cropped-img_044811.jpgdi Emanuele Zinato

[Dal 25 dicembre al 6 gennaio LPLC sospende la sua programmazione normale. Per non lasciare soli i nostri lettori, abbiamo deciso di riproporre alcuni testi e interventi apparsi nel 2011, quando i visitatori del nostro sito erano circa un quinto o un sesto di quelli che abbiamo adesso. È probabile che molti dei nostri lettori attuali non conoscano questi post. L’articolo che segue è uscito il 6 ottobre 2011.]

 I. Le esternazioni provocatorie del Presidente del Consiglio e la scuoletta imposta dalla ministra, di recente hanno provocato non solo sconforto e sconcerto ma anche indignazione, moti d’orgoglio e proteste a favore della scuola e contro chi taglia i fondi e accusa gli insegnanti di “inculcare” ideologie.  La scena sembra  la seguente: Davide (la scuola pubblica, con le sue classi come luoghi di educazione egualitaria, valori e diritti) contro Golia (le televisioni, con i loro luccicanti e falsi miti individualisti e la spazzatura culturale). I migliori fra i docenti, in questa battaglia impari, reagiscono come possono, cercando di attingere alla propria riserva di entusiasmo e passione, senza la quale non si può entrare in un’aula scolastica e svolgere al meglio un compito educativo. E’ certo, però, che gli insegnanti vivono sempre più in una condizione delegittimata oltre che di angosciosa, crescente precarietà.  Si sentono ogni anno più “inutili”, umiliati  e  socialmente desueti davanti all’opinione pubblica e davanti ai loro stessi alunni.

Forse, tuttavia, per decostruire la genesi di questo processo, si può cominciare col mettere in dubbio che la cattiva maestra sia solo la televisione. Esiste infatti un’ “agenzia formativa” più forte, meno immateriale e psichicamente più profonda e necessaria, data dallo stesso approccio del bambino con il gioco, con gli oggetti e con i luoghi di cui le televisioni sono una formidabile  cassa di risonanza. Se dopo i due anni (secondo Piaget) il bambino, una volta distinto il proprio corpo dagli oggetti esterni, crea  con essi dei giochi simbolici  fondamentali per lo sviluppo senso-motorio e cognitivo, nell’epoca della mutazione antropologica questo rapporto primario con le cose è radicalmente cambiato.

L’aveva capito perfettamente Pier Paolo Pasolini. Nelle Lettere luterane, il trattato pedagogico incompiuto, e indirizzato a un  adolescente napoletano immaginario, Gennariello, il “linguaggio delle cose” segna una svolta irreversibile, una “Fine del mondo”  che separa senza rimedio la generazione dello scrittore da quella del suo giovane interlocutore, educato da oggetti senza storia, senza segni di mano umana.

L’educazione data a un ragazzo dagli oggetti, dalle cose, dalla realtà fisica – in altre parole dai fenomeni materiali della sua condizione sociale- rende quel ragazzo corporalmente quello che è e quello che sarà per tutta la vita.  (…)

Il punto è questo: la mia cultura (coi suoi estetismi) mi pone in atteggiamento critico rispetto alle “cose” moderne intese come segni linguistici. La tua cultura, invece, ti fa accettare quelle cose moderne come naturali, e ascoltare il loro insegnamento come assoluto.

Io potrò cercare di scalfire, o almeno di mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose. (…) Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare.

Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. (…)  Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. “’O munno cagna”. E’ vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne.[1]

Pasolini ci offre due spunti problematici: la rilevanza antropologica  e educativa degli oggetti e  l’entità epocale di una “fine del mondo” fondata proprio su uno  scarto “oggettile” che rende due estranei il maestro e il suo allievo.

 Che la logica di questi oggetti nuovi fosse per Pasolini  “l’usa e getta”, cioè la vocazione a farne immondizie prima che la memoria e l’esperienza umana potessero metabolizzarli, è accertato dall’abbozzo di Petrolio (in cui un’umanità-spazzatura è omologa alla più funzionale delle materie prime, il deposito organico del pianeta ridotto a plastica o a propellente, il petrolio, appunto). Tuttavia, se le “cose” nuove hanno in generale, nel sistema dei consumi,  un sex appeal e un potere educativo non scalfibile, quelle che in modo più pertinente si fanno vittoriose antagoniste dell’ambiente della scuola sono i giocattoli.

