cropped-472916_7106150_20130524_c_20397626_medium.jpgdi Massimo Raffaeli

[Questo articolo è già uscito su «Alias – il manifesto»].

Quand’è che Vittorio Sereni è diventato veramente Vittorio Sereni? O, per dire meglio: quando la sua figura è entrata nel senso comune dei lettori (cioè non solo degli specialisti e di alcuni compagni di via) che oggi lo identificano, più o meno alla unanimità, come il maggiore poeta italiano del secondo Novecento? Va detto che una serie di luoghi comuni e di automatismi percettivi ne avevano a lungo isolato e pesantemente condizionato la ricezione prima che Gli strumenti umani, nel ‘65, prendessero a svelarne l’integrale originalità: non che prima Sereni mancasse di attenzioni autorevoli e di letture critiche, però del poeta di Frontiera (’41) si tendeva a marcare la derivazione ermetica (sia pure smaltita da lui in un segno più sottile e vibrante) così come, complice una antologia di Luciano Anceschi che aveva fatto scuola, si evocava puntualmente una sua appartenenza o persino connivenza con la “linea lombarda” (paesista, laghista, fissa a un profilo certo di oggetti e di occasioni), né in sostanza tale stereotipo era venuto meno con l’uscita del Diario d’Algeria (’47, nuova edizione ’65), che pure presentava una fisionomia testuale già perfettamente autonoma rispetto all’orizzonte d’attesa e un ordine di temi (un senso primordiale di intempestività rispetto alla vita e alla storia, una radicale distonia) che era già soltanto suo e cioè proprio dell’ex prigioniero d’Africa, del non-resistente, del poeta divenuto manager industriale nella Milano della neonata società affluente ma che tuttavia continuava a percepirsi quale un soggetto abusivo o soltanto, avrebbe ripetuto tante volte, uno scolaro perpetuamente ritardatario. Per ulteriore paradosso, e malgrado fra gli altri l’immediato e prestigioso avallo di Eugenio Montale, i medesimi Strumenti umani erano usciti in un momento sfavorevolissimo alla ricezione, quasi fossero una meteorite caduta sulla tabula rasa della neoavanguardia: è un fatto cui va aggiunto che anche l’ultimo libro di Sereni, Stella variabile (’79 e ’81, opera che molti erroneamente credettero di semplice addizione agli Strumenti umani mentre ne è il drammatico controcanto), prese corpo fra infiniti ripensamenti nel decennio di massima indigenza poetica che furono in Italia gli anni settanta.

Ma decisiva, sul finire del decennio, fu l’uscita nei “Meridiani” Mondadori di una antologia a firma di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento (1978) che fin dal titolo, sottotraccia polemico in una misura proporzionalmente inversa rispetto alla sua dichiarata umiltà, aboliva l’idea del Novecento duale, a lungo conteso fra Grande Stile e Avanguardia, fra ordine e disordine, mentre portava in primo piano tutta una serie di intersezioni come di individualità poetiche che quella spiccia dialettica aveva prima amputato o addirittura ignorato. In altri termini, all’idea convenuta delle rette parallele e refrattarie su cui inseguire il secolo Mengaldo opponeva una struttura insiemistica ovvero la forma di una costellazione. Tra le stelle fisse, lì, si vedeva pulsare forse per la prima volta con la sua luce viva, intatta e infungibile, la parola di Vittorio Sereni che oggi torna in integrale nel volume Poesie e prose degli “Oscar Mondadori” (a cura di Giulia Raboni, filologa che fa onore a suo padre Giovanni, un grande poeta e sempre affettuosamente memore del magistero sereniano) ma torna anche per il tramite dello stesso Pier Vincenzo Mengaldo in Per Vittorio Sereni (Aragno, “Biblioteca”, pp.294, € 12.00) dove sono riunite diciassette partiture saggistiche grosso modo ascrivibili a un quarantennio di attività. Nel saggio di apertura (un ritratto-necrologio che nel 1983 uscì su “Quaderni piacentini”, poi in La tradizione del Novecento. Nuova serie, ’87, e ora introduce le Poesie e prose degli “Oscar”) sono individuati con particolare nitidezza alcuni tratti finalmente entrati nel senso comune della ricezione di Sereni: la natura consustanziale di vita e poesia in “un uomo segreto, che si lasciava intuire”; la lenta implacabile metabolizzazione percettiva, tradotta in parola: “Sereni era l’antitesi di un poeta orfico, era un poeta esistenziale”; la costante osmosi fra orizzonte dei vivi e dei morti, dunque un senso di dissipazione che la poesia converte, qui e ora, in una loro autentica e spasmodica rianimazione; la fedeltà, in tale stato intermedio di vita/morte, a un universo inderogabile di luoghi e di presenze umane che si ripresentano di volta in volta dentro una dinamica ossessiva, ciclica; la ricerca non già di una Parola (in senso novecentista) ma di una sintassi che realizzi la “naturalezza” espressiva nel ritmo della voce o, più precisamente nel “tono della voce che parla”; infine la costante tensione, da parte del poeta, a trasmettere non una Verità perentoria ma, viceversa, una sua personale e sofferta esperienza: “La poesia di Sereni – scrive Mengaldo – non ha nulla di intimidatorio, le è del tutto estraneo il gesto di chi esclude dal tempio i profani. […] Nel mondo poetico di Sereni uno vive come a casa propria, e la durata in cui esso costituzionalmente si distende, la sua temporalità quasi di romanzo, è la stessa durata e fedeltà che viene richiesta alla nostra presenza di lettori. Sereni ha detto spesso, per iscritto e a voce, che l’unico modo veramente degno di fare esperienza della poesia è quello non già di leggerla semplicemente, ma di convivere con lei”.

