del lavoro” e “scuola e conoscenze/competenze”
    In Italia la disoccupazione giovanile è a percentuali sbalorditive.
    La scuola non c’entra niente: se anche avessimo la scuola migliore del mondo, i migliori licei, i migliori istituti professionali, le migliori scuole medie inferiori, le migliori scuole elementari, giù giù fino agli asili nido, le percentuali di disoccupazione giovanile non cambierebbero di mezza virgola, perché dipendono da cause affatto esogene alla scuola (in sintesi: competitività decrescente dell’Italia causata dall’euro, disindustrializzazione progressiva del paese. Segnalo en passant il fatto, a tutti noto, che qualsiasi discreto liceale italiano che passi un anno in una scuola superiore anglosassone – USA, Regno Unito, Nuova Zelanda, etc. – vi viene usualmente salutato come la reincarnazione di Leonardo da Vinci. Poi torna a casa e scopriamo, sollevati, che è il solito infingardo ma simpatico cazzaro di prima, anche se con una migliore padronanza dell’inglese)
    Evidente che in queste condizioni, l’unica ricetta infallibile per trovare un posto di lavoro decente è avere qualcuno con le spalle larghe che ti raccomanda. I professori, salvo rarissime eccezioni, non possono raccomandare nessuno: ergo almeno della disoccupazione giovanile proprio non hanno colpa.
    Quanto al discorso “scuola e conoscenze/competenze”, non è il mio mestiere e mi astengo dallo spararla grossa. Direi solo che da un canto, sul piano istituzionale, sarebbe gradito l’intervento di qualcuno che fosse in grado di proporre un asse culturale intorno al quale riformare la scuola: per intenderci, uno con i requisiti di Gentile. In giro non ne vedo, e chi si è presentato negli ultimi decenni avanzando pretese analoghe non mi pare abbia fatto una gran figura (chi ha riformato l’università con il 3+2, ad esempio, non diede prova di un’eccezionale lungimiranza: a distanza di due anni s’era già capito il disastro).
    A livello micro, se i professori non valutano, ed eventualmente non bocciano né promuovono, che ci stanno a fare? I conferenzieri? Se non esistono programmi scolastici nazionali che impongono acquisizioni disciplinari, che ci sta a fare la scuola pubblica? Il campo giochi?
    Poi certo, promozioni e bocciature non risolvono nulla, e ci vuole ben altro. Ma come spesso nel caso dei benaltrismi, temo si scordi che mentre promozione e bocciatura *in sé* non hanno effetti decisivi, *l’assenza* di promozione e bocciatura gli effetti decisivi li avrebbe eccome, perché distruggerebbe il concetto stesso di *diritto/dovere – sottolineo “dovere” delle competenti autorità dello Stato alla valutazione dei risultati e della legittimità dei titoli acquisiti*, senza il quale la scuola, i concorsi pubblici, gli appalti pubblici, gli ordini professionali, e lo Stato in generale, semplicemente non esistono più. Ricordo che i magistrati, i quali possono spedire in galera una persona per tutta la vita, lo fanno in base a una serie di promozioni scolastiche + superamento di un concorso.
    Se togliamo questo diritto/dovere allo Stato, dopo restano solo la valutazione del mercato, e quella della mamma. Non so se è una buona idea.

  25. Il problema, una volta acquisita la flessibilita’ di cui parli (immaginando di riuscire a modificare il nostro sistema) e’, a mio avviso, che o hai le risorse finlandesi (o delle scuole private americane) e riesci a far davvero recuperare le lacune agli studenti, oppure porti al diploma un numero troppo grande di ragazzi con conoscenze (e competenze?) esigue, come accade appunto nelle scuole pubbliche americane, dove il sistema flessibile e’ in vigore da moltissimi anni e ci vuole tutto il college per acquisire quello che i nostri studenti piu’ motivati/studiosi/dotati/stimolati dai loro insegnanti/… hanno a fine liceo. E temo che si sposterebbe solo il problema del classismo all’universita’, dove peraltro c’e’ gia’, come ben sappiamo.

  26. Caro paniscus,
    rispondo per primo a lei, perché solleva obiezioni molto serie.
    Il problema riguarda quei ragazzi che non fanno proprio niente e arrivano alla fine dell’anno senza quasi nessuna competenza. Qui non si tratta di insufficienze, anche gravi, in alcune materie, ma in tutte o quasi tutte. Chiaro che situazioni del genere non si registrano nei licei, quindi accetto la sua critica su questo punto, e la ringrazio per il suo contributo.
    Cerco di replicare, consapevole che la cosa è complicata e bisogna essere cauti.
    1) Intanto, va detto però che i dati sulla dispersione scolastica indicano proprio tra i bocciati quelli che abbandonano la scuola e non ottengono nessun titolo; quindi le vittime sono proprio gli studenti di questo tipo di scuole, non dei licei. E allora forse bisognerebbe interrogarsi sulle bocciature proprio per queste scuole, non per i licei dove sono marginali.
    2) Se si introducesse un sistema come quello che propongo, non ci sarebbe bisogno di “aiutare” quelli che hanno alcune materie insufficienti: li si dichiara insufficienti e li si obbliga a rifare quei corsi, se non cambiano indirizzo.
    3) Invece, le sue obiezioni sono molto forti per quelli che sono insufficienti in tutto o in quasi tutto. Che farne? Si rischia di portarli in fondo con troppe lacune, e poi si rilascerebbe un diploma che dice che non sanno niente. In effetti è problematico, lo riconosco. Allo stesso tempo, bocciare queste persone significa espellerle dal sistema scolastico e basta. Nell’ambito dell’obbligo questo non è accettabile. Dobbiamo pensare a sistemi più inclusivi. Ammetto che non ho una risposta, ma volevo sollevare un problema.

    Caro Daniele,
    non condivido il tuo pessimismo, perché, in tutti gli ambiti dell’agire sociale in Italia, ci impedisce di guardare in prospettiva. Bisogna sforzare di essere ambiziosi, nella visione e nel progetto. Questo non esclude la necessità di tenere conto delle condizioni reali, quando si passa alla pratica. Non mi preoccupo della deriva delle interpretazioni.
    Non penso però che la funzione della scuola sia selezionare. Sui compiti della scuola dobbiamo interrogarci in funzione dell’ideale di società che vogliamo. Il mio ideale è quello in cui i cittadini sono trattati da eguali. La scuola ha la funzione di realizzare le condizioni di questa eguaglianza, sul terreno delle conoscenze (qui semplifico per non dilungarmi). Quindi deve essere inclusiva. Deve permettere a tutti di raggiungere delle competenze, differenziando, sì, ma non selezionando.

    Cara Virginia,
    se Andrea non fa greco, l’indirizzo cambia. L’idea è che l’indirizzo cambia “per composizione”, non in blocco.

    Caro Baldini,
    condivido l’idea di un accesso all’università messo in rapporto con i voti dell’ultimo anno delle superiori, però la vicenda recente del bonus maturità ha mostrato come sia difficile da realizzare, a causa dell’enorme disparità dei modi di valutazione tra le scuole italiane.
    Forse, in fondo, stiamo pagando un profondo collasso culturale, nella didattica.

    Caro Solinas,
    in parte è vero che ci sono anche professori che bocciano per gestire meglio la classe, e in modo punitivo. Però, come dice Lo Vetere, non esagererei nel vedere le cose così.

    Caro Dwf vs Jf (dio bono però, il suo nickname sembra una password generata da un sistema automatico),
    lei tocca un problema delicato. In termini generali di giustizia, i talenti non sono meritati, e anche la forza di volontà ecc. non è necessariamente un merito (può derivare da fattori psicologici del tutto contingenti). Questo è fondamentale per la giustizia distributiva, secondo me. Nella scuola le cose sono più complicate, perché bisogna valutare quello che si apprende. Ma bisogna tenere conto di questo problema, lei ha ragione.

    Cara Erica Gazzoldi,
    le sue osservazioni sono giuste, ma la rimando a quello che scrivo qui sopra a Dwf ecc.

    Caro Abate,
    posso dirle che sono d’accordo con lei, e che mi fa piacere?

    Cara Rossella,
    queste tue brevi osservazioni mi mettono molto in crisi, per il momento non riesco a dire niente più di quello che ho detto a paniscus, sopra. Come ho detto, dobbiamo discutere, e elaborare un modello. Stare a guardare non basta più.

    Risponderò in un altro momento agli altri commenti.
    Grazie e tutti.
    mp

  27. Chiedo scusa anticipatamente per l’estensione eccessiva di questo commento: chi vorrà lo leggerà, chi non vorrà leggerlo passerà oltre. Siccome è stato evocato il nome di Gentile, è giusto riconoscere, trattandosi di un semplice dato di fatto, che questo filosofo neo-idealista è stato l’artefice della riforma più organica e più duratura di tutta la storia della scuola italiana post-unitaria. Ciò detto, occorre aggiungere che i progetti di riforma elaborati e parzialmente attuati in questi ultimi quindici anni si sono tutti mossi, quali che fossero la composizione e l’orientamento del potere esecutivo (da Berlinguer alla Moratti, da Fioroni alla Gelmini, da Profumo alla Carrozza), in un àmbito di riforma degli ordinamenti, senza mai giungere al livello, che è strategico, del rinnovamento dell’asse educativo e della riforma dei contenuti. Ma l’appuntamento con i contenuti non può essere continuamente differito, nonostante l’enfasi di volta in volta accordata agli obiettivi didattici, al curricolo, all’organizzazione scolastica e all’alternanza scuola-lavoro. E l’appuntamento riguarda, insieme con i contenuti, la loro formalizzazione, ossia le discipline, giacché la scuola insegna con le discipline e con le discipline educa e istruisce. A questo proposito, è opportuno rammentare che l’alternativa fra scolarizzazione e descolarizzazione, a cui è riconducibile quella tra centralità delle discipline e centralità della socializzazione, ha nel Sessantotto il suo atto di nascita e che, sempre in quella stagione, fu posta in crisi l’identità della scuola come istituzione pubblica dotata di specifiche finalità formative. L’onda lunga che scaturì da quel sommovimento è rintracciabile perfino, ancorché giocata in chiave di ‘rivoluzione passiva’, nelle politiche scolastiche degli ultimi decenni, se è vero che, di fronte alle pretese e alle pressioni (se non di un’organica ideologia della descolarizzazione) di pratiche descolarizzatrici (dai ‘viaggi di istruzione’ alle varie kermesse, come i festival di filosofia, di letteratura e della scienza, del tipo ‘perdi-il-tuo tempo’ e ‘bevi-fin-che-vomiti’), occorre far valere la differenza specifica tra la scuola e la famiglia, quella differenza che, come intercorre fra la scuola, l’azienda, il territorio e le altre agenzie educative, così intercorre fra l’istituzione scolastica e la socializzazione familiare. Giova pertanto ribadire che, pur senza essere (e non lo è né lo può essere) un corpo chiuso, separato e adiàforo rispetto alle dinamiche della vita sociale, ciò che contraddistingue la scuola è pur sempre il suo carattere artificiale e ‘metaforico’, il suo (tendere a) ‘tirare fuori’ e ‘portare oltre’ rispetto ai codici del denaro, del sesso e del potere dominanti in quelle dinamiche. Diversamente la scuola e chi, a vario titolo, vi opera, a cominciare dai dirigenti e dagli insegnanti per finire con i ragazzi e con i genitori, tenderà ad imitare altri modelli – da quello della grande famiglia a quello della piccola azienda, da quello della comunità ecclesiale a quello del servizio sanitario -. La scuola deve invece restare se stessa: un’istituzione pubblica dove si insegna e dove si impara. Come è stato detto in modo suggestivamente poetico e insieme rigorosamente scientifico da un valoroso pedagogista prematuramente scomparso, Riccardo Massa, la scuola è lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo.
    Sennonché, per quanto forte e intransigente possa essere la critica della scuola, essa non può identificarsi con la descolarizzazione. Il merito del concetto di descolarizzazione è, semmai, di carattere ‘negativo’, giacché esso ci aiuta a prendere coscienza del fatto che, per quanto giustamente la pedagogia cerchi di garantire alla formazione dell’uomo una distanza rispetto al sistema esistente (distanza che può essere massima in Rousseau e minima in Dewey, ma che, comunque, non può mai ridursi a zero), la scuola, in ultima analisi, rispecchia sia la struttura sociale esistente sia gli orientamenti del potere dominante. Per converso, il lato positivo della riscolarizzazione è forse costituito oggi dall’idea dell’innesto di una trasformazione qualitativa nello sviluppo quantitativo della scuola di massa, ossia dalla capacità di tenere unite la necessità di valorizzare l’eccellenza e la possibilità di una formazione onnilaterale dell’uomo, la costruzione dei percorsi educativi in termini suscettibili di concreto e motivato apprendimento da parte degli studenti e la fisionomia utopica della scuola come spazio idealmente sottratto alle disuguaglianze sociali. Non va dimenticato, però, che, tra le funzioni complesse e contraddittorie che la scuola deve assolvere, un compito fondamentale è quello di formare la classe dirigente e che questo è un fine irrinunciabile a cui lo Stato non può rinunciare, a meno che non si pensi che esso debba essere, come sta avvenendo per molti altri servizi, completamente ‘esternalizzato’.
    Ragionare sulla scuola e sull’educazione, come si sta facendo in questo dibattito sulle bocciature, è un compito serio, per assolvere il quale non è possibile scavalcare impunemente il momento dell’incontro e del confronto con i grandi paradigmi epistemologici e con le teorie che li sostengono. La mia tesi è che occorre, in questo come in altri campi, combattere e rovesciare il modello epistemologico neoliberista. Tale modello, che ha orientato le riforme scolastiche e, in particolare, la concezione, ad esse sottesa, del rapporto tra scuola ed economia di mercato, è – da Berlinguer alla Carrozza – rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre sono stati in qualche misura differenti i fini politico-sociali degli interventi posti in essere. La tendenza è stata quella quella a creare sistemi formativi a due marce, delle quali una è sincronizzata sul tradizionale mercato fordista e l’altra è calibrata in funzione di un mercato postfordista. Si tratta, cioè, di una politica razionalizzatrice e tecnocratica che poggia su una strategia di contenimento della spesa pubblica nel campo dell’istruzione e di riduzione drastica dell’impegno statale verso la scuola, e che si è mossa in direzione di un sistema formativo integrato, ossia di un sistema misto pubblico-privato dell’istruzione, in cui la stessa scuola statale, chiamata a rimodellare i suoi assetti secondo i sistemi organizzativi d’impresa, deve attrezzarsi per consentire al paese di affrontare, in quanto nazione a rischio formativo, le sfide poste dal mercato mondiale.
    Ho già osservato come la riforma della scuola sia intesa prevalentemente come riforma degli ordinamenti e dei ‘cicli scolastici’. E’ chiaro pertanto che un siffatto riordino punta a omogeneizzare e armonizzare la scuola italiana con la scuola europea: i cicli sono lo strumento con cui le scuole nazionali vengono ridisegnate; essi prescindono sia dalle specifiche storie dei sistemi scolastici nazionali sia dai modelli culturali che riempiono di contenuto i ritmi della scolarità nei singoli Stati. Se è evidente la tendenza razionalizzatrice e descolarizzatrice che impronta questo modo di concepire la riforma, è però altrettanto evidente il limite di economicismo che segna il modo di concepire (prima ancora che il modo di praticare) la forma-scuola in rapporto alle politiche della spesa e dello sviluppo perseguite dagli Stati occidentali, così come in rapporto alle strutture produttive e al mercato del lavoro, tanto che non appare azzardato affermare che, anche a livello europeo, pesa più il mercato comune che non l’individuazione di un patrimonio culturale comune come base di una scuola europea armonizzata. Senza sottovalutare l’importanza di una modifica degli ordinamenti, va tuttavia ribadito con forza che la qualità scolastica si misura principalmente sull’incidenza che i contenuti del sapere trasmesso assumono nel ‘mondo vitale’ del soggetto in formazione, quindi sulla qualità culturale dei contenuti e soprattutto sul modo in cui i bisogni culturali delle nuove generazioni vengono posti in rapporto con il patrimonio culturale e professionale degli insegnanti. Un eminente pedagogista come Ernesto Codignola sosteneva giustamente che gran parte della riforma della scuola consiste nella riforma dei contenuti dell’insegnamento e in quella della pratica degli insegnanti. Pertanto, la struttura e gli ordinamenti della scuola sono mezzi e non fini, subordinati – e non sovraordinati – ai luoghi, ai tempi e agli strumenti della relazione educativa.
    La domanda che occorre porsi è allora se la scansione dei tempi e l’articolazione delle forme organizzative favorisce od ostacola la relazione educativa tra i docenti, mediatori del curricolo esplicito e formale, e gli studenti, portatori di un curricolo implicito e informale, in altri termini se i saperi e i linguaggi formalizzati della nostra epoca trovano una mediazione flessibile ed efficace, pur preservando il rigore concettuale e la coerenza semantica che sono propri dello statuto epistemologico delle discipline, nel lavoro didattico organizzato. L’impressione, che ormai coincide con la certezza, è invece che questo aspetto concreto della ricostruzione dei codici culturali e simbolici, in cui consiste il valore cognitivo, etico e metariflessivo dell’attività formativa che ha luogo nella scuola, venga sacrificato a una visione tecnocratica protesa a trasporre meccanicamente in essa un metodo che, tra l’altro, non sempre si rivela efficace nella produzione di merci: un metodo basato sull’idea che il mutamento di processo è di per sé un’innovazione di prodotto. Ma se la scuola viene concepita come lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo, è difficile considerare il prodotto che essa fornisce come un prodotto replicabile in dimensioni seriali, senza contare che quella visione è antitetica ad una rappresentazione della scuola che la configuri – secondo il grande principio di Comenio, ‘omnia omnibus omnino’ – come un’‘utopia concreta’ offerta a tutti.
    Molto semplicemente – ma, come avvertiva un poeta, non c’è nulla di più difficile, a farsi, della semplicità – ripensare quella che si può definire la forma-scuola significa, riprendendo la ‘lezione degli antichi’ e coniugandola con l’‘esperienza dei moderni’, porre e risolvere il problema dei fini sociali e dei fondamenti teorici della scuola entro lo spazio etico-politico indicato dal secondo comma dell’articolo tre della Costituzione, che recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Oggi, ben più di ieri, non è né superfluo né scontato aggiungere che, quando ci domandiamo a che cosa serva la scuola e a che cosa servano le bocciature, occorre tenere ben presente, per dare una risposta corretta a tale domanda, questo articolo della Costituzione italiana.