 II. La teoria dell’infanzia  si fonda soprattutto sulle parole, ovvero sulla  scienza del linguaggio. In particolare sulla distinzione, formulata da Benveniste, fra semiotico e semantico, fra pura lingua e discorso. L’infanzia, però, può essere compresa anche a partire dalle cose: da  quel modo specifico di trattare le cose che consiste nel gioco.  Numerose ricerche attestano come il gioco sia attività che trova origine nei riti, nelle cerimonie sacre, nelle pratiche divinatorie: nel gioco della palla si possono scorgere a esempio le tracce della rappresentazione rituale di un mito in cui gli dei lottavano per il possesso del sole, la trottola e la scacchiera erano strumenti divinatori, il girotondo un antico rito matrimoniale. A questa correlazione  appartiene anche il nesso fra attività del gioco e riti funebri: nella Pensée sauvage,  Lévi-Strauss ha analizzato oggetti di legno o di pietra molto simili a giocattoli, detti churinga, che in Australia rappresentano il corpo di un antenato. Nel XXIII canto dell’Iliade, Achille dopo aver vegliato dolorosamente accanto al corpo di Patroclo, contempla con piacere i giochi: le gare di tiro con l’arco o di pugilato e le corse dei carri. [2]

Per secoli, i bambini hanno dunque iniziato la loro conoscenza del mondo con un  apprendistato rituale, hanno giocato con qualunque scarto, frammento o anticaglia  che hanno avuto tra le mani. L’appropriazione ludica, analogamente al bricolage dei primitivi, si  serve  di ogni briciola o pezzo appartenente ad altri insiemi strutturali,  e si  compie   miniaturizzando,  ingigantendo, trasformando in modo illusorio e visionario oggetti della sfera d’uso (illusione etimologicamente deriva infatti da in-ludere). A loro modo, lo sapevano bene i surrealisti francesi, nei loro vagabondaggi al marché aux puces alla ricerca degli oggetti di scarto, da risemantizzare con il collezionismo e contro il dominio del valore di scambio.

A metà degli anni Cinquanta del Novecento, Roland Barthes in una  delle sue prime Mythologies  dedicata all’“imborghesimento del giocattolo” ha precocemente intuito come  la “mutazione antropologia”  stesse  modificando  l’esperienza del gioco:

Il giocattolo francese è come una testa ridotta di Jivaro, dove si ritrovano nella grandezza di una mela le rughe e i capelli dell’adulto. Esistono per esempio delle bambole in grado di orinare; hanno un esofago, si può dar loro un biberon, bagnano le fasce, presto, certamente, il latte nel loro ventre si trasformerà in acqua. (…) Ma davanti a questo universo di oggetti fedeli e complicati il bambino può costituirsi esclusivamente in funzione di proprietario, di utente, mai di creatore; non inventa il mondo, lo utilizza: gli si preparano gesti senza avventura, senza sorpresa né gioia.  (…)  L’imborghesimento del giocattolo non si vede soltanto dalle sue forme, tutte funzionali, ma anche dalla sua sostanza. I giocattoli correnti sono di una materia ingrata.(…) Il giocattolo ormai è chimico, di sostanza e di colore; il suo stesso materiale introduce a una cinestesia, non del piacere. D’altronde simili giocattoli muoiono molto presto, e una volta morti non hanno per il bambino nessuna vita postuma.[3]

La svolta nel sistema dei giocattoli costruisce per Barthes un nuovo tipo di apprendistato che  termina con la  formazione di un utente-proprietario:

Il giocattolo francese è generalmente un giocattolo d’imitazione, vuol formare dei bambini utenti non dei bambini creatori.

