cropped-Paolo-Zanotti.jpgdi Daniele Giglioli

[Questa recensione è uscita sul «Corriere della sera»].

Il testamento Disney (Ponte alle Grazie, 2013) è un romanzo facile da amare, ma difficile da spiegare. Era così anche il suo autore, Paolo Zanotti, morto giovane meno di un anno fa: la persona più mite e più arresa che abbia mai conosciuto, eppure misterioso come una grotta screziata di anfratti e riflessi. Non aveva segreti, ma ogni tratto di lui era il frammento di un rebus la cui chiave è perduta per sempre. Gran risultato per l’arte, che non è tale se non ha nel suo fondo qualcosa di elusivo e enigmatico; nella vita è più duro accettarlo, ma una buona definizione dell’amore deve senz’altro includere qualcosa di simile.

Di Zanotti i lettori conoscono già Bambini Bonsai, uscito nel 2010; qualche racconto in rivista e alcuni volumi di saggi. Il testamento Disney è due volte postumo: scritto più di dieci anni fa, andò incontro a una lunga serie di rifiuti editoriali, perdonabili solo a causa della sua natura dolcemente inclassificabile. E’ un trentenne scrittore per dono, e non per volontà come molti, che ci parla da quelle pagine, a suo modo perfetto nel senso di compiuto, realizzato, un se stesso non più suscettibile di influenze e sviluppi. Con tutto il turbamento del caso, perché questo è anche il tema del libro: un gruppo di quasi trentenni renitenti a varcare la linea d’ombra della maturità, e dunque dediti al culto delle più improbabili avventure immaginarie, nello scenario di una Genova dell’anno 2000 che non ha visto la fine del mondo ma non per questo cessa di essere una «Stunt-town», una città controfigura dove reale e impossibile si confondono per contratto. Cacciatori di coincidenze, eterologie, leggende metropolitane, convinti che le ipotesi assurde sono quelle che hanno maggior probabilità di essere vere, come in X-Files, si sono dati dei soprannomi tratti dal mondo di Disney: Paperoga, il narratore; Eta Beta, l’ideatore del Club Pitagorico nonché l’unico che abbia uno straccio di lavoro, investigatore privato di infedeltà coniugali; Paperetta, Gastone, Pluto. Non protagonisti, figure di sfondo, creature seriali dotate del dubbio privilegio di non cambiare nel tempo, con cui ingannare un tempo che invece si ostina a passare.

Ci credono davvero? Ci credono ancora? Fatto è che stanno giocando col fuoco. Dal passato riemerge Anna, alias Zenobia, scomparsa dieci anni prima, capriccioso folletto cleptomane di cui Paperoga è da sempre innamorato senza speranza; nel più improbabile e perciò più credibile dei modi, in perfetto stile da leggenda metropolitana, una zingara che rapisce i bambini nei parcheggi dei supermercati. Prima la vede Paperoga, poi gli altri, poi Zenobia comincia a comparire nei telegiornali o in spezzoni di vecchi film evidentemente alterati: da chi? Allucinazione, complotto, gli alieni? La detection non chiarisce il mistero. Lo sprofondamento nella follia di Paperoga – che lascia casa e inizia a vivere in strada nella speranza che la dimensione altra da cui Anna interferisce nel loro mondo gli si apra del tutto – invece sì, portandolo sulla soglia di una verità insieme semplice e intollerabile.

Ma intollerabile diventa retrospettivamente tutto l’insieme: tanto la realtà quando la fantasia di intangibilità che le si oppone. Per l’adolescenza il cambiamento è la morte, ma la serialità non è da meno, e non a caso il titolo del romanzo deriva dalla voce che Disney avrebbe tentato di farsi ibernare, o clonare, quasi fosse invidioso della vampiresca non-morte che ha regalato ai suoi eroi: sinistra eternità. Non c’è rifugio, non c’è ritorno, non c’è volto che non sia esposto allo sfregio orrendo del tempo negato. Il miracolo di Zanotti è aver reso tutto ciò in una lingua soave, priva di strappi, rotture, sussulti di ribellione, insieme sussurrata e suntuosa, come di chi sappia che suo compito è trovare all’intollerabile un posto nella bellezza: la cosa più difficile del mondo, e non solo per gli scrittori.

Mistero di come ci si possa sentire felici leggendo una storia così, e di come l’autore abbia saputo intelaiarci sopra una tale ricchezza di invenzioni, situazioni, paesaggi, scene, dialoghi e riflessioni, senza mai un punto fiacco, un calo di tono, un cedimento al ricatto insito nel topos degli sfigati adorabili. Con spietatezza d’artista, Zanotti fa pagare ai suoi personaggi un prezzo altissimo per la gioia che regala ai lettori. Lo stesso che esigeva da sé, e non per impeto eroico ma perché era disegnato così e nessuno, neanche lui, ci poteva far niente. Il rimpianto è pari alla gratitudine, per chi lo ha conosciuto; ma credo sarà uguale per gli altri.

Paolo Zanotti, Il testamento Disney, Ponte alle Grazie, 317 pagg., 16 euro

6 thoughts on “Il testamento Disney di Paolo Zanotti

  1. Io lo conoscevo invece, e posso assicurare al sig. Giglioli che non era per nulla arreso.
    Grazie pe questa recensione.

  2. Percepisco un riflesso di luce nelle parole di Giglioli, quello che permette di traghettare un libro verso tutti. Con il rammarico di non aver conosciuto, di persona, l’autore.

  3. Non posso dire di averlo conosciuto e me ne dispiaccio. L’ho sentito leggere alcune pagine del suo “Bambini Bonsai” accompagnato dolcemente da 2 fraterne chitarre. Mi piace come lo ricordano tanti, come lo commenta con condivisa emozione Daniele Gilioli (grazie!) e so che manca a tutti. Chi gli è stato amico sa che se l’è meritato. Leggerò il suo “nuovo” libro.

  4. Io sto leggendo, un po’ faticosamente a dir la verità, il romanzo. È vero: Zanotti era decisamente talentuoso, sapeva scrivere e il libro ne è testimonianza. Tuttavia è a tratti così delirante che si ha la sensazione di perderne il filo. Non demordo, però, perché tra le righe leggo la sua capacità di guardare oltre, di scrivere (e soprattutto di leggere) l’adolescenza continuamente protratta della mia e sua generazione. Un peccato che se ne sia andato così presto, davvero.

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