  28. Ho finito le scuole superiori nel 2009 e concordo pienamente con questo articolo.

    Il mio livello di istruzione è Medio solo perchè ho una famiglia con una situazione economica sufficiente alle spese mensili e pochi sfizi e non potevo permettermi viaggi all’estero annuali ( ho il defunto diploma di “perito aziendale e corrispondente in lingue estere”.

    I primi anni avevo debiti in:
    – Matematica
    – Economia Aziendale
    – Tedesco
    Invece di farmi ripetere l’anno mi promossero al successivo dovendo recuperare 3 materie in soli tre mesi. Il risultato fu che iniziai l’anno con scarsissima capacità di concentrazione, specifico che venni rimandata non per mancanza di studio ma per difficoltà con le materie …

    Se avessi avuto la possibilità di lasciare quelle tre materie sarebbe stato positivo? Nel momento della scelta forse, con senno di poi credo potesse essere un errore. Mi spiego: a livello inconscio il messaggio sarebbe stato recepito come un evitare gli ostacoli quando si presentano invece di affrontarli ed impegnarmi per superarli nel migliore dei modi.

  29. Caro paniscus,
    rispondo per primo a lei, perché solleva obiezioni molto serie.

    —————————————————

    Grazie dell’apprezzamento intellettuale, ma sono femmina : – )

  30. Cara paniscus (Lisa?),
    le chiedo scusa, per una imperdonabile distrazione non mi ero accorto che aveva già usato il femminile nel primo commento, e che poi si era anche firmata con il nome. Mi scusi di nuovo, i nomignoli mi depistano.

  31. Alla lettura del suo intervento, mi sono fermata qui:

    “Giova pertanto ribadire che, pur senza essere (e non lo è né lo può essere) un corpo chiuso, separato e adiàforo rispetto alle dinamiche della vita sociale, ciò che contraddistingue la scuola è pur sempre il suo carattere artificiale e ‘metaforico’, il suo (tendere a) ‘tirare fuori’ e ‘portare oltre’ rispetto ai codici del denaro, del sesso e del potere dominanti in quelle dinamiche”.

    Mi scusi, ma ci faccia capire, compito della scuola, per lei che è un insegnante, sarebbe tirare fuori gli allievi dalle dinamiche del sesso?

  32. @ paniscus (Lisa)

    purtroppo non ho la connessione per molto tempo e per adesso rispondo solo a te, grazie cmq agli altri. Il sistema attuale garantisce ha chi ha voglia e talento di prepararsi per l’università. Tolti questi gli altri, compresi quelli che si diplomano tranquillamente sprecano un sacco di tempo, perché l’attenzione è finalizzata non all’apprendimento, ma al superamento degli anni e al diploma, preso il quale il giorno dopo è tabula rasa, fanculo i prof e chi si è visto si è visto. il diploma è un titolo ridicolo, non certifica niente, i miei coetanei e amici diplomati che poi non hanno proseguito gli studi della gran parte delle cose che hanno studiato non ricordano nulla, come è ovvio che sia, non è un difetto della scuola, è naturale. al momento attuale chi non ha voglia di studiare viene fermato e basta, quindi bocciarlo o promuoverlo è inutile, al momento del diploma ci sarà un attestato che dice “tizio non sa una mazza”. ma non mi pare che fino a oggi con le bocciature si è mai recuperato nessuno, e se uno recupera può benissimo farlo senza perdere un anno, perché sovrappore anno con livello di corso ha poco senso. senza bocciature ci si concentra sull’apprendimento nel senso che alla fine di ogni corso disponibile ogni studente avrà un diploma che attesterà ciò che ha imparato. ognuno sa che negli anni di scuola ha a disposizione una struttura e dei corsi, senza pensare a prepararsi giusto per l’interrogazione, senza le penose manovre per copiare, tensioni con i prof eccetera. ti piace un corso, ci vai, cerchi di imparare più che puoi, non ti piace, pazienza, magari ci sono corsi per imparare un mestiere. la mia non è una petizione buonista perché mi dispiace per chi viene bocciato, è che è mi pare assurdo il sistema. è ovvio che se serve il pezzo di carta, ci saranno persone che non hanno alcuna voglia ma che staranno lì tanto per. a cosa serve? non serve a loro, non serve ai prof che devono perdere un mucchio di tempo ( oltre al tempo che si perde a registrare assenze, uscite e ritardi, tanto per dire l’idiozia pubblica ) a spiegare e a correggere i compiti per nulla. se devi passare la vita a convincere tizio o caio a studiare “sennò ti metto il debito”, tanto vale dire vedi tu, il diploma lo prenderai, nel frattempo puoi scegliere se impegnarti o meno.

  33. Cara Teresa, stia tranquilla, non intendo condurre una crociata in nome della morigeratezza e del buon costume. Mi riferivo ovviamente allo sfruttamento dei corpi e delle immagini in funzione consumistico-pubblicitaria a fini di profitto, sfruttamento di cui la desublimazione repressiva rappresenta l’aspetto più insidioso dal punto di vista educativo. Massimo Recalcati, tra gli altri, ha detto su questo punto cose interessanti analizzando la perdita del desiderio e le conseguenze che questo fenomeno determina per la formazione delle nuove generazioni nella società tardo-capitalista, così come, per altri versi, sempre sullo stesso tema hanno scritto cose importanti Miguel Benasayag e Ghérard Schmit nel fondamentale saggio intitolato”L’epoca delle passioni tristi”, che dovrebbe, a mio modesto avviso, costituire una lettura obbligatoria per ogni insegnante che si preoccupi di capire il modo in cui le dinamiche del denaro, del sesso e del potere influiscono sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei giovani.

  34. Dfw vs Jf:

    scusa se insisto, ma a me pare che tu abbia una concezione abbastanza distorta di questo famoso diploma.

    A quanto ho capito, tu dici che, siccome il diploma “serve”, e siccome c’è un sacco di gente che è completamente disinteressata a imparare ma che vuole prenderlo solo perché “serve”, allora dovrebbe avere il diritto di averlo in automatico, e la scuola dovrebbe essere obbligata a darglielo d’ufficio, anche se non hanno imparato nulla.

    Ma che senso ha questa visione?

    Dove sta scritto, fra l’altro, che il diploma sia obbligatorio? Si può vivere anche senza (e del resto, se tu te lo stai prendendo “in ritardo”, vuol dire che finora hai vissuto senza, e che non ti è successo nulla di grave per questo!), quindi se uno lo VUOLE, santa pazienza, può fare lo sforzo di imparare un minimo sindacale dei contenuti e delle competenze che sono richiesti per averlo? PERCHE’ bisognerebbe regalarlo d’ufficio a tutti? Allora conferiamolo direttamente alla nascita, come il codice fiscale o il tesserino sanitario, e non se ne parla più…

    Se poi tu dici che, tanto, quasi tutti andranno a fare un lavoro che non c’entra niente con gli studi fatti e in cui potranno allegramente dimenticarsi tutto quello che hanno imparato prima, allora si ritorna al punto precedente: vuol dire che non è vero che prendere quel diploma era necessario per quel lavoro, ma che lo si sarebbe potuto fare anche senza!

    saluti
    L.

  35. ALCUNE RIFLESSIONI-SAMIZDAT DELL’ULTIMA ORA SU QUESTO DIBATTITO

    Partirei ricordando che *questa* scuola, per come fu strutturata (quindi ancora su un impianto gentiliano!) e per come si è conservata e irrigidita dal dopoguerra ad oggi (tranne la parentesi “elastica” degli anni Sessanta), impedisce proprio di realizzare il compito fissato dall’articolo 2 della Costituzione. Che i suoi gestori (dai ministri, ai provveditori, ai presidi, agli insegnanti) dichiarano (non so con quanta convinzione o ipocrisia) di perseguire.
    A me pare che l’istituzione perdura per inerzia, per incapacità di tutti nel pensare una vera alternativa. (Questo – preciso – accade per l’eliminazione di quei movimenti sociali e politici che alla fine degli anni Sessanta furono almeno capaci di contestarne la sua funzione sociale, di gridare che era una scuola di classe, un parcheggio (che allora si pensava provvisorio) di forza-lavoro. Ma anche per il venir meno sotto i colpi della storia recente delle Grandi Narrazioni che delinevano in positivo, anche per la scuola, delle ipotesi di grande respiro).

    Nel frattempo *questa* scuola dilapida e umilia quotidianamente intelligenze, energie e sinceri entusiasmi. La relazione educativa è minata alla sua base. Mancano nella maggioranza delle concrete situazioni le premesse persino materiali per curarla. E al suo posto viene contrabbandato per tale un quotidiano duello, tragicomico ed equivoco, tra interessi, mentalità e attese quasi inconciliabili.
    Ed, infatti, gli insegnanti che possono fare in una situazione che gli ha sottratto e svilito la *funzione intellettuale* di educatori, ha immiserito il loro *ruolo* pubblico e gli permette di cavare dal lavoro un reddito da pezzenti (certo,sempre meglio di niente…)?
    Sembrano dei soldati mandati al fronte con armi che non sparano ( o – vi ricordate? – nel gelo dell’inverno russo con scarpe di cartone). O medici costretti ad operare con attrezzi di fortuna. O francescani scalzi, che predicano (per poche ore, eh!) gli ottimi valori elitari della cultura umanistica *d’antan* a giovani refrattari perché imbottiti di anticorpi (la cultura massmediale).
    Gli insegnanti – lo si sa – sprecano buona parte del loro tempo di vita nel tappare le falle che la crisi dell’Istituzione non fa che moltiplicare. Lo fanno per autodifesa, per un minimo di igiene mentale, per non impazzire del tutto, per non farsi crollare addosso l’edificio che gli dà da vivere. E però resistono alla distruttività e alla frustrazione che le scelte governative e burocratiche gli impongono facendosi del male: iniettandosi, per continuare, un sovrappiù di idealismo. (Quante volte ho sentito dire “non lo faccio per lo Stato o la preside, lo faccio per i ragazzi”).

    Anche quando si parla della crisi della scuola, come qui si sta facendo, la tentazione di idealizzare s’insinua. Quasi si avesse il timore che, se non si resti un po’ idealisti, non si potrà far nulla.
    Qualcuno s’aggrappa ancora alla ragione (le proposte “minime” di Piras sono ragionevoli). Ma i più, delusi per gli immancabili risultati scadenti e per lo svilimento del loro ruolo, si riducono appunto a bocciare o a promuovere, pur sapendo in cuor loro (anche paniscus lo sa!) che le due cose, nella loro miseria, si equivalgono.
    Infatti, che boccino o promuovano, che si aggrappino a ragionevoli riforme o ai piccoli eroismi dell’ “io m’immolo” per il bene degli altri, proprio l’esercizio decente della funzione educativa, che sono chiamati a svolgere o che avevano scelto magari come “vocazione”, resta purtroppo impraticabile, fuori dalla loro portata o al di là della propria buona volontà individuale.
    Ma anche gli studenti come possono rispondere alle loro sollecitazioni? Messe a confronto con quelle che quotidianamente e a tutte le ore gli arrivano da TV, cellulari, Ipod, coetanei, gli appaiono marziane, approssimative, contraddittorie, per niente attraenti. Si arriva al muro contro muro adulti/giovani. Su cui ricamano giornalisti e sociologi.

    Il punto cruciale resta il che fare.
    Capisco Piras, i suoi scrupoli, i suoi dilemmi. Condivido la sua tensione democratizzante. E anche la sua cautela. Ma ci si può ancora appoggiare sull’idealismo e sull’idealismo egualitario? (Che colgo in questa frase: « Sui compiti della scuola dobbiamo interrogarci in funzione dell’ideale di società che vogliamo. Il mio ideale è quello in cui i cittadini sono trattati da eguali. La scuola ha la funzione di realizzare le condizioni di questa eguaglianza, sul terreno delle conoscenze (qui semplifico per non dilungarmi). Quindi deve essere inclusiva. Deve permettere a tutti di raggiungere delle competenze, differenziando, sì, ma non selezionando».).
    O sull’utopia alla Comenio di Barone? .
    O sulla difesa a tutti i costi del principio di autorità di Buffagni?
    O sulla sacralizzazione dei programmi che intravvedo nella posizione di Piantoni?

    Eh, no. L’idealismo (anche quello egualitario) mi appare sempre più oggi «vino dei servi» (Fortini). Il principio di autorità vale se l’autorità dimostra per prima di rispettare *materialmente* – nei fatti, non a parole – i diritti che proclama. Quanto ai programmi non sono intoccabili e vanno adeguati alla realtà intravista – credo – dalla migliore cultura dell’epoca.
    Se non sappiamo dire quale essa oggi sia, interroghiamoci. Quella umanistica è davvero migliore di quella di massa? O viceversa?
    Io direi d’istinto subito: oggi nessuna delle due …
    E penso che i fautori della cultura umanistica dovrebbero, se ne sono capaci, tentare un’operazione come quella che fece Dante ai suoi tempi. In apparenza si adeguò al volgare, non pretese che gli altri si adeguassero a quel latino, che ormai non comprendevano più. Ma non rinunciò a *tradurre* in volgare gli alti valori della cultura latina a cui teneva.
    Se, invece, oggi i suoi nipotini pretendono che siano i “giovani-barbari” a spogliarsi di quel che sanno (la cultura di massa) e a trasformarsi in solerti e disciplinati micro-filologi di testi scritti in un italiano per loro impenetrabile e che *questa* scuola non riesce appunto più a “tradurgli”, sono destinati a scomparire.
    Mentre ai patiti della cultura di massa o delle tecnologie che migliorerebbero di per sé gli uomini, gli studenti e la scuola, va detto che, no, la scuola non può diventare una “colonia” della cultura massmediale già di per sé invadente e deformante. Che la cultura di massa non è un bene in sé, perché è manipolata, prodotta da agenzie che hanno il fine di tutto semplificare (o a volte complicare) per vendere, arricchirsi e dominare. Che la scuola deve essere uno spazio dove incoraggiare il conflitto (sì, proprio il conflitto!) tra interessi e visioni del mondo diverse e
    dove imparare a capire il mondo *criticandolo* e non sottomettendovisi.