Barthes pensava soprattutto a un catalogo di repliche miniaturizzate della vita moderna adulta: “l’Esercito, la Radio, le Poste, la Medicina, la Scuola, l’Acconciatura, l’Aviazione, i Trasporti, la Scienza”. Non poteva immaginare che nei cinquant’anni successivi  il processo di valorizzazione economica dell’infanzia avrebbe colonizzato anche le enclaves psichiche più profonde, trasformando (mediante una serie di “oggetti-mostri”) il rito in una narrazione mitica degradata e eterodiretta.

Il primo a segnalare, in versi e in prosa, “l’arrivo dei mostri” fra i  giocattoli è  Andrea Zanzotto, il poeta più reattivo nei confronti delle metamorfosi imposte dalla mercificazione totale alla forma di vita infantile:

 Nel contempo, i segni di una “cattiveria” della cultura nei riguardi del bambino sono frequenti. E’ sintomatico che, nel recente clima di rivalutazione  di magia e diabolismo ridotti a mangime film-fumettistico, spesso il bambino non tanto venga demitizzato secondo un’intrepida delucidazione di stile psicanalitico, quanto rimitizzato in forma negativa. (…) La moda americana di offrire ai bambini mostri più o meno famosi, anche se si può ricollegare alla tradizione orrifica delle fiabe, conferma la tendenza a una forma di vendetta contro l’infanzia.[4]

III.  Questi “mostri” sono un grande business e, al contempo, una forma simbolica-chiave della contemporaneità. Il mercato  dell’intrattenimento infantile è gestito in occidente da alcune grandi holding:  leader assoluto è la Mattel, la creatrice della Barbie, il giocattolo più venduto al mondo con oltre un miliardo di esemplari e tre bambole vendute ogni secondo. La leggenda vuole che  Barbie  sia stata inventata dalla stessa moglie del numero uno della Mattel giocattoli nel 1959, osservando come sua figlia preferisse ai bambolotti, pupazzi di carta da lei stessa creati  che figuravano donne adulte. Barbie nacque insomma in modo parassitario rispetto al bricolage di una  bambina e, inoltre,  fu in assoluto il primo giocattolo a godere di una strategia di mercato basata sulla pubblicità televisiva. In tal modo si diffuse capillarmente a suo riguardo una “grande narrazione”, iperbolica e bovaristica: Barbie ha una sua biografia che permette di farne il centro di un sistema di personaggi accessori,  ha frequentato la  Manhattan International High School a NY, possiede 38 animali, inclusi gatti, cani, cavalli, un panda, un cucciolo di leone e una zebra, guida decappottabili rosa, camper e molti altri veicoli, lavora come infermiera, hostess, parrucchiera, ma è stata anche astronauta,  ambasciatrice, giornalista.  La sua egemonia di ragazza-bene è stata insidiata solo nel 2001  dalla trasgressiva linea di bambole Bratz della MGA Entertainment, dotate di tratti fisici deformi e aggressivi: testa larga, occhi grandissimi, labbra gonfie. Entrambi i prodotti  sono  disseminati in infinite serie di cartoni, film in grafica computerizzata, videogiochi e merchandising, tra cui spicca il materiale scolastico griffato: zainetti, astucci, penne, gomme, colle, forbicine.

Nintendo, con sede a Kyoto, è il principale creatore dei game boy. Negli ultimi anni ha diffuso l’intrattenimento domestico: la console tascabile DS e la Wii, applicabile a ogni televisione. Dai videogiochi Nintendo nasce anche la serie dei Pokémon (Pocket Monster)  nata nel 1999 in Giappone a cui è legata un’intera galassia di gadget. Anche i Pokémon come la Barbie, nella loro genesi, lasciano trasparire la vocazione a colonizzare e omologare come merce il gioco inteso come rito e bricolage:  sono stati infatti creati da un giovane appassionato di insetti, dotato di una naturale vocazione al collezionismo, che è diventata, tramite le carte con le caratteristiche e i poteri delle centinaia di mostri,  l’essenza stessa del gioco.  Il giocatore è invitato a impersonare un ragazzino che si prefigge di diventare il miglior allenatore di Pokémon. Il successo dipende dalla sua capacità di trovare la strada giusta in un labirinto, e dall’attitudine ad allevare i suoi mostri e sconfiggere quelli altrui.  Per riuscire, deve innanzitutto memorizzare gli spazi ed escogitare diverse strategie. [5]