Mengaldo ci convive da ormai quarant’anni e continua a dedicarle, elettivamente, l’eccezionale maestria di un ascolto dove i prelievi linguistico-stilistici, l’orecchio assoluto per la prosodia e gli effetti di ricaduta metrica, si trasvalutano per fulminei trapassi nella capacità di definirne a tutto tondo la fisionomia poetica e di iscriverla in un quadro storico a maglie strettissime. E’ un metodo che muovendo da una sequenza ordinata di parzialità (di dati minuti, talora impercettibili) realizza per cortocircuito una totalità la cui “figura”, riassunta di solito in aforisma critico, può entrare nel senso comune dei lettori: qui è il caso, specialmente, di alcuni saggi su Sereni traduttore di poesia (quello che introduceva la ristampa 2001 della raccolta einaudiana Il musicante di Saint-Merry, ma anche Un confronto tra Sereni e Caproni traduttori del 1989, e un Sereni e Char del ’93), come è il caso anche dell’intervento dedicato alla edizione critica delle Poesie nei “Meridiani” Mondadori (’95) a cura di Dante Isella, l’altro fuoriclasse degli studi sereniani, né vanno trascurati altri contributi sulle prose o letture specifiche, in vitro, per esempio quella relativa a La spiaggia (’97) o, inedita, su Amsterdam la quale torna per vie interne a un saggio precedente, e capitale, Tempo e memoria in Sereni (2000), che si conclude guardando al palinsesto di Stella variabile dove vede rifluire e dissolversi al passato qualunque prospettiva già rivolta al futuro: “Ora la ritrazione del futuro nel passato non è che un altro nome della morte, e dell’istinto di morte, così come – sul piano del vissuto – l’omologazione del tempo non è che un altro nome di quella prigionia che l’uomo aveva subito, segnandolo per sempre”. Non è proprio una musica d’angeli anzi è un rintoccare lento, uno stillicidio da antinferno, la musica di Stella variabile, ma ancora una volta, e per l’ultima volta, è la musica di Vittorio Sereni. Nessun altra le assomiglia, è la sua, e ci basta.

[Immagine: Giorgio Lotti, Vittorio Sereni (gm)].

4 thoughts on “Sereni e Mengaldo

  1. Forse non si sa, o si sa troppo poco, che è stato Sereni a commissionare a Mengaldo l’antologia “Poeti italiani del Novecento”…

  2. L’inno elevato da Raffaelli a Sereni e al suo interprete autorizzato, Mengaldo, non è discutibile, poiché, più che un’analisi critica, è una duplice apologia e, come tale, ha un significato eminentemente emotivo. L’apologeta vuole esprimere la sua adesione totale e senza riserve all’uomo, al mondo poetico e allo stile dell’apologizzato, e ci grida con tutte le sue corde: Sereni è il maggiore poeta italiano del secondo Novecento, quasi che non esistessero Fortini, Raboni (qualificato come “affettuosamente memore del magistero sereniano”), Zanzotto, Pasolini, Sanguineti… Con tutto ciò, sarò l’ultimo a disconoscere l’importanza e il valore di Sereni nella poesia italiana (così come, nel campo della critica letteraria, di Mengaldo). Del poeta di Luino a me sembra che meritino di essere còlti, nel dettato e nei temi che caratterizzano il suo ‘mondo’, da un lato il pessimismo umbratile di un intellettuale borghese che percepisce il destino di morte e decadenza ìnsito nella società capitalistica e, dall’altro, una volontà di credere all’utopia socialista, ritenuta però sostanzialmente illusoria. Forse, per questa antinomia – insopportabilità della condizione presente e impossibilità del suo cambiamento -, così come per il suo ‘pathos’ irrisolto, pervaso da un senso di morte onnipresente, la definizione che più si attaglia a Sereni è proprio quella di ‘poeta laghista della linea lombarda’, con tutto quello che le acque del lago significano in termini archetipici, dal mito di Narciso ai miti alchemici del ‘solve et coagula’ delle “Affinità elettive” di Goethe. In definitiva, un crepuscolarismo senza ironia che sconfina nel tragico, aduggiato dalla consapevolezza che il tragico è incompatibile con la “calotta d’acciaio” di weberiana memoria. Molto italiano…

  3. Sereni oggi ritenuto, “all’unanimità, come il maggiore poeta italiano del secondo Novecento”? Sarà. Certo un poeta così poco ‘intimidatorio’, così problematico si sarebbe quantomeno insospettito, dinanzi a definizioni così roboanti.

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