    Quindi condivido il timore di Barone che «la scuola imiti “altri modelli – da quello della grande famiglia a quello della piccola azienda, da quello della comunità ecclesiale a quello del servizio sanitario». Trovo però troppo generica la sua formula: «la scuola deve invece restare se stessa: un’istituzione pubblica dove si insegna e dove si impara». Ma cosa vi si deve insegnare e imparare? Su questo si deve discutere…
    L’ideale del pedagogista Riccardo Massa («la scuola è lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo») a me pare troppo adamitico, da alba dell’umanità. Più che invitare ad esperienze di stupore qui c’è da attrezzare i giovani a farsi coraggio, a scendere negli inferni della storia, a non farsi annichilire da quegli orrori, a combatterli….

  36. @ paniscus (Lisa)

    ti faccio un esempio: al serale dove vado le persone arrivano in ritardo, l’insegnante deve segnare ogni ingresso in dettaglio e così perde metà lezione. propongo all’insegnante di aspettare prima di fare l’appello così quando sarà passata una mezz’oretta avrà più presente e perderà meno tempo. Risposta: no, ci sono delle regole. alcuni aspettano, altri si attengono alle regole, si arrabbiano con gli studenti e con il tempo e con il registro e non fanno lezione. la prof mi dice che gli studenti dovrebbero arrivare prima e io le rispondo che sono due anni che non è successo, e ci sono buone probabilità che non succederà quest’anno, quindi sta a lei scegliere cosa preferisce, se fare lezione o passare il tempo a compilare il registro.

    il senso di dare un diploma a tutti, con attestazioni di cosa si è fatto, è perché può essere più probabile che molti si impegneranno perché ne capiranno il senso e l’opportunità, piuttosto che perché devono farlo. per rispondere a @ Lo Vetere, la maggior parte alle superiori o fa il minimo indispensabile o non fa nulla perché non gliene può fregare di meno di imparare cose che non servono, in un posto in cui ti ci hanno mandato e che ti giudica e che comporta conseguenze con i genitori e per il futuro.

  37. Sa, Abate che, leggendola, sono partito da una iniziale distanza a una finale compartecipazione?
    E, soppesando tutto, alla fine mi ritrovo nelle sue parole?
    Sono assolutamente d’accordo. Sul fatto che gli umanisti oggi dovrebbero avere il coraggio di fare una grande opera di traduzione e volgarizzamento (ché lamentarsi del fatto che Tasso non parla più ai nostri adolescenti è un esercizio che ci priva proprio di quelle energie che dovremmo impiegare per capire “che fare?”), sul fatto che l’istituzione si guadagna il rispetto e la fedeltà dei suoi funzionari solo se alle sue enunciazioni di principio corrispondono azioni e fatti (il che oggi non è, ed è questo che rende materialmente sospetta l’attuale discussione pubblica – non la proposta di Mauro – sulla scuola inclusiva: vediamo chi fa le riforme? chi le ha fatte in questi anni? quante volte è stato un imbroglio? e quand’anche l’intento era buono, a quante eterogenesi dei fini abbiamo già assistito?), sul fatto che imparare significa aprire gli occhi sull’irrazionalità della storia, senza diventare per questo cinici, disillusi, disperati (trovare cioè una ragione di ottimismo pure nel pessimismo: un pessimismo dinamico).

  38. Caro Abate,
    della scuola vissuta lei, e gli altri commentatori, ne sapete mille volte più di me, che la conosco solo per quel che la vissi come studente quarant’anni fa, e per quel che la vedo attraverso l’esperienza che ne fanno oggi i miei figli. Secondo me le cose che dice sono tutte fondate e sensate.
    Il principio d’autorità dello Stato che difendo, non lo difendo a prescindere e “a tutti i costi”.
    Sono più che d’accordo con lei e con Lo Vetere che l’autorità va meritata, e che oggi lo Stato italiano non se la merita. Ripeto solo una cosa, semplicissima ma, credo, molto importante: che non si deve contestare l’autorità manchevole contrapponendole la rinuncia a giudicare, cioè l’anarchia, ma costruendo un’altra autorità meglio fondata (lo so, non è facile).
    La sua idea di “traduzione” delle cultura umanistica mi sembra assai buona. Un’opposizione dei professori alle riforme sbagliate, e alla diminuzione del loro ruolo e della loro funzione, mi sembrerebbe una gran bella notizia. Ma non suggerisco ricette, il ristorante non è il mio.

  39. Pur essendo consapevole della parzialità della mia esperienza, prevalentemente vissuta nei licei (ma undici anni di insegnamento nella scuola media inferiore hanno contato, e non poco, nella mia carriera di insegnante) e sperando che il gesto non appaia eccessivamente narcisistico, invio, in virtù dei punti di tangenza con i temi trattati in questo dibattito, l’articolo pubblicato dal quotidiano online “VareseNews”, in cui ho tracciato il bilancio di tale esperienza subito dopo il passaggio dal ‘continente’ del lavoro a quello della pensione: http://www3.varesenews.it/scuola/articolo.php?id=242076 .

  40. Ho cercato di rileggere più volte il messaggio, per cercarne di capire delle cose e delle problematiche che probabilmente mi sfuggivano e mi possono sfuggire tuttora.
    Ritengo una porcheria l’abolizione delle bocciature; ritengo una porcheria questa elasticità e questa idea di elasticità portata all’eccesso. Per la creazione di corsi componibili c’è l’università, per chi la vuole scegliere. Io invece sarei per l’orientamento opposto: più bocciature e più intransigenza. La bocciatura non è sempre e solo un castigo. Non è così: a volte, anzi, spessissimo, è volta a proteggere lo studente che l’ha ricevuta. Non si può più pensare che con l’elasticità si risolvano le cose. C’è da insegnare la disciplina e un rispetto non tanto verso la scuola/corpo docenti/compagni (anche se ovviamente DEVE esserci), ma verso il culto del libro, verso il culto del sapere e della conoscenza. Non condivido affatto questa linea e, purtroppo devo ammetterlo, mi fa incazzare parecchio.
    Non c’è una soluzione alla crisi, se parte da una crisi di mentalità. Non voglio assolutamente paragonare dei ragazzi bocciati a dei criminali, ma si sta facendo lo stesso ragionamento del: “no dai, ha semplicemente ucciso 12 persone…non può rimanere a vita in carcere…non può rimanere 30 anni…ha collaborato…scontiamogli la pena….”.
    No.
    Una parola della quale si è persa l’abitudine di usarla.
    No.
    Perché ci sono delle volte in cui bisogna essere fermi, rigidi, saldi. Che insegnamento potremmo impartire riguardo il valore di un libro? Il valore di un insegnamento? Lo zelo nel conseguire un risultato, sia che fosse un dottorato, un apprendistato come meccanico, un calciatore, un impiegato postale, un commesso. Sono tutti lavori rispettabili. Ma quanto valore attribuiamo ad essi? Quanto al nostro lavoro?
    Non si può transigere in questo modo. E non raccontiamo sempre le solite cazzate che è uno spreco di denaro pubblico, perché se si desse più importanza a una formazione, si avrebbe un approccio diverso. Piuttosto vi dovrebbe essere un’analisi più dettagliata e approfondita di ciò che aspetta, ma la scuola è sempre stato un luogo blando, dove si va per cazzeggiare, “tanto passano tutti”.
    Basta con queste soluzioni sinistrorse di morbidezza pavida che non permette a delle future menti di crescere e di trovare il proprio posto. Il fallimento è IN-DI-SPEN-SA-BI-LE per poter crescere. E non mi si venga a dire: “la possibilità di scelta”, “un percorso personale” bla bla bla, perché c’è bisogno di ottimi maestri, non solo di ottimi studenti. Nel caso in cui più nessun studente scelga latino, cosa succederebbe a coloro che lo insegnano? Cosa succederebbe alla già negligente cura dei beni artistici e culturali? Quale insegnamento del “sacrificio”, si impartirebbe ai nostri figli?
    Quale?
    Ai tempi di Wilamowitz, Jacoby ecc. venivano impiegati al LICEO dei testi che oggi sono sconsigliati dalla maggior parte dei professori universitari, per la loro difficoltà. E ai tempi dei suddetti filologi si progredì nella ricerca. Non solo in quell’ambito, anche negli altri, dato che il rigore e la disciplina erano impartiti e la scuola non era un postribolo dove perdere tempo, per poi tornare a casa svuotati della già poca cultura che si aveva prima dell’ingresso.
    Il terribile nemico IGNORANZA/DISINFORMAZIONE/CRISI si controbatte con la MORALITÀ, con la STORIA e gli insegnamenti storici per poter cercare di prevedere il futuro (chi ha suggerito Keynes?), con l’IMPEGNO. Non vorrei mai che ai miei figli passasse il concetto che possono costruirsi tutto da soli, senza dover sudare, o facendo solo ciò che a loro piace. Per questo edonismo insensato basta la vita, bastano gli amici, bastano gli affetti. Ma l’impegno per ottenere l’amicizia, gli affetti, la coscienza di se stessi, dove si può apprendere, se non tramite la scuola?

  41. Modesta proposta: non si potrebbe cominciare a coltivare una sorta di ecologia del commento?
    Le questioni poste sono spesso interessanti, ma viziate da una logorrea inquietante che si avvita su se stessa scoraggiando chi abbia voglia di intervenire senza patetiche esibizioni. Questo sarebbe pur sempre un blog, non un pulpito…

  42. Ma a che cosa serve la scuola? Nel cercare di rispondere a questa domanda non meno politica che protologica e fondativa, sottesa a tutti gli interventi che si sono susseguiti in questo dibattito sulla scuola di cui la questione delle bocciature è soltanto un ologramma, il primo cómpito di ordine teorico che si pone è la demistificazione critica dell’ideologia individualista, oggi dominante, che concepisce la società come una serie di esseri isolati gli uni dagli altri che intrecciano tra loro relazioni di tipo utilitaristico e contrattuale, e guarda, di conseguenza, all’individuo come ad un microcosmo separato ed autosufficiente rispetto al contesto sociale, storico e culturale, in cui è invece profondamente inserito e da cui è profondamente condizionato. Dovrebbe ormai essere un’evidenza lampante la duplice necessità, per un verso, di cambiare ottica e, per un altro verso, tenendo ben presente l’assioma di Marx secondo cui “l’uomo è il mondo dell’uomo”, di guardare al problema (e ai problemi) dell’individuo come ad un ‘mondo’, per l’appunto, in cui tra l’intimità più profonda e l’esteriorità più assoluta non c’è, come nel nastro di Moebius, soluzione di continuità, sicché alla fine interno ed esterno risultano indiscernibili. D’altronde, a dimostrazione di quanto sia radicata nella storia del pensiero umano questa idea del ‘mondo dell’uomo’, anche Plotino osserva che «non esiste un punto dove si possano fissare i propri limiti in modo da poter affermare: ‘Fino a qui, sono io…» (“Enneadi”, libro VI). E risalendo dal filosofo neoplatonico ad un grande filosofo che si colloca sul limitare tra età moderna ed età contemporanea, non è proprio Hegel a rilevare che l’essere umano esiste unicamente in un universo di parole, di concetti e di cultura, che non lascia alcuna via di accesso ad una eventuale ‘realtà diretta’, laddove ciò non è dovuto a una qualche incapacità umana, ma piuttosto al fatto che il mondo fenomenico della cultura e dei concetti è, molto concretamente, il ‘mondo in sé’ del fenomeno umano?
    La seconda condizione, di ordine teorico, che occorre soddisfare per dare risposta alla domanda che costituisce il primo anello della catena dei perché concernenti la forma-scuola, è la riscoperta della sfera del desiderio, che è una sfera eminentemente relazionale e sociale, come dimostra Hegel in quelle pagine straordinarie della “Fenomenologia dello Spirito” sull’“Io e la concupiscenza o l’appetito” contenute nella sezione dedicata all’autocoscienza, dove il filosofo di Stoccarda definisce “lo Spirito” in questi termini: «Sostanza assoluta la quale, nella perfetta libertà e indipendenza della propria opposizione, ossia di autocoscienze diverse per sé essenti, costituisce l’unità loro: ‘Io’ che è ‘Noi’, e ‘Noi’ che è ‘Io’». Orbene, che altro è lo spirito, così definito, se non, molto concretamente e tutt’altro che astrattamente, il “mondo dell’uomo” di cui stiamo discorrendo? Tant’è che Hegel, nel suggellare una siffatta definizione dello spirito (cioè della società) come unità di “autocoscienze per sé essenti”, enuncia un aforisma, che è un vero e proprio manifesto della modernità: «Soltanto nell’autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di volta: qui essa, movendo dalla variopinta parvenza dell’al di qua sensibile e dalla vuota notte dell’al di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della presenzialità». Acquisita questa nozione dialettica, speculare e ricorsiva della società come “Io che è Noi, e Noi che è Io”, è giusto osservare, «‘inoltrandoci’ nel giorno spirituale della presenzialità», che ciò che oggi inquieta gli insegnanti è il fatto che la società attuale sembra non essere più in grado di proporre ai giovani la loro inclusione sociale come frutto e fonte di un desiderio profondo. Traducendo nel linguaggio della sociologia contemporanea, è il volto della “società liquida”, così definita da Zygmunt Bauman e in qualche modo già adombrata da Marshall Berman attraverso la sua riflessione sul rapporto tra modernismo e postmodernismo, laddove nel titolo stesso del suo libro il sociologo statunitense si serve di un’icastica citazione dal “Manifesto del partito comunista” – «Quando tutto ciò che sembra solido si dissolve nell’aria» – per mettere in risalto l’azione corrosiva esercitata dal capitalismo sulle strutture tradizionali delle società precapitalistiche e sulla stessa divisione tecnica e sociale del lavoro che caratterizza la società capitalistica: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali». Che altro è, questa, se non una perfetta rappresentazione – morfologica, avrebbe detto Antonio Labriola – della dinamica disgregante della globalizzazione? Marx aveva infatti compreso la potenza della produzione capitalistica, che è insieme creazione e distruzione, che produce insieme nuovi rapporti sociali e rifiuti sociali ed emarginazione, poiché – come afferma Foucault in un’ottica biopolitica – «la società moderna può far vivere alcuni e farne morire altri». Sennonché le passioni generate da questa società e dalla sua cultura sono definibili, con un’espressione che Benasayag e Schmit hanno mutuato da Spinoza, ‘passioni tristi’ (senso di minaccia, senso di incertezza e senso di impotenza). Come fare allora a riscoprire la potenza del desiderio di imparare e di capire, perché questa – come aveva visto Freud – è la vera motivazione dell’apprendimento? Solo sgombrando il campo dall’ideologia individualistica e utilitaristica, che uccide questo desiderio oppure lo perverte piegandolo ai fini della competizione, all’insegna dei princìpi animalistici dello ‘homo homini lupus’ e del ‘bellum omnium contra omnes’, è possibile, nel passaggio dalla libido narcisistica alla libido oggettuale, ossia mediante la sublimazione della libido, far emergere il fondamento stesso dell’apprendimento, la pulsione epistemofilica, laddove questa espressione indica la capacità del soggetto in formazione di aver desiderio di imparare, consacrando una parte della sua libido agli oggetti del mondo che deve apprendere, comprendere e abitare. Dovrebbe essere chiaro che questo è lo spazio ideale in cui si situa la definizione della scuola formulata da Riccardo Massa: il passaggio, per usare un linguaggio teologico, dallo ‘status naturae deiectae’ allo ‘status naturae redintegratae’ (laddove cade l’aspetto che può sembrare “adamitico” ed emerge il senso profondo, materialistico ed antifeticistico, di quella definizione della forma-scuola). Insomma, se la risposta che viene data alla domanda radicale “a che cosa serve la scuola?” è quella secondo la quale la scuola serve a preparare per il mercato del lavoro, giacché non si dice che la scuola serve anche ad aiutare i ragazzi e le ragazze a prepararsi per il mercato del lavoro, ma si dice che la scuola serve essenzialmente a questo, appiattendo così la scuola sulle richieste del mercato e delle aziende, ebbene allora in una scuola così non c’è ovviamente posto né per la “rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo” né per la pulsione epistemofilica che costituisce la radice di tali esperienze. (Vale la pena di notare che un tema identico risuona nella rivalutazione della conoscenza come ‘valore in sé, operata dal filosofo Charles Larmore nella conversazione pubblicata in questo stesso sito). È chiaro, d’altra parte, che in un modello di scuola come quello imposto dalla triade Ue-Bce-Fmi e supinamente attuato dai vari governi che si sono succeduti in questo ventennio, non vi è più posto per l’apprendimento, ma, al massimo, per l’addestramento, come sosteneva Lucio Russo nel libro “Segmenti e bastoncini” ai tempi della riforma Berlinguer, stigmatizzando la “deconcettualizzazione dell’insegnamento”. Sicuramente l’apprendimento scolastico è anche ‘utile’ al soggetto in formazione, perché se ne può servire nella vita quotidiana. Ma è, in primo luogo, il frutto del desiderio e della pulsione epistemofilica, e non di un semplice utilitarismo. Inteso in questo modo, il desiderio è invece, senza dubbio, ciò che pone in relazione con gli altri e, in tal senso, si accorda con le nozioni di molteplicità e di pluralità. Il desiderio pone in relazione, crea legami, mentre l’educazione finalizzata alla competizione implica che “ci si salva da soli”. Nella competizione, infatti, si è, per definizione, “contro gli altri”.
    Ritengo pertanto che, come insegnanti, se vogliamo che le bocciature siano l’eccezione e non la regola, dobbiamo lavorare nella direzione del legame sociale, del legame scolastico e, in generale, del legame come forma di vita: in questo senso, la scuola e l’educazione alla cittadinanza, di cui essa è il motore principale, devono mirare alla formazione e alla rifondazione dei legami. È precisamente questo obiettivo che rende necessaria la demistificazione del mito ‘robinsoniano’ secondo cui la nostra società è popolata da individui che si pensano come soggetti che stabiliscono contratti tra di loro e con l’ambiente che li circonda, obliterando ogni appartenenza ontologica e scambiando la mappa con il territorio, ossia la griglia di lettura che permette di osservare una realtà – giacché nessuno nega che l’individuo sia reale – con ciò che essa permette di osservare.