Confrontando quello che Barthes definiva “giocattolo borghese” con quello postmoderno, si può sostenere che  «i giocattoli tradizionali preparavano i bambini a un mondo di adulti che i genitori conoscevano bene, attraverso l’esperienza della pratica quotidiana. Mentre i giochi interattivi li preparano al mondo delle macchine intelligenti, di cui gli adulti non sanno nulla».[6] Ma questo “intrattenimento interattivo”,  sapientemente diretto dalle logiche del marketing,  è tutt’altro che ideologicamente neutrale o innocente. Sembra viceversa  funzionale a una sorta di allenamento al disorientamento, alla cieca competizione e ai desideri liquidi, in un mondo intermente plasmato dalla circolazione di merci transnazionali.

Anche il giocattolo italiano ha elaborato, in forme subalterne e provinciali, il trapasso dal “giocattolo borghese” a quello postmoderno. Il gruppo Preziosi, che negli anni Sessanta ha distribuito il famoso neonato Cicciobello, adatto ad educare ogni bambina al mestiere di mamma, negli anni Zero ha invece creato i Gormiti, mostriciattoli di plastica venduti in bustine insieme con una carta che ne illustra i poteri. I Gormiti sono, come i Pokémon, concepiti sia per la collezione che per la battaglia: il loro aspetto è però un amalgama di cattivo gusto, in cui è possibile riconoscere tratti minerali, vegetali e animali grossolanamente combinati. Abitano una sorta di parco a tema battezzato Isola di Gorm, in cui il bene combatte incessantemente il male,  in base a una mitologia creata per l’occasione e debitrice,  in parte, del Signore degli anelli.

IV. La bambina e il bambino che giungono nelle classi della scuola primaria hanno dunque già attraversato questa intensa “acculturazione”: sono già pienamente formati come utenti dei percorsi dei fine settimana che si segmentano su una vasta rete di luoghi e di non luoghi: autostrade, parchi a tema, ipermercati, villaggi-vacanze  e discoteche. Sono già  moltitudine che percorre questo “arcipelago”  con i propri nuclei famigliari alla ricerca di surrogati di attimi emozionali. Come per la fabbrica fordista, anche in questa filiera del piacere si possono individuare dei distretti produttivi (in Italia, soprattutto da Gardaland a Rimini)  in cui il corpo diviene moneta vivente[7]. L’utente delle Carte Fedeltà dei supermercati qui è premiato spesso con buoni d’ingresso validi per le eterotopie[8]:  a Sea Life, dove in vasche interattive potrà fare il “pieno di esperienze” e di “incontri ravvicinati con le creature marine”, ad Aqualandia, mezzo parco e mezzo villaggio, a “forte tematizzazione”, con le riproduzioni di finte baie  tropicali e grandi squali di silicone,  a Gardaland Hotel, dove si riceve ogni mattina il buongiorno da “un’ indimenticabile fatina rosa” e si trascorrono le serate con “uno scatenato staff di animazione”, al Motor Show bolognese, concepito come parco a tema annuale che celebra il consumo di movimento e di velocità.

Disponendo sul banco l’astuccio con i suoi “eroi”, nascondendo in tasca il suo game boy o il mostriciattolo gormita, non vedendo attorno a sé nulla di luccicante,  strano, indimenticabile, magico, lo studente ha fin dal primo giorno l’esatta sensazione che quest’altro apprendimento tardivo che la scuola gli impone, fatto di lettere e numeri, di gesso e di carta, di sequenze logiche e di regole, non gli serva a nulla. Il gioco, infatti, non più rito ma merce, lo ha allenato all’Edutainmnent, l’acronimo di Educational-Entertainment in uso  nelle navi della Costa Crociere, all’idea cioè che si educa solo intrattenendo, con effetti speciali. Con il massimo di  tecnologia e il massimo di mediocrità.

