[Questa è la seconda puntata della rubrica dedicata alle piazze, curata da Adelelmo Ruggieri. La prima, a firma di Enrico Capodaglio, si legge qui].
di Franca Mancinelli
Questo spazio che vedo aprirsi lentamente, tra i tetti delle case, muri che dividono un’intimità da un’altra, proprietà, brevi giardini d’erba dal cemento, prende una forma definita, di una geometria dolce e imperfetta, come potrebbe tracciarla la matita di un bambino: un rettangolo smussato dagli anni, dai giorni di sole cocente, dalla pioggia fitta e sottile delle stagioni di mezzo. È la piazza. Posso vederla anche con gli occhi chiusi, o seduta alla finestra guardando la luce muovere gli alberi. C’è uno specchio lasciato sull’acciottolato e acqua che sgorga ininterrotta dal muso di leoni addomesticati dalla pietra: in una preistoria che si confonde con la fiaba sono scesi dalle colline ad abbeverarsi e come in un incantesimo sono rimasti, posati sulle zampe, mansueti, lasciando un arco d’acqua. Sopra di loro, una donna liberata da un drappo lascia che si gonfi nel vento. In un gioco mima l’asta di una bandiera, l’albero di una nave. Nuda come solo una divinità può essere. Senza malizia, indossando il suo corpo. Intorno inizia una città che potrei riconoscere e chiamare con due sillabe sole, quasi due note, o due opposte risposte, fa no. Il toponimo di un’inquietudine, di un’incertezza. Come qualcosa che appena pronunciato vorrebbe essere richiamato indietro, nel buio oltre la gola.
È in questa lingua che parlo, la lingua che mi ha insegnato una terra increspata dal lagomare Adriatico. A una manciata di chilometri di distanza dalla riva, puoi ancora inseguire il suo velo come qualcosa di sommerso che si muove nell’aria. Sono di questa campagna, tra due orizzonti di colline, campi di grano e strade segnate dalle querce, antichi cippi di confine. Una spina dorsale d’acqua dolce l’attraversa, il Metauro. Da qualche parte, lungo le sue rive, in una banchina di rena, riposa il fratello chiamato in soccorso, caduto portando il germe della sconfitta. Asdrubale graffiato da un aratro, da i denti di una ruspa, scoperto, derubato di armi e monete e subito ricoperto, oppure ancora affondato nel sonno, indisturbato, a qualche pugno di terra dalla superficie. E sono dell’acqua, quasi mai limpida, di questo mare socchiuso, mite, furioso ogni tanto negli inverni, contro le rive che l’hanno costretto; allora si rimangia le spiagge come un dio cattivo che lascia vivere i figli soltanto per poco, travolgendo le barriere emerse e sommerse di scogli. Non sono di questa città. Ho un indirizzo, il nome di una via, un numero di casa dove non risponde nessuno. È per questo che posso camminare fino al perimetro della piazza, sedermi sulla fontana come un fantasma e guardare.
Qui, come bandierine in un gioco di conquista, stanno issati tutti i simboli di possesso, di identità: la torre ricostruita dopo l’ultima guerra, l’orologio, e negli ultimi decenni banche, sempre più banche ai lati, agli angoli, a reggere i confini. E questa donna che se ne sta lì, in piedi, nuda, al centro della vasca, come un galletto segnavento, forte del suo essere inerme, quasi orgogliosa del gesto che l’ha liberata dalla veste che ora, inarcata nell’aria, la restituisce alla sua armatura di carne. Per niente bella la direbbero oggi, con i suoi piccoli seni, il ventre pronunciato e le cosce tornite. Quasi una bimba che può girarsene ancora in spiaggia indisturbata, indossando e togliendo il costume, a seconda che sia l’acqua o il sole a toccarla. Se invece ti fermi a guardare la sua postura decisa, i suoi lineamenti che potrebbero affiorare da un’antica moneta, pensi se ne stia lì a guidare una processione rituale, dalla spiaggia fino al punto in cui sarebbe sorta una città. Lì ferma a richiamare su questa coordinata dello spazio gli occhi di un dio addormentato, avvolto tra infinite coltri di nubi. È una dea plasmata nel bronzo; la chiamano Fortuna, come un antico tempio di cui si sono perse le tracce. Più di quattro secoli fa, quando fu imprigionata nella materia fusa e modellata, non sapevano più chi fosse, come guardala: una prostituta da venerare o da nascondere. La nascosero in una nicchia e la riconobbero santa; tornò così al suo posto, in cima alla fontana. Ma il suo corpo faceva ancora confondere, tremare.