  43. Egregio Mauro Piras,

    nessuna ‘sacralizzazione’ dei programmi, anche se mi accorgo di confutarle un’affermazione che a ben vedere non comprendo chiaramente. Lei capirà che se un esame prevede lo studio della “Vita nova”, e che se il candidato non sa dirmi che uno dei modelli sono i “Confessionum libri XIII” di sant’Agostino, e che, se una volta che glielo ricordo domandandogli in quale epoca questa santo visse, mi risponde: “ai tempi di cicerone”, replicandomi (una volta ricordatogli che siamo ben dopo, e logicamente, la nascita di Cristo): “beh, e allora SAN Giuseppe?!”; ecco, lei capisce che nessuno vuole ‘sacralizzare’ il programma, ma semplicemente testare la preparazione di uno studente sulla base di un percorso proposto.
    E così a scuola, dove pure ho insegnato (medie e licei) e dove ho sempre cercato di proporre tracciati alternativi rispetto alle solite gincane istituzionali.
    Non si tratta di “sacralizzare” quanto si chide agli studenti; si tratta (questo era il senso, che forse le è sfuggito per non essermi spiegato chiaramente) di dare ai ragazzi la possibilità di “riscattarsi” in ogni momento della loro vita di scolari e discenti alla luce di una preparazione che sia giudicata nel gesto stesso della sua espressione, senza che la valutazione sia inficiata da giudizi d’ordine pregresso. Voglio dire: del suo interessante intervento io mi sono concentrato sulla parte in cui lei conclude dicendo: “Se lì è scritto che di greco non sai niente, questo conta.” Ecco, questo invece, a mio avviso, non conta proprio nulla. Un mio collega, esimio filologo, ha insegnato greco in un liceo pur avendo fatto lo Scientifico, cioè se lo è studiato da solo. Viceversa, quanti studenti provenienti da una scuola in cui quello per lei “conta” era ben attestato, si sono invece dimostrati insipienti e privi di motivazione (al contrario di molti altri, che arrivavano da istituti tecnici, con tutte le lacune del caso, ma che rivelavano una passione e un interesse che ho sempre premiato).
    Quindi, a proposito di “sacralizzazioni”, con tutto rispetto a me sembra che sia lei a “sacralizzare” una cosa che non ho mai sopportato, nella sua valenza ‘metaforica’, ovviamente: le “carte d’identità”, perché, come ribadisco, ritengo che l’identità (culturale) di una persona non sia una stigmate, ma un qualcosa che si produce nel corso del suo farsi stesso, aprendosi alle possibilità che il singolo avrà voglia di darsi a seconda del suo impegno e dei suoi desideri.
    Cordialmente
    LP

  44. @ Piantoni

    Solo per dire che mi tocca deviare i suoi fulmini da Piras al sottoscritto (se non mi sfugge qualcosa del suo ultimo intervento…) perché della famigerata frase (“O sulla sacralizzazione dei programmi che intravvedo nella posizione di Piantoni?”) son io l’autor…

  45. @Dfw vs Jf. Guardi, non voglio iniziare una diatriba con lei, per cui sarò breve e poi mi eclisso (ovviamente lei ha libertà di replica se crede, figurarsi).
    Volevo solo, a onore del vero e a discarico degli imputati, precisare che l’affermazione “alla maggior parte dei ragazzi alle superiori non frega niente di quello che studiano” è solo una sua personale e rispettabile opinione. Probabilmente lei sovraestende a tutti la sua personale esperienza.
    Dopo 9 anni di mestiere e dopo aver conosciuto centinaia di ragazzi, potrei farle un lungo elenco di nomi e cognomi a sonora smentita (e si fidi, ché tanto l’elenco non posso farglielo per ragioni di privacy!).

    Saluti

  46. @ Lo Vetere

    a parte che non capisco perché dovremmo cominciare una diatriba e non una conversazione, e inoltre se i miei modi e pensieri la irritino, cosa spiacevole perché a me piace leggerla (come i commenti di tutti, tranne quelli di Abate :-) ) e commentare qua. Per mia esperienza intende la mia personale o quella che mi ha permesso di conoscere altri studenti? chiaramente non conosciamo le cifre, e io ho generalizzato e magari esagerato, ma non mi risponda che invece lei ne conosce eccetera. mica ho detto tutti. e poi “imputati”. mica stavo criticando gli studenti perché se ne fregano, è normale. sarebbe preoccupante il contrario. io direi che una metà si impegna il giusto, ma si impegna controvoglia, non certo per amore delle materie, e non è una critica. poi c’è un quarto che si fa il culo e un quarto che se ne frega. e poi varia a seconda se parliamo di liceo o di istituti tecnici. è lei che si è chiesto il perché dopo aver letto l’esperienza di paniscus no? un mio amico si sogna spesso di rifare il quinto perché dopo essersi impegnato dal primo al quarto, l’ultimo anno la sua classe era talmente casinara che mollò pure lui.

  47. Caro Mauro Piras,
    ho letto con estremo interesse il suo intervento e vorrei sottoporle alcune osservazioni. Muovo da due assunti. Il primo. Concordo sul fatto che la scuola così come strutturata non risponde più alle esigenze di inclusività che – a mio avviso – dovrebbero contraddistinguere tale istituzione educativa in un contesto democratico. Il secondo: sarebbe auspicabile una qualche forma di sperimentazione dapprima su piccola scala – controllabile, verificabile e correggibile – di modelli differenti dagli attuali, magari con le caratteristiche individuate nell’articolo. L’assenza di una tale cultura riformistica dal panorama politico italiano è cosa nota.
    L’oggetto della mia riflessione è il seguente: l’abolizione del gruppo classe e la conseguente privatizzazione dei percorsi formativi, modellati sull’esempio anglosassone, che impatto ha a livello formativo? Non rischia di acuire e esasperate forme d’individualismo, congedando definitivamente la possibilità che gli studenti hanno di doversi rapportare, per necessità e/o per forza, a tematiche riguardanti l’interesse comune? La classe rimane ancora il luogo in cui è possibile esercitare (o tendere) a forme minime di pratiche democratiche e a ragionare in termini universalistici. Inoltre senza un gruppo classe come potrebbero collocarsi percorsi di inclusione formativa specifici per studenti diversamente abili?
    Sollevo un ultimo quesito di non minor importanza. Come tenere assieme la proliferazioni di percorsi curriculari individuali con gli organici e discipline che, se affidate al ‘mercato’ potrebbero scomparire molto più rapidamente di quanto già non stia avvenendo?
    un saluto
    Vincenzo Sorella

  48. @ Dwf vs Jf

    Mi scusi, probabilmente ho sbagliato il tono. In ogni caso l’accento voleva essere sul “non voglio iniziare una diatriba”, non su “con lei”, come se lei in particolare non fosse degno di conversazione. Mi premeva solo sottolineare una cosa soltanto, limitata, del suo discorso, ma senza enfasi eccessiva.
    Le sue opinioni non mi irritano, però alcune non le condivido radicalmente.
    Nella fattispecie, trovo che affermare “la maggior parte alle superiori o fa il minimo indispensabile o non fa nulla perché non gliene può fregare di meno di imparare cose che non servono, in un posto in cui ti ci hanno mandato e che ti giudica e che comporta conseguenze con i genitori e per il futuro”, sia, come dire?, mettere un macigno sulla scuola, su ogni forma di apprendimento e un modo troppo sbrigativo per liquidare un’istituzione che per quanto in difficoltà ha comunque pur sempre un certo peso. Per questo volevo solo ricordare che esistono invece moltissimi studenti che a scuola ci vanno diciamo non malvolentieri (diciamo che, di default, a ogni essere umano piacerebbe stare in vacanza tutta la vita e non dover faticare: poi però sappiamo anche apprezzare quello che di buono ci viene dalla fatica). Il dire “io ne conosco tanti ecc…” è, me lo consenta, solo l’affermazione di chi parla con cognizione di causa perché del settore.

    Saluti

  49. @ Lo Vetere

    capisco, non volevo sembrare negativo nel commentare, cercavo di mettere nella frase sentimenti e pensieri ( a che cazzo serve la matematica penso che l’abbiamo sentita tutti almeno una volta ), senza porre giudizi, né verso gli studenti né verso la scuola, che penso abbia dei difetti banali.

  50. sempre per Dwf vs Jf:

    scusami, ma mi pare che tu continui a non rispondere alla domanda diretta che ti è stata posta: come mai, nella tua visione, il fatto che “tipicamente i ragazzi non abbiano voglia di studiare” dovrebbe implicare automaticamente l’opportunità (o magari anche l’obbligo) di promuoverli lo stesso?

    Mettiamo pure che sia vero, come dici tu, che quasi tutti gli studenti non abbiano il minimo interesse per la scuola e che ci vadano senza nemmeno sapere bene il perché, solo perché qualcuno ce li ha mandati (fino a una certa età, perché c’è anche un obbligo di legge… ma anche dopo quell’età, presumo che tu intenda dire che si sentano “psicologicamente” obbligati lo stesso, o per pressioni dei genitori, o perché non saprebbero che altro fare).

    A parte il fatto che, come dice qualche collega sopra, questo non è così universale come sostieni tu, ma ammettiamo pure che sia vero: *non l’hanno chiesto loro di andare a scuola, avrebbero preferito di gran lunga non andarci, ma ci vanno solo perché obbligati*.

    Allora, potresti spiegare meglio perché mai, da questo, dovrebbe discendere il diritto ad essere promossi e a prendere dei titoli di studio anche senza aver imparato nulla?

    In pratica, mi sembra che il tuo punto di vista (attribuito al ragazzino, ma apparentemente da te condiviso) sia più o meno quello dell’alunno svogliato che, accettando di venire a scuola, è convinto di essere lui a stare facendo un piacere o una concessione ad altri… e quindi pretenderebbe che questo favore gli fosse ricambiato, riconoscendogli il diritto di stare a scuola, sì, ma senza nessun impegno e nessuna fatica, ed essere promosso lo stesso.

    Come a dire: visto che siete “voi altri” (nel senso di adulti, di famiglia, di insegnanti, di società, di mondo, di sistema, eccetera) che ci tenete moltissimo che io venga a scuola, eccomi qua, io vi ho accontentati, e allora almeno ripagatemi dandomi il diploma, per il solo fatto di essermi presentato. E’ già tanto che io abbia fatto lo sforzo di essere presente, solo perché lo pretendevate voi, adesso non vorrete mica che mi metta anche a studiare!

    Bisognerebbe intendersi su cosa vuol dire “obbligo scolastico”, o “diritto-dovere allo studio”, allora.

    Perché non credo proprio che il concetto originario fosse limitato all’obbligo di stazionare controvoglia in un edificio scolastico, anche senza imparare nulla, purché si faccia la presenza.

    “Obbligo scolastico” significherebbe, per l’appunto, anche obbligo di studiare, di impegnarsi, obbligo di prendersi una certa responsabilità di ciò che si impara, e obbligo di farsi valutare per quello che si è o non si è imparato. Il fatto che questo al ragazzo “non piaccia” o che non ne abbia voglia, francamente, non è molto rilevante: fa parte del concetto di “obbligo”, esattamente come il fatto di presenziare a scuola.

    Quindi, i casi sono due: o si abolisce completamente l’obbligo scolastico, come si è abolita la leva militare obbligatoria… oppure, se si accetta che l’obbligo scolastico ci sia, si accetta anche che INCLUDA un minimo indispensabile di obbligo di impegnarsi, con obbligo di sottostare a verifiche, giudizi ed eventuali bocciature. Altrimenti, che senso ha?

    saluti
    Lisa

  51. Ah, aggiungo un’ulteriore precisazione:

    se oggi ci sono tanti adolescenti che possono permettersi di vivere il concetto di “obbligo scolastico” o di “diritto-dovere allo studio” come una vessazione, o comunque come un’ingiustificabile intromissione nelle loro libere scelte di vita, è per un motivo molto semplice: che pensano che l’alternativa sia quella di starsene tutto il giorno a divertirsi, senza alcuna responsabilità personale, e dando per scontato un certo livello di benessere economico e sociale che piove dal nulla, e che consente loro di accedere a tutte quelle comodità e divertimenti.

    Se qualcuno ha fatto credere loro che, se solo non fossero “costretti” ad andare a scuola, sarebbero liberi di di passare le giornate alzandosi con comodo a mezzogiorno, non rifarsi nemmeno la propria stanza da soli, ritrovarsi pronto tutto ciò che serve, rigorosamente lavato, stirato e cucinato da qualcun altro, passare qualche ora abbarbicati alla playstation, a facebook o allo smartphone, e poi andarsene per qualche altra ora in giro col motorino, frequentare (al massimo) l’allenamento di calcio o di basket, e poi far tardi la sera in discoteca o al bar…

    …e grazie alla brassicacea(*) che “vanno a scuola solo perché costretti”, e che preferirebbero di no!