Si dice che sarà la Crisi, minacciosa e tellurica come quella del ‘29, a spezzare la solidarietà fra eterotopie del capitalismo molecolare e colonizzazione dell’immaginario infantile: in quanto capace, per vie tragiche,  di  rimettere donne, uomini e bambini a contatto con l’indigenza e  l’esperienza.  Una controtendenza, però, è insita nelle stesse ragioni antropologiche del gioco, mai del tutto sopite: di continuo, i bambini fanno di braccia e gambe di Barbie,  di torsi mutilati di Gormiti, di  relitti spenti di console tascabili, tutto ciò che l’ immaginazione suggerisce loro, recuperando il valore rituale e d’uso entro quello di scambio. La scuola, intanto, dovrebbe da parte sua attrezzarsi a ricostruire la genealogia del gioco umano, decostruendo le “competenze” eterodirette  già saldamente acquisite dai propri allievi, per demitizzarle nelle comunità-classi, aiutando i bambini e le bambine a diventare più consapevoli e meno ciechi nei confronti delle proprie stesse mitologie.


[1] P. P. Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino, 1976, pp. 35-43.

[2] Cfr. G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino, 1979, pp. 52-53

[3] R. Barthes, Giocattoli, in Miti d’oggi, Einaudi, Torino, pp. 51-53

[4] A. Zanzotto, Infanzie, poesia, scuoletta,  in Fantasie di avvicinamento, Mondadori, Milano, 1991,  p. 196.

[5] L. Lipperini, Generazione Pokémon. I bambini e l’invasione planetaria dei nuovi “giocattoli di di ruolo”, Castelvecchi, 2000.

[6] S. Tisseron, Il percorso iniziatico dei Pokémon, in “Le Monde diplomatique”, novembre 2000

[7] A. Bonomi, Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.

[8] M. Foucault, Eterotopie. Luoghi e non luoghi metropolitani, Mimesis, Milano, 1994.

9 thoughts on “Verifica delle parole: scuola, gioco, educazione, intrattenimento

  1. Molto interessante questo approfondimento sul gioco: i bambini giocano molto di più da soli, questa è un’altra novità che si inserisce nel mutamento antropologico di cui qui si parla.
    Quello che si nota anche come effetto della abitudine al gioco tecnologico è l’eccitabilità che aumenta sempre di più nella vita di classe; i bambini sono abituati a stimoli immediati e veloci a cui rispondere in modo immediato e veloce, hanno difficoltà a rapportarsi ad un andamento temporale più rallentato.

  2. La metamorfosi del gioco è una chiave di lettura davvero potente per capire cosa stia succedendo alle nuove generazioni. Esiste un problema oggettivo: la scuola e l’educazione non sono state ripensate portandole all’altezza della rivoluzione tecnologica degli ultimi trenta/quarant’anni. Non solo per stare alla pari su quel terreno, ma per sfidarlo. Esistono naturalmente delle eccezioni: per esempio, le famose scuole dell’infanzia di Reggio Emilia. Lì i bambini fanno continuamente esperienza di tutto: coltivano, allevano gli animali, cucinano, suonano, costruiscono oggetti, registrano suoni, dipingono, esplorano lo spazio, etc… Intensificare l’esperienza come radicamento nella vita può essere un antidoto ad un uso solo passivo della tecnologia per bambini e dei suoi mostri immaginari?

  3. Il risvolto più impressionante dell’azione di questi oggetti ludici odierni, ovvero delle “cose” ideologicamente interessate della società dei consumi, va cercato nei termini di una contrazione vitale preoccupante in termini e esistenziali e antropologici. La coercizione della verosimiglianza va ad intaccare quella “sensazione che vi è qualcosa da scoprire” (Bruner), tale per cui il gioco è, prima di ogni altra cosa, momento di gioia. L’inibizione del preliminare impulso alla scoperta, alla creazione, alla ricomposizione di tessere adulte, va quindi direttamente a compremettere la stessa capacità di gioia dei bambini.