Quando si sparse il contagio della peste avrebbero voluto bruciarla, farla tornare materia fusa e riaffiorare nelle sembianze della Vergine. La morte vicina contava ogni battito del cuore, era un orologio che scandiva ogni secondo, in una stanza chiusa. Il male avvolgeva i corpi in una rete sempre più stretta; un dio da una barca sulle nubi la portava a strascico per l’Europa. I soldi non bastavano, e Fortuna rimase com’era, una dea nuda, una donna. Poco più di un secolo dopo, fu la terra a tremare più volte, come per liberarsi di tutto ciò che la costringeva e soffocava: costruzioni sulla polvere, vesti sulla pelle. Si pensò a una processione con il santo Patrono portato sulle spalle, a scongiurare gli occhi del dio: che il suo sguardo deviasse, facendosi cieco in un punto, che risparmiasse Fano. Fortuna dovette essere di nuovo tolta dalla fontana e nascosta; dall’alto del suo piedistallo non poteva incrinare il volto di Paterniano, padre santo della città. Ma era lei, la madre, che avrebbe protetto la città dal male, con il suo ventre morbido, i suoi minimi seni. Non sono bastati uno specchio e quattro leoni a difenderla. Derubata e spezzata tre anni dopo dai soldati russo-turchi, riparata e rimessa al suo posto di vedetta, sarebbe poi stata custodita definitivamente in un museo, dopo l’ultima guerra. È una sua copia ora che guardiamo e non guardiamo distratti, formare con il velo gonfiato dal vento un arco d’ombra sull’acciottolato della piazza. Meno riconoscibili e visibili di lei, ma forse più di lei a segnare questo luogo, sono i piccoli cerchi delle ammoniti emersi dalle pietre. Un taglio nella roccia delle montagne ed è riaffiorato il seme che è sempre un antico messaggio d’acqua, una prima forma che la vita ha preso, indelebile. Le puoi cercare camminando con lo sguardo basso, assorto, lasciando riaffiorare le tracce di una spiaggia deserta, di un tempo che non conosceva l’uomo. Tutto è come allora, sono cambiati soltanto i contorni, le forme che abbiamo preso, quello che abbiamo imparato a costruire con le mani. Palafitte, case di terra, di paglia, di pietra tagliata, di cemento.
Continuo a camminare come avessi perso qualcosa di prezioso, ma senza l’ansia di trovarlo, senza paura di averlo restituito per sempre. Ora sono su una pietra dalle striature chiare: sto calpestando delle ossa, animali o umane non importa, lo stratificarsi del tempo ha cancellato qualsiasi segno di calore, di pietà, per questa morte. È vissuto qualcosa capace di cambiare la pietra. Qualcosa che ha la forza di una scia luminosa nello spazio. Saremo una striatura chiara anche noi, non visti da nessuno, nel cuore chiuso di una montagna.
Vagando così, a occhi bassi, a un tratto mi ritrovo al centro della piazza, dove è disegnata una stella. Ho un vuoto che risuona dentro, sono fatta di carta e stracci incollati e dipinti. Mi guardano tutti, in cerchio; mi hanno fatta loro così, con le mani, durante l’inverno; ho nei tratti i sorrisi e le lacrime di tutto quello che è loro accaduto. Mi hanno beffato, hanno riso guardandomi, mi hanno portato sulle spalle come un santo. Ora qualcuno si avvicina portandomi il fuoco. Devo farmi di cenere, devo andarmene perché sia primavera. Sono il loro pupo di carnevale. Muoio ogni anno nel cuore della città, al centro della piazza, nella pupilla di ognuno. In realtà qui non si potrebbe stare né passare: chi calpesta questa stella perde la fortuna, va nella mala sorte. Perché qui, al centro del centro della città, si è fuori; qui si brucia, si viene sacrificati perché la comunità possa continuare a riconoscersi nei suoi contorni, in questo rettangolo sghembo di piazza, in queste costruzioni sorte dove sarebbe acqua salata e sabbia.
Non è stata soltanto cartapesta a essere fatta cenere. Documenti d’archivio della fine del ’400 conservano due note contabili di spese sostenute per bruciare due streghe. Di una resta un nomignolo, «la Baronta» e la cifra servita per comprare i guanti al maestro di giustizia. Di un’altra un breve elenco più dettagliato di oggetti che sono serviti a cancellarla, come se la sua traccia scura sul selciato avesse resistito più a lungo, non se ne fosse voluta andare: «A voi Piero depoxitario livere tre, soldi dicinove, denari de bolognini, sonno che fo speso per brusiare la striga, cioè legne e fascine, dui bochali d’olio, per corda, per confectione, per chiodi e per far levare quella bruttura che non se brusiò et bolognini vinte per el boio». Nell’esattezza anonima di un registro, dove ogni parola è composta della materia sorda dei soldi, «quella bruttura che non se brusiò» sembra quasi l’ultima sfida lanciata da un corpo, contro l’orrore incancellabile della storia. La sua forza indifesa, la sua rivolta, è ancora in questa piega vitale che ha portato alla lingua dei cadaveri, efficiente assassina lingua della burocrazia.
[Immagine: fantaman966, Fano (Piazza) – http://www.flickr.com/photos/
trovo quella dolcezza poetica che conosco di franca mancinelli di altri suoi scritti…supera così con un balzo la capacità descrittiva del buon cronista e diviene allora letteratura…prosit…
vito inserra…