    Se l’alternativa fosse quella di andare a lavorare, o di collaborare a tempo pieno alle attività comuni di casa mentre gli altri membri della famiglia sono fuori a lavorare o a studiare, allora la fantasia si ridimensionerebbe!

    Il concetto di “obbligo scolastico”, in origine, non era concepito come rivolto direttamente ai ragazzi, bensì alle famiglie: in una società molto più povera e più ignorante di adesso, spesso i ragazzini (e non parlo solo di adolescenti, ma anche di bambini in età da elementari) non venivano fatti studiare perché i genitori preferivano mandarli a lavorare precocemente per contribuire al mantenimento di tutta la famiglia. Per cui, l’esigenza dell’obbligo scolastico non nacque perché bisognava acchiappare il ragazzino recalcitrante e costringerlo ad andare a scuola controvoglia, altrimenti lui avrebbe preferito starsene a giocare tutto il giorno, bensì nacque perché era opportuno obbligare *i genitori* a mandare il figlio a scuola per il suo bene, invece che sfruttarlo economicamente, anche se questo andava momentaneamente contro gli interessi della famiglia.

    Più chiaro, adesso?

    saluti
    Lisa

    ——————————————–

    (*) brassicacee: nome scientifico delle piante della famiglia dei cavoli :)

  52. Il discorso è complesso. Capisco (bene, mi sembra) perché Mauro Piras proponga un ragionamento di tal genere, perché spesso, specie in un contesto di triennio conclusivo della scuola superiore e liceale (quale è quello cui implicitamente fa riferimento), certe bocciature sembrano inutili e poco significative.
    Nello stesso tempo io sono d’accordo con Paniscus: il triennio conclusivo e i licei non costituiscono la parte preponderante della popolazione scolastica, anzi. E, pur essendone fetta rilevante, non è su solo su di loro che (anche) a mio avviso si possa costruire un modello di riforma (anche) delle bocciature, o meno.
    Se si insegna in contesti come professionali o tecnici si capisce bene come questa proposta in questi luoghi rischi di avere poco senso. Non solo per tutti i motivi socio-educativi che ben ha esposto Paniscus, ma per il motivo banale che io scuola chiedo al ragazzo di seguire e scegliere di formarsi in quella scuola professionale o tecnica per avere alla fine un diploma, certo, che ha valore legale, ma un diploma che è già molto indirizzato in un certo settore. Voglio dire: se io esco da una scuola tecnica Perito Geometra, e per tre anni sono risultato insufficiente in Topografia, Costruzioni ed Estimo, cioè le materie che qualificano il mio essere Geometra (e che incidentalmente sono quelle ‘per colpa delle quali’ maggiormente si boccia), beh, banalmente, un diploma preso al termine del quinquennio in tutte le altre meno quelle dequalifica alla base le ragioni del mio diploma da Geometra. Lo stesso vale per tutti gli altri periti, ovviamente, e anche e maggior ragione per i diplomi professionali.
    Allo stesso modo, credo che sia molto difficile da applicare prima della fine della scuola dell’obbligo. Perché quell’obbligo io credo debba garantire, anche, un’istruzione di base pubblica e nella buona sostanza comune a tutti. Ancora una volta, pena, a mio avviso, la perdita del concetto di scuola pubblica così come è stata intesa nel contesto della scuola italiana. (Ovviamente un ragionamento del genere prevederebbe di avere poi un diploma di studi al termine dell’obbligo, e non al termine della scuola media inferiore – altrimenti il biennio diventa quella terra di nessuno che Paniscus ricordava, nel quale le bocciature accadono per motivi spesso diversi da quelli ricordati da Mauro Piras).
    Io credo che le bocciature dovrebbero essere rimeditate, certo. Ma che sia possibile rimeditarle dando loro una funzione più contingente e meno definitiva. Mi spiego: la scuola italiana è quel luogo nel quale essere bocciato viene descritto nella vulgata come “perdere” un anno. Una volta finita la scuola, viceversa, in Italia almeno gli anni persi si moltiplicano (sia all’università, sia altrove), ma la definizione, specie appena usciti dalle superiori, cambia. Diventano “sabbatici”, di “pausa”, “di attesa”. Beh, forse sarebbe tempo di iniziare a pensare che l’unico anno non “perso” è quello proposto da una scuola che ti propone di prenderti il tuo tempo, magari valutando che sia meglio per te recuperare dei concetti in modo nuovo.

  53. Rispondo alle critiche che ho lasciato in sospeso, e alle nuove.

    Caro Barone,
    non vedo che cosa c’entri il neoliberismo. La questione delle scelte degli studenti dovremo porcela, prima o poi, visto che, dalle medie in su, in genere la scuola italiana è incapace di fare una didattica differenziata, mentre solo questa può essere una risposta adeguata alla dispersione. Il valore legale del titolo di studio non si perde, perché gli indirizzi, con discipline comuni per tutti, secondo me, dovrebbero rimanere, per quanto più flessibili. Ciò implica che ovviamente nessuno potrebbe arrivare in fondo senza fare matematica; potrebbe benissimo arrivare in fondo senza saperne niente, ma capita già ora. L’abolizione delle bocciature va collocata certo nell’ambito dell’efficacia di tutto un ciclo scolastico; ma questa efficacia è trascurata del tutto quando la soluzione è espellere uno studente dal ciclo stesso. Quanto al carattere educativo della bocciatura, ho molti dubbi: di fatto oggi, per non arrivare alla bocciatura, si abbuona molto; se lo sbocco non è la bocciatura, la valutazione sarà invece sempre onesta. Non ci sarà nessuna balcanizzazione del sistema scolastico se si mantengono degli indirizzi e delle discipline comuni, per quanto con una certa flessibilità; invece, oggi, la differenza enorme dei risultati e dei modi di valutare, non solo da regione a regione, ma da scuola a scuola e spesso anche da consiglio di classe a consiglio di classe, testimonia già di una enorme balcanizzazione in atto.
    Quanto al suo secondo intervento, non credo di avere le competenze per commentarlo.
    Sulla funzione della scuola, che lei affronta nel terzo lungo intervento, ho già scritto un testo su questo blog; è molto limitato, c’è molto da aggiungere e criticare, ma non è questo l’argomento qui.

    Caro Piantoni,
    la certificazione di un titolo, di qualifiche o competenze ha ovviamente un rapporto molto lasco, a volte, con la nostra identità (cfr. Szymborska “Scrivere il curriculum”). Però queste qualifiche servono: serve che le persone possano fare un percorso di formazione, e che questa formazione sia attestata. Ci piacerebbe che fosse attestata sempre correttamente, che non si trattasse solo di fogli di carta dietro cui c’è il nulla. Io credo che se si certificano le competenze effettivamente maturate alla fine di un percorso, per ogni singola disciplina, si realizzi meglio questo obbiettivo. Se, dopo, la persona in questione cambia e impara quello che non ha imparato, è una questione che in parte può essere risolta con la formazione permanente, di cui in Italia quasi nessuno si occupa.

    Caro Buffagni,
    d’accordo sulla distinzione, ma ovviamente anche la formazione conta tra i fattori che entrano in gioco per trovare un lavoro (per quanto possa essere in misura limitata). In ogni caso, ci poniamo dei problemi di formazione non solo in vista del mercato del lavoro.
    Nessuno qui propone di abolire le valutazioni (anzi: la valutazione diventa importantissima, se la soluzione a portata di mano non è la bocciatura), né i programmi. I professori avranno tantissimo da fare se devono aiutare gli studenti ad apprendere senza potersene liberare facilmente.
    Il dovere dello stato a valutare viene rispettato di più nella mia proposta (o simili): ho già scritto che di fatto, ora, molto spesso, per non far perdere un anno a una persona si chiude spesso un occhio e si arrotonda un cinque a sei, se non peggio. Io propongo che il quattro o il cinque restino tali, perché questo non comporta la perdita dell’anno. La valutazione sarebbe onesta.
    Ovviamente, si dirà: ma allora ai concorsi perché si boccia? (Lei fa l’esempio della magistratura, in teoria vale per tutti i funzionari pubblici ecc.). Perché i concorsi devono selezionare; e aggiungo: anche l’università deve selezionare. In entrambi i casi infatti si devono formare delle specializzazioni.
    La scuola invece, almeno nell’ambito dell’obbligo, non deve selezionare: la sua funzione non è formare delle specializzazioni.

    Cara Elisa,
    io non propongo di “lasciare le materie”. Propongo o di poter cambiare indirizzo modificando il piano di studi, o di ripetere il corso di una materia. Nel caso di materie fondamentali (matematica, per es.), lei avrebbe potuto ricominciare il corso dell’anno precedente, senza lo stress di cui parla, e andare avanti nelle altre materie. Quanto alle materie di indirizzo (tedesco, economia aziendale) io credo che si dovrebbe poter scegliere, all’inizio, se cambiarle, e quindi cambiare indirizzo, oppure se fare come per le altre. Ovviamente, non si può cambiare indirizzo in qualsiasi momento.

    Caro Abate (secondo intervento),
    io mi pongo modestamente l’obbiettivo di cambiare qualche istituzione che mi sembra sbagliata. Io e lei siamo d’accordo su alcuni obbiettivi di base; perché non cercare di farle queste riforme fattibili? Anche, ovviamente, discutendo su quello che si deve insegnare a scuola, non solo della forma della didattica.

    Caro Matteo Pelle,
    lei pensa di insegnare con la punizione il valore di quello che si fa. La punizione è pertinente quando c’è la violazione di una norma, non in un processo di apprendimento. Non mi sembra che l’esistenza da sempre delle bocciature abbia generato nei nostri studenti il rispetto dell’istituzione, della cultura e degli insegnanti; e questo si vede proprio dove si boccia di più.

    Caro Vincenzo Sorella,
    grazie per le osservazioni, sono molto interessanti.
    L’abolizione del gruppo classe potrebbe in effetti ridurre delle possibilità di confronto democratico, quelle appunto interne alla classe. Restano però tutti gli altri livelli. E comunque vediamo tutti quanto sia debole la partecipazione democratica negli organi assembleari degli studenti, ridotta di fatto alla soluzione di problemi pragmatici (organizzare le interrogazioni programmate, in classe).
    Ripeto che non penso a un sistema del tutto individualistico: penso che solo una parte del curriculum possa essere a scelta. Ma soprattutto penso a una flessibilità nel passaggio tra indirizzi; gli indirizzi però sono definiti dallo stato, non dagli studenti. E con questo rispondo anche al tuo ultimo dubbio.

    Cara/o ‘povna,
    rispondo per punti (alcuni dei quali riprendono problemi sollevati da paniscus e altri, così spero di spiegarmi meglio).
    1) Le bocciature sono un problema sociale proprio per i tecnici e i professionali, perché lì le percentuali sono molto più alte e la bocciatura si trasforma quasi sempre in dispersione scolastica, cioè espulsione da qualsiasi sistema di formazione. Quindi proprio in questo contesto si dimostrano inutili.
    2) Proprio perché nei tecnici e nei professionali il diploma serve immediatamente per il lavoro, eliminare le bocciature e istituire un diploma per competenze differenziate responsabilizza gli studenti e le famiglie più delle bocciature e del diploma onnicomprensivo. Lo studente sa che se non fa niente esce con un diploma che dice che non ha imparato niente o quasi. Che interesse ha a questo? Che interesse ha una famiglia ad avere un simile risultato?
    3) E’ ovvio che la certificazione riguarda in primo luogo la scuola dell’obbligo, ma è già così adesso, per quanto in modo molto confuso.

    Ringrazio tutti per gli interventi, e anche per i dibattiti appassionati. Mi rendo conto di aver lasciato molte questioni sul tappeto, soprattutto perché non riesco a seguire i dibattiti tra i commentatori stessi. Ma la questione è aperta.
    mp

  54. Caro Piras,
    grazie della replica. Lei che lavora nella scuola ne sa più di me. Dopo le sue precisazioni, mi restano questi due dubbi:
    1) il sistema da lei proposto somiglia a quello della high school anglosassone. Quella l’ho vista, ed è un disastro dove è povera, mediocre dove è ricca. Ho l’impressione che nella routine che si instaurerebbe, si seguirebbe quella strada (dalla quale diverse voci anglosassoni discutono di recedere). In sintesi: il tutoraggio personalizzato che la sua soluzione esige, nella pratica quotidiana si tradurrebbe, proprio nei casi in cui servirebbe di più e cioè nelle situazioni degradate, in un rafforzamento della pratica di “chiudere un occhio” e “lasciar perdere” i ragazzi meno motivati o capaci già oggi frequente.

    2) recentissimamente il Ministro Carrozza ha varato una norma che toglie, dal calcolo del punteggio per i test di ammissione all’università, il voto di maturità. Ora, l’esame di Stato ha rilevanza costituzionale (art. 33), i test universitari no. A parte lo sbalordimento da me provato per un simile pasticcio, questo è un altri sintomo di una tendenza molto forte, quella di spossessare lo Stato delle sue prerogative e dei suoi compiti.
    Il diritto/dovere dello Stato, anche in materia di scuola, non è infatti quello “di selezionare”, ma quello di “verificare la legittimità” dei titoli. (Faccio notare en passant che con il pretesto dello snellimento burocratico, allo Stato è stata tolta la verifica di legittimità di atti quali gli appalti pubblici, con il risultato di aumentare la corruzione, le inefficienze e i conflitti di attribuzione tra livelli giuridici).
    La valutazione, in ambito concorsuale o scolastico, è un momento di questa verifica di legittimità. Ho fatto l’esempio del magistrato perché i poteri conferitigli dallo Stato sono grandi e immediatamente comprensibili da chiunque, ma lo stesso vale per il geometra, per il perito elettrotecnico, e anche per il liceale, che una volta dichiarato maturo dovrebbe poter accedere alle facoltà universitarie senza test di sorta (il numero chiuso va bene, ma allora si creino commissioni d’esame di Stato molto qualificate ed esigenti, e in ragione dei risultati da esse certificati si consenta l’accesso alle varie facoltà, come avviene per esempio in Turchia).
    Lo stesso obbligo scolastico non prevede, né deve prevedere, la promozione garantita per tutti, altrimenti si tramuta in obbligo di parcheggio dei figli, che non è lo scopo per cui fu istituito. Semmai, volendo cercare esempi in Europa, varrebbe la pena di esaminare il sistema di valutazione attitudinale precoce che vige in Germania.

  55. Mauro Piras:
    Proprio perché nei tecnici e nei professionali il diploma serve immediatamente per il lavoro, eliminare le bocciature e istituire un diploma per competenze differenziate responsabilizza gli studenti e le famiglie più delle bocciature e del diploma onnicomprensivo. Lo studente sa che se non fa niente esce con un diploma che dice che non ha imparato niente o quasi. Che interesse ha a questo? Che interesse ha una famiglia ad avere un simile risultato?
    ———————————————————————————–

    Scusa la banalità, ma… non pensi che l’eventuale situazione da te prospettata come possibile “miglioramento” e “rinnovamento”, di fatto, esista GIA’ adesso, e non produca affatto gli effetti responsabilizzanti che ipotizzi tu?

    Ovvero, parliamoci chiaro: se uno esce dall’istituto agrario o dal tecnico industriale con un diploma preso con due anni di ritardo e con un voto estremamente basso, e va a cercare lavoro nel suo settore tecnico, portandosi come unica credenziale quel diploma… non è esattamente la stessa cosa che descrivi tu, ovvero andarsene in giro con un diploma in cui “c’è scritto chiaramente che non ha imparato niente o quasi”?

    Eppure non mi sembra che l’effetto funzioni da deterrente, o tantomeno da “responsabilizzante”, come dici tu.

    Al contrario, ci sono famiglie che pretendono che il figlio (ormai ampiamente al di sopra dei 20 anni) arrivi al diploma, in qualsiasi modo, in qualsiasi condizione, con qualsiasi voto, purché ci arrivi… pur mettendo in conto già in partenza che quel diploma non gli servirà a niente, e che quasi sicuramente andrà a fare un lavoro che non c’entra niente con l’indirizzo di studi fatti (e che avrebbe potuto benissimo fare anche senza diploma, o con un qualsiasi altro diploma completamente diverso).