  4. Quello che questo bellissimo articolo mette in rilievo è l’incapacità, indotta da una società rapace e cieca, retta solo dal profitto, dei bambini di “apprendere”, come l’umanità ha fatto da sempre, dal mondo degli adulti. Apprendere le strategie di sopravvivenza, le conoscenze, il sapere della tradizione, che poi dovrà essere rielaborato e superato.
    Il dramma di ciò che già Pasolini aveva preannunciato, è la cesura, l’interruzione drammatica di un passaggio, di un handing down tra le generazioni. Eppure, siamo noi che abbiamo creato gli oggetti-mostro, gli orchi a cui affidiamo l’educazione di nostri bambini.
    Sono i nostri mostri taciuti e non affiorati alla coscienza che si manifestano.
    Arrivano a scuola già resi tabula rasa della cultura da cui dovrebbero provenire – una cultura del resto, cancellata dalla loro società – incapaci di distaccarsi da oggetti che creano dipendenza. Per tutti, i terribili cellulari, che hanno già in mano a 6 anni.
    Ma il problema non sono i giochi dei bambini e le modalità con cui ad essi si rapportano, quanto la perdita generazionale di una “cultura” di provenienza. L’atomizzazione di quella cultura.
    Ho visto di recente una trasmissione TV in cui si mostrano dei matrimoni tra i travellers, cioè gli zingari che da secoli sono stanziati nel Regno Unito e in Irlanda e cerimonie di Prima Comunione. I bambini che fanno la Comunione e i poco più che bambini che si sposano, indossano abiti grotteschi, fatti di centinaia di metri di tulle e che arrivano a pesare quasi 100 chili, brillocchi, lucette che si accendono sotto il tulle, strass carrozze a imitazione di quelle di Walt Disney in Cenerentola.
    Le bambine di 7 – 8 anni truccate come quarantenni, con ciglia finte e unghie finte, abbronzate artificialmente, che vanno a fare la Comunione in chiesa su tacchi alti 8 centimetri… Un dispendio di denaro che ha del mirabolante e un cattivo gusto raccapricciante. Tutto questo non ha nulla a che vedere con le tradizioni proprie dei gipsies. Quasi nessuno di loro vive più in una roulotte, ma in case del Council. Di fatto hanno perso del tutto la loro cultura e, convinti invece di preservarla, l’hanno sostituita con la peggiore versione del cattivo gusto e del consumismo delirante di chi ha conosciuto l’emarginazione e ora si è arricchito. Lo spettacolo che ne deriva è tristissimo e grottesco e ancora di più perché loro sono certi che si tratta di “tradizioni”, di cui invece non ricordano più nulla.
    Ecco, noi siamo come loro. Forse è questa la “modernità”, cioè l’affiorare dei traumi terribili del ‘900, mai veramente elaborati e gettati alle spalle.
    Solo che noi gettiamo il bambino insieme all’acqua sporca.

  5. Sì, ancora la neve

    “Ti piace essere venuto a questo mondo?”

    Bamb.: Sì, perché c’è la STANDA”.

    Che sarà della neve
    che sarà di noi?
    Una curva sul ghiaccio
    e poi e poi… ma i pini, i pini
    tutti uscenti alla neve, e fin l’ultima età
    circondata da pini. Sic et simpliciter?
    E perché si è – il mondo pinoso il mondo nevoso –
    perché si è fatto bambucci-ucci, odore di cristianucci,
    perché si è fatto noi, roba per noi?
    E questo valere in persona ed ex-persona
    un solo possibile ed ex-possibile?
    Hölderlin: “siamo un segno senza significato”:
    ma dove le due serie entrano in contatto?
    Ma è vero? E che sarà di noi?
    E tu perché, perché tu?
    E perché e che fanno i grandi oggetti
    e tutte le cose-cause
    e il radiante e il radioso?
    Il nucleo stellare
    là in fondo alla curva di ghiaccio,
    versi inventive calligrammi ricchezze, sì,
    ma che sarà della neve dei pini
    di quello che non sta e sta là, in fondo?
    Non c’è noi eppure la neve si affisa a noi
    e quello che scotta
    e l’immancabilmente evaso o morto
    evasa o morta.
    Buona neve, buone ombre, glissate glissate.
    Ma c’è chi non si stanca di riavviticchiarsi
    graffignare sgranocchiare solleticare,
    di scoiattolizzare le scene che abbiamo pronte,
    non si stanca di riassestarsi
    – l’ho, sempre, molto, saputo –
    al luogo al bello al bel modulo
    a cieli arcaici aciduli come slambròt cimbrici
    al seminato d’immagini
    all’ingorgo di tenebrelle e stelle edelweiss
    al tutto ch’è tutto bianco tutto nobile:
    e la volpazza di gran coda e l’autobus
    quello rosso sul campo nevato.
    Biancaneve biancosole biancume del mio vecchio io.
    Ma presto i bambucci-ucci
    vanno al grande magazzino
    – ai piedi della grande selva –
    dove c’è pappa bonissima e a maraviglia
    per voi bimbi bambi con diritto
    e programma di pappa, per tutti
    ferocemente tutti, voi (sniff sniff
    gran gnam yum yum slurp slurp:
    perché sempre si continui l'”umbra fuimus fumo e fumetto”):
    ma qui
    ahi colorini più o meno truffaldini
    plasmon nipiol auxol lustrine e figurine
    più o meno truffaldine:
    meglio là, sottomano nevata sottofelce nevata…
    O luna, ormai,
    e perfino magnolia e perfino
    cometa di neve in afflusso, la neve.
    Ma che sarà di noi?
    Che sarà della neve, del giardino,
    che sarà del libero arbitrio e del destino
    e di chi ha perso nella neve il cammino
    (e la neve saliva saliva – e lei moriva)?
    E che si dice là nella vita?
    E che messaggi ha la fonte di messaggi?
    Ed esiste la fonte, o non sono
    che io-tu-questi-quaggiù
    questi cloffete clocchete ch ch
    più che incomunicante scomunicato tutti scomunicati?
    Eppure negli alti livelli
    sopra il coma e il semicoma e il limine
    si brusisce e si ronza e si cicala-ciàcola
    – ancora – per una minima e semiminima
    biscroma semibiscroma nanobiscroma
    cose e cosine
    scienze lingue e profezie
    cronaca bianca nera azzurra
    di stimoli anime e dèi,
    libido e cupìdo e la loro
    prestidigitazione finissima;
    è così, scoiattoli afrori e fiordineve in frescura
    e “acqua che devia
    si dispera si scioglie s’allontana”
    oltre il grande magazzino ai piedi della selva
    dove i bambucci piluccano zizzole…
    E le falci e le mezzelune e i martelli
    e le croci e i designs-disegni
    e la nube filata di zucchero che alla psiche ne vie?
    E la tradizione tramanda tramanda fa passamano?
    E l’avanguardia ha trovato, ha trovato?
    E dove il fru-fruire dei fruitori
    nel truogolo nel buio bugliolo nel disincanto,
    dove, invece, l’entusiasmo l’empireirsi l’incanto?
    Che si dice lassù nella vita,
    là da quelle parti là in parte;
    che si cova si sbuccia si spampana
    in quel poco in quel fioco
    dentro la nocciolina dentro la mandorletta?
    E i mille dentini che la minano?
    E il pino. E i pini-ini-ini per profili
    e profili mai scissi mai cuciti
    ini-ini a fianco davanti
    dietro l’eterno l’esterno l’interno (il paesaggio)
    dietro davanti da tutti i lati,
    i pini come stanno, stanno bene?

    Detto alla neve: “Non mi abbandonerai mai, vero?”

    E una pinzetta, ora, una graffetta.