    Però continuano a dire che “il diploma è indispensabile”, e che il figlio DOVRA’ continuare ad andare a scuola “anche se dovesse bocciare fino a 25 anni”.

    La motivazione formale è che sono preoccupati perché “altrimenti non troverebbe lavoro”, ma in realtà lo sanno benissimo che NEMMENO con un diploma preso a quel modo, si trova lavoro, o tantomeno un lavoro attinente al titolo conseguito.

    Mi pare evidente che ci sia dietro una motivazione psicologica e simbolica piuttosto complessa, e che sia troppo semplicistico attribuire tutta la “colpa” alla strutturazione dei corsi scolastici, o al famigerato “valore legale del titolo di studio”, che ogni tanto viene messo in dubbio in maniera completamente casuale e poco comprensibile…

    Lisa

  56. Colgo la scusa della gender precisazione (sono femmina) per ringraziarti delle risposte, ma anche per ripetere che, proprio per i motivi che tu dici, secondo me proprio nei professionali e nei tecnici a mio avviso si dovrebbero motivare le bocciature (nel senso che spiegavo cursoriamente alla fine del mio commento precedente), non abolire. Del resto, tredici anni in un tecnico per scelta, e non ho mai visto una, e dico una, dispersione scolastica in seguito a una bocciatura motivata.
    Stessa cosa per il diploma: un diploma di elettrotecnica senza TDP, Telecomunicazioni, Impianti o Elettronica, non è un diploma ‘leggero’, non è un diploma punto e basta, soprattutto considerando il fatto che la specificità del tecnico non solo “serve immediatamente per un lavoro”, ma ti dà(va) una qualifica ( di perito, o addirittura il diritto di tirocinare per iscriverti a un albo professionale). Vero è che la Gelmini ha cercato espiantare molto di tutto questo, ma io credo che la scuola tecnica abbia senso se forma periti, e un diploma di perito, o di futuro professionista dopo due anni di tirocinio non può uscire con un diploma ‘leggero’, ma con quel diploma lì, con quelle competenze lì (cioè quelle materie che, statistiche alla mano, sono quelle che maggiormente determinano la bocciatura).
    La certificazione che è ora obbligo nella scuola dell’obbligo, perdona il bisticcio, non è un diploma con valore legale, ma una certificazione di competenze per aree lo sai meglio di me che serve per coloro che terminano l’obbligo scolastico e non l’obbligo formativo. La spendibilità di quel pezzo di carta sul mercato del lavoro varia dai contesti, ma è comunque bassa. E di certo non è un titolo aggiuntivo nei concorsi statali. Quello che dico è che l’obbligo scolastico deve coincidere con un diploma vero, dal valore legale, che sancisca, ritualmente, legalmente e amministrativamente, il termine di un ciclo di studi. Ora, avere un diploma che termina alle medie e un obbligo a sedici anni aumenta la dispersione – anche qui ci sono statistiche – in progressione geometrica. Perché (vedi anche l’eliminazione della qualifica al Professionale, dopo il terzo anno), se sei già nell’ottica di cercare presto un lavoro professionalizzante subito, quei due anni li vivi come un parcheggio che non ti dà nulla, sulla carta, da spendere mai più. E questo è un grosso problema.
    Ciao e ancora grazie (e scusa la rapidità)!

  57. Alcuni problemi, temo scottanti.

    1) Abolizione del valore legale del titolo di studio. Non l’ho voluto tirare fuori io, visto che è tema scabroso, ma anche a me è venuto in mente subito. Siccome Lisa l’ha tirato fuori, via, sdoganiamolo.
    La proposta di Mauro non equivale a quell’abolizione, anche se, nella sostanza, ne ha qualche tratto, a me pare.
    Che cosa garantisce l’attuale valore legale? Quello che dice Buffagni: lo Stato si fa garante del contenuto e del peso formativo del titolo. Chi ne propone l’abolizione, mi sembra, lo fa perché crede che ormai quella garanzia sia la garanzia di un contenitore senza contenuto. Conta invece ciò che effettivamente si è appreso. Non si boccia, ma si dice esplicitamente: di latino o matematica non hai mai raggiunto la sufficienza. Non hai le “competenze”. Chiaro che si giunge alla vera e propria proposta di abolizione del valore legale solo se si collega tutto ciò a test d’accesso selettivi alle università, cosa che mi pare Mauro non faccia.
    Ma già qualcuno lo ha rilevato: il problema del classismo, cioè della selezione, si sposta. Infatti, prima o poi, la selezione sulle competenze effettive è necessaria: dobbiamo formare dei futuri (e competenti) medici, ingegneri, avvocati, professori, … A qualcuno prima o poi bisognerà dire “no, tu, il medico è meglio di no”?
    (Mi rendo conto di essermi addentrato in un ginepraio solo scrivendo. Semplificherò molto, perdonate qualche schematismo).

    2) Anche io credo che oggi la scuola debba lavorare sulle competenze, più che sulle conoscenze (a scanso di equivoci: senza i mattoncini delle conoscenze, ovviamente le competenze son strutture vuote). Metto da parte il fatto che per fare questa vera e propria rivoluzione ci vorrebbe un investimento enorme da parte dello Stato per accompagnare e sostenere i docenti (con corsi di aggiornamento; scuole di formazione finalmente stabili e che possano lavorare non nella perenne emergenza di un quadro che cambia a ogni refolo politico, come tocca fare oggi; docenti stabilizzati e motivati, …). Ecco, messo da parte tutto questo, il punto è che le competenze sono molto più “classiste” e “darwiniane”. Mi spiego in modo molto concreto.
    Uno studente non sa tradurre dal latino e prende sempre 4. Per risollevarne le sorti, l’insegnante gli dice: presentati all’orale, ripassa bene la grammatica, fai gli esercizi che ti do. Lo studente compìto lo fa e prende 7 di orale. La media fa 5,5, che con voto di consiglio diventa 6. Lo studente è salvo. Sa tradurre? No. Se ne è valutata una prestazione fondata in larga parte sulla verifica della sua buona volontà di apprendere (delle conoscenze!). Ogni insegnante sa che se dovessimo valutare davvero la capacità di fare qualcosa con le conoscenze, altresì detta capacità critica, daremmo dei sonori 4 a troppi studenti. A volte senza neanche accorgercene, dirottiamo il focus della valutazione su altro: dài, vediamo se almeno quella pagina l’hai studiata; dài, dimmi quello che ti ricordi; dài, non sai collegare questi fatti, ma almeno elencameli, …
    Se domani, che so, l’accesso a una facoltà universitaria (Lettere classiche) passasse dalla verifica della capacità di tradurre, lo studente sarebbe segnato. Questo non è un apologo fittizio, perché è quello che succede spesso a scuola. Vogliamo lavorare per competenze? Siamo su questo crinale, è bene rendersene conto.
    Mi si potrebbe fare un’obiezione: sì, ma se l’insegnante sa DAVVERO lavorare per competenze, se sa DAVVERO creare le condizioni didattiche perché queste siano sviluppate dallo studente, se individua competenze DAVVERO esercitabili e seleziona di conseguenza pratiche didattiche, materiali, verifiche adeguate, se lo studente, opportunamente guidato, diventa DAVVERO padrone del suo apprendimento, raggiungerà l’obiettivo di imparare a tradurre e non sarà bocciato all’esame d’ammissione a Lettere classiche!
    Ripeto: anche io sono convinto che il tema delle competenze sia ineludibile ormai. Eppure avrete notato quanti “se” conteneva la mia autoobiezione. Che all’apodosi si possa non arrivare, essendosi inceppati in una delle condizioni nelle protasi, è rischio molto concreto. Lavorare per competenze è una cosa che sembra facile solo a chi può permettersi di enunciarlo soltanto, di solito pedagogisti che non sono mai entrati in una classe.

    3) (sarò brutale. Ma, signori, dobbiamo capire di cosa stiamo parlando). Negli ormai stracitati professionali (ma anche in certe scuole medie di frontiera) la bocciatura serve a garantire una minima praticabilità scolastica alle classi. Concretamente: bastano due studenti eversivi delle regole di elementare convivenza (coloro che sono irrimediabilmente refrattari alla permanenza dentro un’istituzione), e la possibilità di lavorare in una classe salta completamente. Se li bocci, l’anno dopo lavori benino, a volte benone. Si sacrificano due persone per salvare tutti gli altri. Abolire la bocciatura in un contesto del genere significa togliere questo strumento agli insegnanti. E’ il problema posto da Lisa (paniscus).
    Si può risolvere questa ingiustizia evidente, salvare anche loro, e abolire la bocciatura? Sì, per esempio con adeguati percorsi, magari quelli, cosiddetti, di “Formazione-lavoro” (alle medie). La soluzione, come si vede, è istituzionale, di sistema. Non si pensi che il singolo insegnante o anche il Consiglio di classe possa risolvere la situazione da solo. Dunque: abolire la bocciatura? Sì, parliamone, ma in quadro generale di riforma.
    (e lo so: ci si dovrebbe domandare perché quei due studenti sono “irrimediabilmente refrattari alla permanenza dentro l’istituzione”, se, forse, l’istituzione non ha qualcosa che non va, se loro non abbiano bisogno di altro, … ma la lucidità delle visioni teoriche sopravanza troppo, troppo, l’agibilità pratica effettiva, e dovrò rassegnarmi a stare dentro un’istituzione – un mondo – largamente imperfetto: certo perfettibile, ma è sempre troppo poco diamine, sempre troppo poco…).

    4) Diversificare. Troppi insegnanti pensano che ci sia solo un modo di fare lezione. Occorre diversificare, sì. Ma occhio a non immaginare – oggi è un pensiero spontaneo, naturale – che le tecniche e gli approcci didattici siano infinitamente intercambiabili. Voglio dire: un insegnante può imparare a padroneggiare (bene) 3 o 4 approcci diversi. E temo che la varietà dei bisogni educativi dei ragazzi sia tale da richiederne molti di più. Metti ragazzi troppo eterogenei in uno stesso contesto, e l’insegnante non riuscirà più a “divaricare” la sua didattica in forme tanto lontane le une dalle altre. In certi contesti le esigenze sono già, attualmente, tali e tante che di fatto fingiamo solo di non vedere, ipocritamente, che gli insegnanti si limitano solo a fare quel che possono.
    Occorrerebbe una vera rivoluzione anche qui: l’insegnante di classe non basta più, occorre la collegialità che intreccia competenze diverse.
    Esempio concretissimo: l’italiano a stranieri oggi è delegato sostanzialmente a insegnanti che non hanno fatto studi specifici di glottodidattica (chiaro che ce ne sono di buoni e ottimi che hanno imparato a farlo, e bene, sul campo, ma non è questo il punto). Al ministero non costa nulla infatti aggiungere alla lista delle cose da fare del docente “occuparsi dell’alfabetizzazione degli stranieri”. Un docente già lo paga, l’inclusività è a costo zero. Dovrebbe invece pagarne un altro, specializzato e specifico, che aiuti, affianchi, il docente di classe in questo specifico compito.
    Una realtà scolastica più complessa si affronta architettando un’istituzione più complessa, articolata, arricchita da rinnovate competenze professionali.
    Noi che nella scuola lavoriamo sappiamo bene che la logica oggi non è questa.

    Perdonate certe mie ripetizioni in questa discussione, e la lunghezza. Non interverrò più.

  58. per Daniele Lo Vetere:

    forse sono stata io a non spiegarmi bene, ma la descrizione “brutale” delle situazioni in cui qualcuno si deve bocciare esclusivamente per ragioni di “ordine pubblico” in classe, non si attaglia realmente al caso citato da me.

    Nel caso descritto da me, che non è unico, ma risulta dall’esperienza continuativa di diversi anni, in generale non è vero che quelle nutritissime schiere di bocciati (specialmente nelle prime, e poi anche in altre classi, soprattutto nelle terze, ma per ragioni differenti) si cacciassero in quella condizione perché creavano tutti questi problemi disciplinari.

    Ogni tanto c’erano anche quelli, ma erano pochi rispetto al resto.

    Diciamo che del conto spannometrico che ho riportato sopra (circa 10 bocciati su ogni classe originaria di 30), ce ne potevano essere uno o due che si erano distinti anche per comportamento scorretto, e che avevano inanellato decine di note sul registro, di convocazioni dei genitori e di provvedimenti disciplinari; ma comunque, non è che si decidesse di bocciarli *per quello*, ossia apposta per salvare la gestibilità della classe… bensì perché, oltre ad avere tale curriculum in condotta, avevano comunque insufficienze gravi e diffuse in quasi tutte le materie, e sarebbero stati bocciati comunque, anche se si fossero comportati bene.

    E appunto, si trattava di uno o due (e nemmeno sempre) su un totale di una decina di bocciati: tutti gli altri, in realtà, problemi disciplinari non ne davano.

    Venivano bocciati semplicemente perché rimasti gravemente insufficienti in quasi tutte le materie, dopo esserlo sempre stati per tutto l’anno, e non aver mai dato segni di voler provare il minimo tentativo di recupero: per tutto l’anno avevano continuato a fare una presenza inerte, ottusa, completamente passiva, stazionando in classe con rassegnazione, o stupore, o semplice noia, e non facendo NULLA, lasciandosi scivolare addosso ore e ore di lezione come se avessero davanti qualcuno che parlava loro in cinese, ma senza dare fastidio a nessuno (al massimo, chiacchierando e giocherellando tra di loro, ma non certo mettendo a rischio la gestibilità di tutta la classe).

    Quindi, la ricostruzione fatta da te non è esatta, o forse si riferisce a situazioni ancora diverse, rispetto a quella che intendevo io.

    Alle medie inferiori, che io sappia, è ancora MENO realistica: lì semmai c’è la tendenza contraria, ossia non si boccia quasi mai per ragioni di condotta, perché si ha il terrore che il provocatore scafato, avendo un anno di più, e modi più adulti della media, “rovini” la classetta tranquilla dell’anno successivo.

    Alle medie si boccia poco, pochissimo, comunque; ma paradossalmente, a parità di risultati scolastici veramente molto negativi, tra le due tipologie è molto più facile che si bocci il ragazzino immaturo e infantile, che non ha imparato niente ma che non ha mai dato fastidio a nessuno, piuttosto che il bulletto aggressivo che a 13 anni fuma e vanta già un bel vocione baritonale, o la Lolita truccata, ammiccante e manipolatrice…

    saluti
    L.

  59. boh, è ripartito…

    riprovo l’invio:

    ————————————–

    per Daniele Lo Vetere:

    forse sono stata io a non spiegarmi bene, ma la descrizione “brutale” delle situazioni in cui qualcuno si deve bocciare esclusivamente per ragioni di “ordine pubblico” in classe, non si attaglia realmente al caso citato da me.

    Nel caso descritto da me, che non è unico, ma risulta dall’esperienza continuativa di diversi anni, in generale non è vero che quelle nutritissime schiere di bocciati (specialmente nelle prime, e poi anche in altre classi, soprattutto nelle terze, ma per ragioni differenti) si cacciassero in quella condizione perché creavano tutti questi problemi disciplinari.

    Ogni tanto c’erano anche quelli, ma erano pochi rispetto al resto.

    Diciamo che del conto spannometrico che ho riportato sopra (circa 10 bocciati su ogni classe originaria di 30), ce ne potevano essere uno o due che si erano distinti anche per comportamento scorretto, e che avevano inanellato decine di note sul registro, di convocazioni dei genitori e di provvedimenti disciplinari; ma comunque, non è che si decidesse di bocciarli *per quello*, ossia apposta per salvare la gestibilità della classe… bensì perché, oltre ad avere tale curriculum in condotta, avevano comunque insufficienze gravi e diffuse in quasi tutte le materie, e sarebbero stati bocciati comunque, anche se si fossero comportati bene.

    E appunto, si trattava di uno o due (e nemmeno sempre) su un totale di una decina di bocciati: tutti gli altri, in realtà, problemi disciplinari non ne davano.

    Venivano bocciati semplicemente perché rimasti gravemente insufficienti in quasi tutte le materie, dopo esserlo sempre stati per tutto l’anno, e non aver mai dato segni di voler provare il minimo tentativo di recupero: per tutto l’anno avevano continuato a fare una presenza inerte, ottusa, completamente passiva, stazionando in classe con rassegnazione, o stupore, o semplice noia, e non facendo NULLA, lasciandosi scivolare addosso ore e ore di lezione come se avessero davanti qualcuno che parlava loro in cinese, ma senza dare fastidio a nessuno (al massimo, chiacchierando e giocherellando tra di loro, ma non certo mettendo a rischio la gestibilità di tutta la classe).

    Quindi, la ricostruzione fatta da te non è esatta, o forse si riferisce a situazioni ancora diverse, rispetto a quella che intendevo io.

    Alle medie inferiori, che io sappia, è ancora MENO realistica: lì semmai c’è la tendenza contraria, ossia non si boccia quasi mai per ragioni di condotta, perché si ha il terrore che il provocatore scafato, avendo un anno di più, e modi più adulti della media, “rovini” la classetta tranquilla dell’anno successivo.

    Alle medie si boccia poco, pochissimo, comunque; ma paradossalmente, a parità di risultati scolastici veramente molto negativi, tra le due tipologie è molto più facile che si bocci il ragazzino immaturo e infantile, che non ha imparato niente ma che non ha mai dato fastidio a nessuno, piuttosto che il bulletto aggressivo che a 13 anni fuma e vanta già un bel vocione baritonale, o la Lolita truccata, ammiccante e manipolatrice…

    saluti
    L.

  60. @ Lisa. Ho capito i casi di cui parli, non disciplinari. Io volevo parlare del problema doloroso ma reale dell’indisciplina che diventa esplosiva, mi sono riferito a te solo perché parlavi dei professionali.
    Posso garantire che quel problema esiste anche alle medie, eccome. E che anche lì si boccia. Per fortuna, almeno dove sono passato io, per un anno, da precario, quei ragazzi facevano appunto percorsi di Formazione-lavoro.

    Saluti

  61. a Daniele Lo Vetere.

    A proposito dell’abolizione del valore legale del titolo di studio che lei giustamente tira in ballo.
    Guardi che l’effetto che ne conseguirebbe non è soltanto lo spostamento della selezione, anche classista: è il *criterio* della selezione, e soprattutto *la legittimazione* a decidere i contenuti dell’insegnamento (pubblico e privato), cioè i programmi.
    Se si abolisce il valore legale del titolo di studio, la verifica della preparazione viene affidata, in buona sostanza, al settore economico.
    Lascio perdere i pro e i contro il capitalismo.
    Segnalo però che l’orizzonte temporale del settore economico è la trimestrale di cassa, quando va benissimo il bilancio annuale.
    L’educazione pubblica ha il compito primario di selezionare la parte che si giudica indispensabile e rilevante dei contenuti culturali (nazionali e non), ordinarla in un percorso sensato, e di tramandarli, al fine di garantire la continuità dinamica di una comunità culturale. L’orizzonte temporale di questo compito sono i secoli.
    Legittimando il settore economico a valutare quel che è rilevante o irrilevante nella preparazione culturale, gli si affida implicitamente il giudizio su quel che è rilevante o irrilevante trasmettere, del patrimonio culturale, alle future generazioni: cioè un compito vitale.
    Segnalo che le culture e le tradizioni non godono di garanzie di immortalità: nascono, vivono e muoiono anche loro, come noi. Affidarne la sopravvivenza a forze che hanno la lungimiranza e le motivazioni fondamentali di un cocainomane non mi sembra una buona idea.
    In soldoni, se smetti di insegnare un contenuto o una disciplina, questa muore, o se va bene sopravvive nel freezer dello specialismo. Esempio buffo: i miei figli, che sono andati alle scuole medie qualche anno fa, si sono ritrovati i manuali di geografia europeisti. Conseguenza: richiesti di dove si trovasse Catanzaro, potevano tranquillamente risponderti “in Liguria”. A ignoranze come questa si pone facilmente rimedio. E se smetti di insegnare l’italiano in tutte le scuole di ogni ordine e grado? Sembra fantascienza, ma i futuristi del Politecnico di Milano ci hanno già provato, a fare lezione solo in inglese. Guardi che l’italiano sparisce, proprio non esiste più se non per la comunicazione privata. Lo stesso vale per il latino, il greco, la storia, la filosofia, la storia dell’arte, etc. Lei pensa che gliene freghi tanto, al settore economico, della sopravvivenza di queste discipline e contenuti?
    Non vivo su Alpha Centauri (a volte aggiungerei: purtroppo) e lo so che lo Stato italiano è quel che è. Attenzione però che esiste anche il peggio. Ecco, questo dell’abolizione del valore legale dei titoli di studio è un esempio del peggio.

  62. @ Buffagni. Perdoni la brevità, voglio solo tener fede all’impegno di non parlare più di quanto abbia già fatto (sulla scuola non mi contengo). Però è cortesia rispondere.
    Sull’abolizione del titolo legale non ho le idee chiarissime e un’opinione precisa. Lo svuotamento dei contenuti disciplinari e degli apprendimenti che teme lei trova anche me dalla sua parte. In realtà uno svuotamento della capacità formative delle materie è in atto da molto e per altre ragioni (che non si possono elencare qui), svuotamento che occorre comprendere e cui occorre opporre certo qualcosa.
    La genericità dell’etichetta “diploma di maturità classica o scientifica” o “perito agrario”, cioè il fatto che non si sappia quali apprendimenti effettivi esse contengano, però è un tema importante, non necessariamente legato all’abolizione del titolo legale, di cui infatti Piras non parla. Io ho appaiato le due cose solo per questa precisa e circoscritta somiglianza.
    Saluti

  63. Io penso che l’abolizione del valore legale (sbandierata dagli ambienti liberisti come la soluzione magica a tutti i problemi di inefficacia dei processi educativi e come passo imprescindibile per una vera meritocrazia) sia del tutto inopportuna, e sostanzialmente per due motivi:

    1) che se anche si abolisse ‘sto famigerato valore legale, l’esigenza di certificare competenze e idoneità rimarrebbe esattamente identica a prima, e si porrebbe in automatico il problema di CHI e IN CHE MODO sarebbe qualificato a farlo. Una volta si sarebbe risposto in automatico che “ci avrebbero pensato direttamente le aziende”, al momento di selezionare chi assumere e chi no, ma oggi a maggior ragione non sta più in piedi, perché sono e saranno sempre di meno le persone che andranno a fare lavori fissi da dipendente in un’azienda dal funzionamento tradizionale, e sempre di più quelli che si auto-organizzeranno con attività atipiche in proprio, in cui i “datori di lavoro” sono direttamente i clienti, spesso occasionali. Se io ho bisogno di un tecnico che mi sistemi il computer, non è che possa fare il colloquio di selezione a 20 candidati, metterne in prova 5 e poi incaricarne uno: devo fidarmi del caso, o del passaparola tra amici. Poi se trovo quello veramente bravo che mi soddisfa, la prossima volta richiamo ancora lui, ma come primo approccio, devo fidarmi di informazioni abbastanza casuali. Quindi, sapere che il soggetto abbia un diploma di perito informatico, e non dell’alberghiero o del liceo classico… certamente non mi dà la garanzia assoluta che “sia bravo”, ma almeno, come prima scrematura, aiuta!

    2), come ho già accennato, perché chi propone questa cosa non tiene conto di un radicatissimo e fortissimo fenomeno di percezione psicologica e di abitudine sociale, per cui di fatto non cambierebbe niente: ci sarebbero milioni di persone e di famiglie che continuerebbero ad attribuire un’importanza enorme al “pezzo di carta”, anche se questo per legge non contasse più nulla (come del resto, già adesso, ci sono tanti che vogliono a tutti i costi il titolo, anche a costo di comprarselo a pagamento, anche se ammettono esplicitamente di non averne nessun bisogno per lavoro, e di non essere interessati a fare un lavoro realmente attinente a quel titolo).

    Quindi, a mio avviso, è proprio un falso problema e basta.

    Lisa

  64. Io istituirei una modalità per bocciare gli insegnanti, che anche in questo giro rimangono comunque illesi

  65. Sono d’accordo con l’autore dell’articolo, la bocciatura fondamentalmente è inutile, e anzi potenzialmente dannosa: dal punto di vista psicologico, è un bel colpo all’autostima di un ragazzo, che si sente sempre più mediocre e perde la voglia e la motivazione necessarie per recuperare i propri gap, essendo ormai sicuro di non poter dare più di tanto. E’ in questa ottica che vedo la statistica sul gran numero di abbandoni scolastici che lei ci riporta, sig. Piras.

    Personalmente credo che il sistema scolastico italiano, istituzione della bocciatura a parte, sia vetusto, inefficiente, profondamente incapace di affrontare il cambiamento dei tempi. Non so in che condizioni siano le scuole oggi, mi fermo ovviamente alla mia esperienza scolastica fine anni ’90. I programmi sono troppo vecchi, concettosi, privi di utilità pratica e di interdisciplinarietà, inoltre credo la suddivisione per indirizzi scolastici abbia ormai fatto il suo tempo. I ragazzi, o meglio, le loro famiglie, scelgono l’indirizzo scolastico basandosi comunque su preconcetti culturali e in molto minor misura sulle reali capacità dei figli: è ovvio che poi i ragazzi entrino in una certa scuola sentendosi fin da subito dei pesci fuor d’acqua. La mia esperienza è stata allo scientifico, in un corso sperimentale di informatica e fisica, e vi posso assicurare che c’era gente che non sapeva cosa fosse un’equazione lineare, o non sapeva come accendere un computer. In più, i laboratori non esistono, come ho detto il nostro era un corso sperimentale di informatica, ma in aula computer ci andavamo si e no una volta all’anno, il laboratorio di fisica l’abbiamo visto si e no 2 volte in tutti i 5 anni di scuola. Non so se i professori avessero battezzato la nostra classe particolarmente svogliata e per questo non si sprecavano più di tanto, credo comunque che in un liceo scientifico che si rispetti l’educazione in laboratorio sia fondamentale e anzi ancora più importante della teoria.

    Anche nelle materie umanistiche, mi pare ci sia una certa mancanza di rilevanza dei contenuti, rispetto alle necessità del nostro mondo che cambia: a che serve studiare la letteratura inglese, partendo da Beowulf (!), che rilevanza ha questo nel mondo del lavoro di oggi, e sopratutto è davvero il caso studiarla considerato che ci sono ragazzi convinti che “very” significhi “vero” o che invece di “C++” scrivono “C glass glass”. Questo è solo uno degli esempi che vi porto, ma ve ne potrei presentare molti altri più o meno convincenti, per esprimere il mio pensiero: spesso la svogliatezza è sinonimo di insicurezza, incapacità di sfuggire alla mediocrità, ma il disinteresse affonda le sue radici anche nell’incapacità della scuola italiana di offrire un’educazione pratica e più vicina alle necessità del mondo del lavoro.

    Personalmente sono per un sistema scolastico più libero, che dia meno importanza alle lezioni frontali e in cui il tipo di diploma sia stabilito dalla “concentrazione” su cui si è focalizzato il proprio interesse negli ultimi 3 anni di scuola (es. concentrazione classici – latino, greco e storia dell’arte, oppure concnetrazione premedicina – chimica, biologia e fisica, ecc). Sono convinta che un ragazzo davvero interessato a ciò che fa studi indipendentemente dallo stimolo esterno del voto, e il professore non debba far altro che guidare tale interesse. Questo significa che se un ragazzo è scarso in italiano perchè ha scarse capacità verbali, mentre è bravo e ha interesse per la matematica, si dovrebbe lasciargli più tempo per approfondire quest’ultima e non dargli obblighi troppo stringenti per la prima. Obiettivi personalizzati.

    Mi rendo conto che un sistema così iperflessibile sia di difficilissima realizzazione, c’è da dire che con tutti i soldi che sono stati sprecati nel corso degli anni su corsi sperimentali (non so al Nord, ma al Sud sono uno spreco, vedi esempio riportato sopra), precari, il sistema assurdo degli insegnanti di sostegno, due milioni si possa pure sprecarli per provare una scuola montessoriana che duri fino al diploma – essendo questo il sistema educativo che più si avvicina alla mia idea.

    A dire il vero si potrebbe andare ancora oltre, secondo me il concetto di classe andrebbe eliminato, una scuola non grande (voglio dire con non più di 400 alunni) potrebbe essere funzionante solo con una biblioteca e i laboratori e non necessitare di aule, ma temo che quest’idea sia un po’ troppo visionaria e slegata dalla realtà dei budget per la scuola; forse è anche sbagliata, non pretendo di essere la depositaria della verità assoluta, però se anche una briciola piace o solletica la curiosità di qualcuno, sono pronta a spiegarmi meglio.

  66. Trovo per caso (cioè: digitando su Google “abolire classi e bocciature”, per vedere se qualcun altro la pensa come me) solo adesso questo intervento in cui Mauro Piras dice esattamente quello che penso. E penso: non sarebbe il caso di inserire questa proposta nella prossima consultazione indetta dal governo Renzi, ma cercando di farlo in modo massimamente incisivo, organizzando qualcosa di grosso?
    Fra parentesi, anche i “saggi” del governo Monti avevano proposto qualcosa del genere: http://informazionescuola.it/2013/04/16/i-saggi-voglio-abolire-le-classi-e-lezioni-non-piu-solo-frontali/

  67. Avevo scritto l’intervento qui sopra subito dopo aver letto (soltanto) quello di Piras. Al dibattito che ne è scaturito aggiungerei queste due o tre cose.
    1) Secondo me il problema andrebbe impostato nel meno ideologico dei modi possibili. Cioè: se alla fine dell’anno scolastico uno studente ha qualche materia insufficiente (e quindi anche qualcuna sufficiente), non è razionale né bocciarlo né promuoverlo: bocciandolo lo obbligo a ri-assistere a un anno di lezioni in tutte le materie che conosce già (e non andrebbe sottovalutato l’effetto-nausea che questo potrebbe provocargli), promuovendolo lo metto in ulteriore difficoltà nelle altre materie, che l’anno successivo sarebbe in grado di seguire ancora meno dell’anno precedente. La cosa più razionale è che ripeta (o abbandoni e sostituisca con altre, nel caso sia possibile una modifica in itinere del suo curriculum) le materie insufficienti e vada avanti con quelle sufficienti. E perché questo possa avvenire è necessario abbandonare le classi e sostituirle con gruppi di livello omogeneo. Non si tratta tanto di abolire le bocciature quanto di renderle mirate e razionali (si “boccia” solo nelle materie dove c’è bisogno di farlo)
    2) Oltre a evitare l’irrazionalità di fare ripetere tutte le materie a chi ha bisogno di ripeterne solo alcune, oltre a evitare gli effetti negativi della bocciatura dal punto di vista psicologico e motivazionale (e oltre a evitare lo spreco di denaro pubblico che ogni bocciatura comporta), credo che si potrebbero ottenere effetti positivi anche a. sugli studenti migliori e b. sulla funzione educativa che la scuola dovrebbe svolgere:
    a. per gli studenti che almeno in qualche materia sarebbero in grado di effettuare il loro percorso formativo anche in meno di cinque anni, si potrebbero prevedere dei passaggi accelerati da un livello all’altro e quindi la possibilità di arrivare ad un “sesto livello” per acquisire una preparazione più approfondita e completa di quella che anche i migliori oggi possono ottenere in cinque anni di scuola superiore (e questo potrebbe avere anche un forte valore orientativo per la scelta della facoltà universitaria).
    b. Oltre ad superare la bocciatura indiscriminata ci si lascerebbe alle spalle anche le promozioni taroccate, in cui quello che sarebbe 4 o 5 si dice che è 6. Che proprio la scuola così frequentemente non faccia corrispondere alle PAROLE (che si dicono: “non sai la mia materia”) le COSE (che si fanno: “promosso”), credo che produca frustrazione negli insegnanti e disincanto precoce negli studenti.
    Poi c’è il problema di cosa insegnare (e come), ma proprio una profonda riforma di struttura come questa obbligherebbe tutti ad affrontarlo in modo radicale.

  68. Basta buonismo. Basta idealismo. La realtà è che se si vuole che una persona si impegni la si deve minacciare di bocciatura fornendogli nel contempo tutti gli aiuti possibili e immaginabili per aiutarla a superare le sue carenze e questo può avvenire solo con l aumento del tempo scuola costringendolo ad esempio a frequentare corsi di recupero e laboratori di studio guidato. Poi cerchiamo anche di superare la psicologia del poverino. Nella vita se si cade cisi rialza e questo è giusto impararlo fin da piccoli perchè poi sarà troppo tardi.

  69. Va bene l’abolizione della bocciatura in tutti gli ordini della scuola italiana. La mia proposta sarebbe quella di mantenere il gruppo classe per tutte le attività formative, collaborative , socializzanti , emotivamente significative ecc….eccc…..Dove invece c’è da acquisire delle competenze precise :laboratori…. laboratori…..laboratori e ancora laboratori con gruppi elastici di pochi alunni e obiettivi ben mirati.Al momento buono l’alunno tizio si reca nel laboratorio di greco ,( di matematica, di geometria , di divisione della parola in sillabe), dove conquisterà i livelli di competenza nei quali si dimostra carente .A questo punto passa ad un diverso livello. Nella stesso laboratorio ci saranno alunni di prima accanto a qlc. di quinta o di terza, non si accede per età ma per competenza e nulla osta che si esca dal liceo o da ragioneria con qualche competenza non proprio luminosa.Semplicemente questo verrà dichiarato nel documento finale.Non è indispensabile essere al massimo in tutto. Questo sistema didattico servirà :
    a scegliere vie successive in maniera più mirata ed evitare sprechi
    a specializzare gli insegnanti
    a evitare o mitigare traumi , rifiuti e dispersione scolastica
    a far emergere capacità particolari e impegno personale.
    Mi rendo conto che non è una via facile ma qualcosa bisogna pur fare.

  70. Per me la secondaria di primo grado dovrebbe avere un biennio comune con il gruppo classe, poi il terzo anno costruire con docenti e genitori un curricolo personalizzato in cui l’alunno frequenti corsi, anche pomeridiani, che gli permettano di superare un esame per accedere o ad un istituto professionale o ad un liceo o similare.
    Per quanto riguarda gli istituti superiori deve essere abolito il gruppo classe e dare la possibilità ai ragazzi di concludere il ciclo di studi in 4, 5 o 6 anni con indicazione sul diploma del percorso seguito.

  71. In relazione agli ultimi due interventi.
    Secondo me abbiamo troppa fiducia nella razionalizzabilità infinita della realta (quanti sprechi! Qualcosa bisogna pur fare!) e nella flessibilità e autonomia delle persone e delle istituzioni (percorsi a scelta, percorsi modularizzabili, materie privilegiate e materie abbandonate). Faccio notare, di nuovo, che tutte queste proposte di fatto assomigliano alla rinuncia al valore legale del titolo di studio, magari non de iure, certo de facto. “Lo studente non avrà un generico titolo di studio, ma l’indicazione precisa del percorso fatto, delel competenze acquisite e non acquisite” e su quello sarà poi valutato quando entrerà nel grande (e vasto e selvaggio mondo).

    Non è un delitto. Ma è un sistema ben preciso, che segue logiche ben precise, e che abbandona, per ribrezzo conclamato e insofferenza ormai inveterata, il vecchio sistema nel quale – anche un po’ controfattualmente se volete, ma anche con la garanzia di un solido quadro di cui si faceva dominus lo Stato – si stabilivano degli obiettivi comuni, dei percorsi comuni, degli ostacoli comuni.
    Non è un miglioramento progressivo del vecchio sistema: è un cambiamento radicale di mentalità e di sistema, addirittura una mutazione genetica della scuola e delle sue funzioni.
    E’ un sistema più individualista, che lascia anche gli individui più soli, come ogni individualismo.
    E’ auspicabile restare nel vecchio? Non lo so. E’ auspicabile passare al nuovo? Non lo so.

    Però mi pare che tutti guardiamo i dettagli, nella speranza che i nuovi siano migliori, e non guardiamo al complesso delle mutazioni: che non riguardano solo la scuola, bensì tutta la società.
    Due fattori di questa mutazione epocale a me sembrano rilevanti: la liquidità e l’arretramento dello Stato da alcune sue prerogative, di esso tipiche nel Novecento (e va da sé che una prerogativa di Stato è per definizione astratta, macchinosa, burocratica. Ma ha anche una solidità d’impianto e la forza di essere un ombrello di protezione di chi vi si ripara sotto).
    Meditiamo gente, meditiamo.

  72. @ Daniele Lo Vetere:

    la mia impressione sullo stato di cose attuale invece mi dice che si è data troppa fiducia in uno statalismo centralista che ha sfiducia a priori da pessimismo antropologico nelle capacità dei singoli, delle famiglie e delle società di compiere autonomamente delle riflessioni su come dover educare i ragazzi per farli diventare cittadini liberi e consapevoli, valorizzando soprattutto le loro personalità. Statalismo centralista i cui difetti mi pare siano evidenti a tutti in quanto in questa visione ogni servizio pubblico come l’istruzione è imposto dall’alto dallo stato, invece di essere il prodotto finale di una discussione democratica e autonoma che parte dal basso tra i cittadini e le famiglie.

    Un sistema personalizzato, che valorizza la persona, non è un sistema “più individualista” in quanto la persona viene valorizzata proprio nel farle permettere di avere i mezzi per compiere nella sua società un percorso autonomo in cui essa si forma, cosa che non accade nello statalismo centralista dove la persona è annullata assieme alle altre in una nuvola con una massa informe, e dove ad essa viene imposto con la costrizione un modello di formazione del cittadino in cui la persona e le famiglie non hanno alcuna voce in capitolo. Certo, è bene che le parti fondamentali di questa formazione in una visione personalizzata devono essere decise mediante un confronto dal basso con tutti i cittadini, comunque le parti secondarie possono essere scelte autonomamente dal ragazzo con l’aiuto della famiglia, evitando dunque un’anarchia assoluta e il timore di una scuola in balia di gusti capricciosi del mercato e dei consumi, rischio che secondo me è comunque oggi sopravvalutato, in quanto, come già detto, è fin troppo presente la sfiducia da pessimismo antropologico nelle capacità autonome dei singoli e della società di compiere buoni progetti di formazione dei cittadini.

  73. @ Michele Dr.

    Lo Stato garantisce un’architettura solida e rigida. Ma i contenuti non sono proposti/imposti dallo Stato, ma da tradizioni culturali, saperi accademici, ricerche scientifiche. Queste non sono cose infinitamente modularizzabili e soggette al libero scambio democratico fra eguali. Non si tratta mica di diritti. Sono saperi. E’ una cosa un po’ diversa.

  74. E comunque questa idea di uno Stato soffocante e paternalista che castra i suoi poveri figli è abbastanza bislacca.

    Se fossi venuto ieri agli scrutini del mio liceo, avresti visto che dentro le architetture rigide dello Stato, gli individui continuano a pensare e ad agire liberamente. Per esempio, lo Stato ci dà una scuola nella quale si boccia. Noi insegnanti bocciamo raramente e se usiamo la bocciatura, la usiamo con una logica ormai ampiamente pedagogica e formativa, non sanzionatrice (a volte perfino troppo allegramente, e non sono sicuro che faccia il bene dei ragazzi).
    Per questo è interessante riflettere sulla proposta di abolizione delle bocciature di Mauro Piras. Checché ne credano molti, non si tratterebbe di modificare con una legge l’esistente, ma, assai più verosimilmente, di adeguare la norma all’esistente, che è già andato per conto suo.
    Ma il tema è complicatissimo anzi che no, come dimostra il lunghissimo dibattito qui sopra.

    Ma, insomma, io questo Stato-Saturno sinceramente non lo vedo.

  75. A me il tema invece non sembra complicatissimo. Mi sembra di una semplicità sconcertante: abbandonare il gruppo-classe per poter ripetere le discipline nelle quali la preparazione è giudicata insufficiente e invece proseguire nelle altre. Che cosa c’entri questo con lo statalismo e l’individualismo mi sfugge (già adesso un individuo può scegliere se fare il liceo classico, l’istituto tecnico, quello professionale, non esiste mica un solo modello di formazione…). Ma soprattutto, in che senso in un sistema che evidentemente saprebbe adattarsi molto meglio ai diversi tempi di apprendimento, alle diverse predisposizioni, ai diversi interessi, l’individuo-studente si sentirebbe più solo? Secondo me si sente molto più solo adesso quando viene bocciato perché non è riuscito a soddisfare uno standard ottusamente rigido.

  76. @ Daniele Lo Vetere:

    tu dici “Non si tratta mica di diritti. Sono saperi”. Io però non parlavo dei saperi, che sono un’insieme di conoscenze, informazioni, istruzioni ad agire e simili ma dell’educazione, ovvero il processo che porta a far apprendere a una persona certe conoscenze, capacità e comportamenti e non altri tipi di essi in quanto ritenuti più di valore e con una modalità che è ritenuta più efficace per questa persona rispetto ad altre modalità. L’educazione è un diritto riconosciuto perfino dalla Dichiarazione Universale, nella quale peraltro si afferma chiaramente che è solo la famiglia e non lo Stato o ogni altra autorità che ha il compito di scegliere qual è l’educazione migliore per una certa persona che sta per crescere. Certo, anch’io sono d’accordo col ritenere che il diritto all’educazione che esercitano le famiglie sui suoi figli non può essere illimitato, infatti ci deve essere una parte comune di contenuti e modalità di educazione uguali per tutti i cittadini (ma appunto decisi da tutti i cittadini dal basso con discussioni democratiche e sempre rivedibili) e una parte dove le famiglie e la persona che apprende possono scegliere con ampia autonomia.

    In quanto allo statalismo a me sembra un dato di fatto che nel nostro paese sia più accentuato in campo scolastico che in altri paesi europei, il discorso sarebbe lungo, basti pensare come esempio alla Francia dove le scuole paritarie, fermo restando che rispettino certi standard minimi, vengono riconosciute pienamente come un servizio pubblico a tutti gli effetti e lo stato offre ad esse finanziamenti ed agevolazioni che in Italia sarebbero enormemente contestate ritenendole una minaccia per la scuola “di tutti” e “al di sopra delle parti” come se la qualità di un servizio non si misurasse dai risultati di esso ma dal fatto se è lo stato o se sono dei privati che lo compiono. È comunque un discorso che meriterebbe una lunga discussione a parte, sta di fatto che i timori di derive “individualiste” nella scuola sono tra quelli meno fondati nel nostro paese in questo momento.

  77. Gentile Berang, felice di sapere che tu abbia solide certezze.
    Il sistema delle materie opzionali esiste in America e non c’è persona (colleghi in visita, studenti andati a studiare per un anno in America) che non mi abbia raccontato di una scuola secondaria superiore americana di livello assai più basso della nostra secondaria superiore.
    Non so se la causa diretta sia questa struttura delle discipline, o non soltanto. Le cose continuano ad apparirmi complicate.
    Poi, io penso che chi voglia intendere il senso del mio discorso lo intenda. Chi vuole tagliare il nodo gordiano e fare, perché è convinto di sapere benissimo come fare, prego, faccia. Io mica mi oppongo.

  78. @ Michele Dr. Scegli l’esempio sbagliato. Il sistema francese è assai più centralista e statalista del nostro, a quanto ne so. Ad esempio, l’indirizzo di scuola superiore lo indicano i docenti delle medie (di quelle che più o meno coincidono con le nostre medie), non è una scelta della famiglia. A noi apparirebbe un’indebita ingerenza di un funzionario pubblico nella privatissima sfera familiare. Mi pare anche che il reclutamento degli insegnanti avvenga tramite un sistema centralizzato, non regionale come il nostro (anche se, se ricordo bene, stavano discutendo di regionalizzarlo perché non soddisfaceva più).
    Non è che basti citare la Francia o chi per essa per dire che altrove le cose vanno sempre meglio. Basta con questi riflessi condizionati autoflagellanti ed esterofili, non ne posso più.
    Che poi in Italia sulle scuole private ci sia tanta ideologia, sono d’accordo.

  79. @ Daniele Lo Vetere, io non direi proprio che in Italia la scelta delle scuole superiori sia compiuta dalle famiglie, come prova basti confrontare il tipo di iscritti a un classico con quello di iscritti a un istituto professionale. Di solito gli iscritti a il liceo classico sono in stragrande maggioranza usciti con voti molto alti alla scuole medie, mentre è il contrario ai professionali, e inoltre al classico la percentuale di studenti stranieri è molto meno bassa che a un professionale. Inoltre un altro esempio del fatto che la scuola Francese sia meno centralistica che quella italiana è il fatto che in essa ci sia un sistema di valutazione dei docenti sia in entrata sia mentre essi sono già in servizio: in una visione centralistica del servizio pubblico non avrebbe senso una valutazione dei docenti perché i docenti in quanto membri di uno stato-amministrazione che si autolegittima da sé non dovrebbero rendere conto di niente a nessuno delle loro azioni e perché i docenti agirebbero dentro paletti di autonomia così ridotti che non ci sarebbe alcun bisogno di valutazioni periodiche per controllare se essi li rispettano. La Francia in effetti ha un centralismo maggiore di paesi come la Gran Bretagna, ma io direi che l’Italia sia più centralista per i motivi appena visti sopra.

    Concordo comunque con il fatto che non basta dire che “tutti all’estero fanno così” per concludere che fanno meglio di noi. Per il resto confermo la mia idea detta prima sulla differenza tra il concetto di sapere e quello di educazione.

  80. @ Michele Dr. Puoi girarla come tu pare, ma il dato di fatto è che in Italia i professori delle medie danno un consiglio e non una prescrizione per il proseguimento degli studi. Il genitore è libero di fare quel che crede. In Francia è diverso.
    I ragazzi escono con voti diversi e si dividono anche per fasce di competenza. Ok. Ma il voto non influisce formalmente sull’accesso alle superiori. Non facciamo confusione.
    La valutazione dei docenti è un’altra questione, che non c’entra niente.

  81. Bocciato in prima superiore in una scuola per ragionieri, passai al liceo linguistico. Lì oltre alle lingue straniere, si studiava anche diritto, chimica, fisica, biologia… In alcune materie dovevo impazzire per arrivare al 6, in altre (italiano, storia, filosofia, arte) arrivavo al 9 senza fatica.
    Durante la quarta superiore ebbi la fortuna di trascorrere tre mesi in Irlanda, di cui la metà in un college di Limerick dove mi chiesero quali materie volevo studiare. Ovviamente rimasi sbalordito da quella che mi sembrava una perfetta università per adolescenti. Era il 1997.
    Diciotto anni dopo in Italia stiamo ancora chiedendoci se usciremo mai dal concetto di “gruppo classe”.

  82. Scusate, ma di cosa stiamo parlando, se vogliamo abolire la bocciatura dobbiamo anche mettere dei paletti affinché ragazzi poco o per nulla preparati possano accedere a scuole richiedenti come i licei. Per questo parlavo di un terzo anno delle medie in cui si progetti un percorso individualizzato, al di fuori del gruppo classe, che permetta il superamento di un esame per poter accedere o ad un istituto professionale o ad un liceo o similare.

  83. a Daniele Lo Vetere

    “Basta con questi riflessi condizionati autoflagellanti ed esterofili, non ne posso più.”

    Neanche io. Grazie.

    a Chi Di Dovere

    Basta bocciature. A tutti gli studenti d’ogni ordine e grado attribuiamo un bel Premio Lemming.

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