  6. Pubblico questa poesia di Zanzotto da “La beltà”. Grazie a Zinato per il suo articolo.

  7. Ringrazio tutti e cinque gli intervenuti per il vivo interesse che il mio scritto ha suscitato in loro. La poesia di Zanzotto pubblicata da M.B. completa la mia citazione da “Fantasie di avvicinamento”. Francesca Diano ha il merito di segnalare il feticismo dei cellulari, vero apprentisage infantile e adolescente all’oggettualità contemporanea. Sofia suggerisce di estendere la ricerca cognitiva sull’infanzia nel senso della critica al comportamentismo. Nives e Daniele, alludendo allo iato tra eccitabilità rapsodica e tecnologica dei ragazzini e sequenzialità scolastica dei processi di apprendimento alludono, da due punti di vista diversi, al problema del rapporto fra sistema educativo e ambiente virtuale e digitale. Certo: la scuola e l’università debbono attrezzarsi a diventare antagonisti degli stimoli analogici e sinestetici del marketing e dell’intrattenimento: critica dei segni, procedura allegorica, microcitazione, balzi interdisciplinari e brusche attualizzazioni sono alcuni degli strumenti che personalmente ho utilizzato con gli studenti. Rimane un problema antropologico: quello dell’ odierno rapporto con le “cose”. Per questo ho utilizzato un’ immagine di pensiero: il bricolage del bambino che, stanco di utilizzare la narrazione eterodiretta, tratta i pezzi di plastica dei suoi mostri ormai fuori uso, decontestualizzandoli, come materia bruta per altre invenzioni…

  8. Ho trovato questo testo molto motivante anche per chi, come me si occupa di educazione al di fuori delle istituzioni scolastiche. Trovandomi spesso immersa nel quotidiano dei bambini e delle bambine, è impossibile non accorgersi di come le abitudini di gioco si siano modificate rispetto a 15, 20 anni fa, quando io ero bambina e disponevo ancora di molti appigli concreti da cui sviluppare il mio gioco e la mia narrazione derivante da esso. Trovo che i punti evidenziati da Zinato siano fondamentali per chi educa e spingano sempre più nella direzione di consapevolezza e resistenza culturale verso un mercato che ha fatto dei nostri bambini dei consumatori, spesso sessualizzati precocemente e permeati da un immaginario che ha molto poco di archetipico, ancora meno di storico.
    Mi preme però soffermarmi specialmente sull’ultima parte dell’articolo, quella che possiamo definire del “recupero del valore rituale” del gioco post-moderno: è in questo che l’infanzia continua a stupirmi. Faccio un esempio soltanto, una bambina che si costruisce da sola pupazzi di pokemon in cartapesta, seppure i genitori non abbiano problemi a comprarle un peluche: ma il tutto in un contesto culturale alto e stimolante. Mi rendo conto che la realtà delle famiglie non sia sempre così, che i genitori sono stanchi, distratti, pressati da preoccupazioni economiche e non sappiano sempre difendersi e difendere i propri figli da questa depredazione dell’immaginario. Inoltre, certi temi, sembrano essere patrimonio soltanto di chi si occupa di educazione in maniera istituzionalizzata, o meglio ancora, di chi li studia: nel concreto, poi, è molto difficile riuscire a mettere in atto una resistenza vera nei confronti del mondo/mercato esterno, e quando ce la si fa, pare sempre che questo “entri dalla finestra”, in un modo o in un altro. La chiave penso sia non illudersi che privare i propri figli di un determinato tipo di giochi o vietargli qualsiasi tipo di programma televisivo sia una soluzione: l’esperienza m’insegna che i bambini e le bambine sono capaci di “personalizzare” i contenuti, drammatizzare scene, riconoscere e rielaborare personaggi e schemi narrativi con una competenza strabiliante. Ma è importante non lasciarli da soli davanti a tutto questo, fare da scaffolding cognitivo, selezionare i contenuti e i giochi, predisporre un ambiente fisico ed emotivo adatto anche alla creazione di oggetti propri, di giochi nuovi e personalissimi. Penso che accostare una diversa gamma di stimoli sia faticoso, richieda sforzo, creatività e un pensare progettuale che certo, è molto più dispendioso in termini di energie del comprare la bustina dei gormiti a due euro. Ma so anche che il sostengo e la consapevolezza adulta è essenziale in questo momento in cui fa tanto comodo pensare che i bambini siano già grandi e sappiano difendersi con le loro risorse, solo perchè, magari, li vestiamo come noi.

  9. “Resistenza culturale alla depredazione dell’immaginario”. Dina: hai sintetizzato esemplarmente i miei intenti! Grazie davvero!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *