cropped-2001-a-space-odyssey-hal9000-hd-wallpapers.jpgdi Rino Genovese

Bisogna partire dalla constatazione che ciò cui abbiamo assistito negli ultimi decenni è un mutamento paragonabile soltanto a quella che, a suo tempo, fu la rivoluzione industriale, che cambiò radicalmente le forme di vita in Occidente. Il neoliberismo è molto più di una dottrina economica: è una cultura in senso antropologico, i cui momenti plasmanti sono l’iperconsumo come mitologia estetizzata e la finanziarizzazione dell’economia. L’estetizzazione delle merci, il loro potere di fascinazione, la loro fantasmagoria “sensibilmente sovrasensibile”, sono tutti fenomeni ampiamente noti, e non da ieri. A introdurre una differenza qualitativa, è stata la diffusione massiccia dei media elettrici ed elettronici. Risultato: l’intera comunicazione sociale è oggi sottoposta, in particolare dalla parte dei riceventi o dei fruitori, alla prevalenza di un codice estetico elementare, sintetizzabile nella secca alternativa mi piace / non mi piace, che esclude tendenzialmente ogni argomento di ragionevole giustificazione delle scelte in qualsiasi campo, aprendo un vasto spazio politico alle semplificazioni leaderistiche e populistiche basate sull’immediato sì/no di un plebiscitarismo tradotto in sondaggi di opinione.

L’ulteriore aspetto quasi del tutto inedito offerto dalla combinazione della finanza con il computer, è quello del gioco d’azzardo. Certo, nelle operazioni finanziarie c’è sempre stato un rischio, accompagnato da un sommario e fantastico calcolo delle probabilità che conferiva loro una tensione da tavolo verde. Ma, con le nuove tecnologie, l’ebbrezza del gioco “in tempo reale” è diventata l’alfa e l’omega della vita di uno speculatore. Questo non cancella la possibilità che, come in tutti i giochi, dietro l’angolo facciano capolino la delusione e l’inganno, e che soltanto forze economiche cospicue possano permettersi di vincere e perdere senza tremare. Però il capitalismo contemporaneo, privilegiando l’estetizzazione e il gioco in borsa, ha reintegrato i mercati nella cultura, nel simbolico, camuffandone, anche grazie alla magica razionalità dell’azzardo, la spaventosa anarchia – addomesticandone il brivido ma, al tempo stesso, lasciando i suoi “spiriti animali” allo stato brado –, e potendo così permettersi di non fornire alcun preciso fondamento normativo alle proprie istituzioni. Perché, se “la vita è un ottovolante”, stando a quanto dichiarava già un personaggio di Frank Wedekind, non c’è tempo per le pretese di validità e le richieste di giustificazione. Il capitalismo, in mancanza di alternative, si autogiustifica. C’è perché c’è.

            Oggi, a distanza di quarant’anni, viene da sorridere con una dose di affettuosa nostalgia rileggendo i testi di James O’ Connor, Claus Offe, Jürgen Habermas circa il “capitalismo maturo” che, grazie all’intervento dello Stato nell’economia, avrebbe superato le sue crisi cicliche esponendosi, piuttosto, alle crisi di legittimazione conseguenti a un sovraccarico di inputs nel sistema politico[1]. Negli ultimi tempi è accaduto giusto il contrario: si è ripresentata una classica crisi da sovrapproduzione, innescata in maniera non canonica dall’esplosione di una bolla finanziaria riverberatasi in una crisi dei debiti pubblici statali; e però di una crisi di legittimazione neppure l’ombra. Il capitalismo non è diventato “maturo”, anzi, mentre la modernità nel suo complesso si faceva sempre più tardomoderna, il capitalismo è sembrato ringiovanire: pazzo e frenetico, piratesco e corsaro quasi come ai tempi della conquista delle Americhe. Suo obiettivo dichiarato: emanciparsi dallo Stato – ma fino a un certo punto. Poco Stato, sempre di meno – ma quando serve serve… Come il figliuol prodigo che dopo avere sperperato ritorna all’ovile, così il capitalismo ha richiesto il paterno intervento statale per salvare le banche. È questo, come si sa, che ha innescato la crisi dei debiti pubblici a catena, non certo quegli investimenti che – denunciati da taluni come improduttivi – già con la semplice assistenza sociale o la costruzione delle infrastrutture avrebbero condotto lo Stato – secondo alcuni – nell’abisso.

            Al tempo stesso il capitalismo, senza falsi pudori, riattiva l’intero suo passato, decretando definitivamente che la modernità è inceppata. Ci fu un’epoca in cui la giornata lavorativa era di dieci ore; oggi in Cina è magari pure di undici, mentre, nell’enorme migrazione interna dalle campagne alle città, un’urbanizzazione rapidissima, con centri abitativi costruiti in pochi mesi, sconvolge le vecchie forme di vita del contadino maoista. Con i processi di delocalizzazione industriale, gli smartphone progettati in California sono assemblati in Cina sotto la semischiavitù organizzata da un’élite comunista.

            Sono i prodigi di un passato che non passa, pronto a essere ripreso all’occorrenza. Ne sappiamo qualcosa in Europa, specialmente in quella del Sud, dove, nonostante il consumismo sfavillante, si assiste da alcuni anni a una contrazione dei consumi, perfino di quelli alimentari. Non dello champagne, però, le cui vendite sono in aumento anche grazie alle esportazioni verso la Russia e la Cina dei nuovi ricchi. L’odierno iperconsumo contempla pur sempre il lusso come consumo esclusivo di pochi.

            A pensarci bene, è proprio la cultura tardomoderna nel suo complesso a trattenere tutto in sé, incapace di superare qualsiasi “residuo” del passato, che perciò non può essere affatto detto un residuo. Di questo, in Italia, possiamo dire di saperne ben più di qualcosa. Dopo Tangentopoli una pulsione legalitaria (con tratti vistosamente qualunquistici, da Di Pietro a Grillo in perfetta continuità con Guglielmo Giannini) non soltanto si è combinata benissimo – se osservata da un punto di vista sistemico generale – con l’ondata leghista-berlusconiana, ma ha anche tolto pressoché ogni speranza alla prospettiva di legare insieme, in un programma di sinistra, il contrasto alla criminalità organizzata e il conflitto sociale. Per un compagno come Girolamo Li Causi (se ci si ricorda un po’ della sua storia) era del tutto palese che la lotta alla mafia dovesse essere sostenuta dalle lotte per la trasformazione del Mezzogiorno, per l’affermazione di un diverso modello di sviluppo nell’intero paese. Come si potrebbe combattere oggi a fondo la camorra, che prospera sul traffico dei rifiuti tossici, senza una politica ecologica degna del nome? Senza cercare di prosciugare l’acqua in cui nuotano i camorristi, che è quella della mancanza di lavoro e di futuro per larga parte di una popolazione soprattutto giovanile? Nessi del genere sono scomparsi completamente dall’agenda politica, e di certo non rientrano nel registro qualunquistico-populistico che assume, a seconda dei casi, un volto iperlegalitario o uno di polemica contro la magistratura. Sempre però all’interno dei poteri consolidati, legali o illegali che siano, mai nell’ottica di poteri emergenti o da prefigurare.

            Si tocca qui un nodo teorico centrale. Crisi di legittimazione non ce ne saranno, perché il capitalismo ha vanificato le pretese di validità normativa con la sua sregolatezza sublimata in cultura, e presentandosi come una formazione economico-sociale priva di alternative. Si deve in effetti ammettere che il capitalismo non è superabile in quanto non esiste una storia “a fasi” in cui, come in una staffetta, una va più avanti dell’altra (il che non vuol dire che sia eterno, perché una catastrofe potrebbe distruggerlo). Del resto è lo stesso sviluppo tecnico ed economico, che non significa di per sé progresso sociale, a riproporre di continuo questa insuperabilità, modificando a ogni successiva svolta i termini stessi di un’improbabile alternativa di sistema. Tuttavia il capitalismo può essere messo in questione a partire dai bisogni e dai desideri che alimenta e non soddisfa pienamente: a partire da un’idea di diffusione del benessere che può essere criticata e orientata in un modo piuttosto che in un altro, per esempio verso i consumi collettivi anziché verso quelli privati.

            Torniamo al caso italiano. La storia dei nostri ultimi decenni potrebbe essere letta nel senso di una deviazione brusca, a cominciare dai primi anni ottanta, da una crisi che era potuta apparire di legittimazione (e non era) verso uno sbocco in un legalitarismo vuoto e fine a se stesso, in cui è stata risucchiata la maggior parte della sinistra. Ciò che è mancato, da un certo punto in poi, è la messa in questione di un determinato modello di sviluppo. Mi riferisco ai movimenti di contestazione, al potenziale di rivolta, allo spirito di ribellione che sono venuti meno nelle loro dimensioni di massa (molto indicativo il fatto che, in Italia, nemmeno la recente estesa protesta degli indignados abbia attecchito). Ma mi riferisco anche al fatto che, dopo Tangentopoli, un sistema politico traumatizzato, e ossessivamente fissato al trauma, ha vivacchiato tra soprassalti e aggiustamenti abortiti (si pensi all’annoso discorrere, che dura tuttora, intorno alle riforme istituzionali) senza riuscire non dico a mettere in cantiere, ma neppure lontanamente a immaginare, una strategia di riforme sociali e – horribile dictu – di ridistribuzione del reddito.

            In una concezione socialdemocratica, a differenza di una liberale o liberaldemocratica, lo Stato non è un istituto neutrale al di sopra dei conflitti ma un terreno di lotta. Pur restando immutati i marxiani rapporti di produzione, è possibile, meglio se sotto la spinta di movimenti sociali di opposizione, porre in questione le opzioni che il capitalismo mette in campo in maniera apparentemente obiettiva. Per esempio, si possono indurre i profitti (ed è appunto ciò che è mancato in Italia nel non breve periodo delle “vacche grasse”) a reinvestire nella ricerca e nell’innovazione tecnologica invece d’immobilizzarsi nella pura accumulazione e nella rendita. Altro esempio tipicamente italiano: si può andare verso un welfare in larga misura delegato alle famiglie, per l’ottanta per cento proprietarie di abitazioni, in cui i figli si prendono cura degli anziani, e questi ne sostengono a loro volta la disoccupazione e la precarietà in un complicato equilibrio dell’infelicità reciproca; oppure si può prevedere un welfare con case di cura per la tarda età bene attrezzate, o con l’assistenza a domicilio in alloggi di proprietà pubblica a canoni di affitto calmierati.

            Un’obiezione che si sente ripetere spesso è che gli Stati nazionali avrebbero perso le loro prerogative e i poteri d’intervento, e sarebbero in declino. Ciò è vero in parte. Molte decisioni sono ancora politiche e hanno a che fare con la guida degli Stati, cioè con i governi. Non era scontato sostenere le banche nel momento del possibile tracollo e non (anche o piuttosto) riorganizzare e potenziare il sistema sanitario, oppure evitare il deperimento dell’economia reale mediante un piano d’interventi per la salvaguardia dell’ambiente.

            Bisognerebbe infine avere l’apertura mentale e la tensione utopica concreta capace d’immaginare entità statali sovranazionali, come sarebbe un’Europa unita. Nelle condizioni attuali del mondo solo grandi Stati federali o confederati possono sperare di controllare i flussi finanziari e di sottoporli a imposizione fiscale – se guidati da forze di sinistra, e se formati attraverso un processo di partecipazione democratica effettiva. Non sarebbe nemmeno un’ipotesi soltanto riformista, ma qualcosa che potrebbe avere in sé un germe quasi rivoluzionario. Movimenti sociali intelligenti, pur nella loro indiscutibile autonomia dalla politica dei partiti, avrebbero tutto l’interesse a farla propria come terreno di scontro – si sarebbe detto una volta – più avanzato.

[In uscita in ottobre sul n. 5 della rivista “Outlet”]


[1] Mi riferisco a J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977; C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977; J. Habermas, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo [titolo originale: Problemi di legittimazione nel capitalismo maturo], Laterza, Roma-Bari 1975.

[Immagine: Stanley Kubrick, 2001, Odissea nello spazio (gm)].

 

7 thoughts on “La modernità è inceppata

  1. qualche appunto:

    in Italia il modello di sviluppo è stato eccome messo in discussione e lo è tutt’ora. Il movimento altermondialista italiano, fino a Genova (ma ancora fino a Firenze per inerzia visse) era uno dei più forti del mondo.

    anche sugli indignados sbaglia, giacchè l’onda del 2008 si trasmise già nella primavera del 2009 alla Spagna e può essere considerata prima trasmissione di quel medesimo movimento che furono indignados e occupy stigazzi; poi si potrebbe discutere del perchè l’onda morì senza lasciare gran traccia di sè e di chi la uccise, ma c’è troppa gente che ci si è fatta (o meglio, salvata) una sua comoda posizione di nicchia, sopra il suo cadavere, per poter affrontare l’argomento serenamente.

    peraltro ci fu un tempo in cui in italia si contestavano le “entità statali sovranazionali” in quanto eminenti luoghi di propagazione del verbo neoliberista, come WTO, Banca Mondiale, UE e BCE, FMI, NATO.
    la sua idea di poter cavalcare queste tigri mi pare francamente molto ingenua, peraltro è proprio inseguendo questa chimera che la sinistra “riformista” italiana si è suicidata consegnandosi mani, piedi e testa alla vulgata neoliberista.

    infine: la comunicazione non è affatto ridotta all’elementarità del mi piace/non mi piace, anzi, caratteristica fondante del neoliberismo è l’aggiramento dei limiti fisici dello sviluppo attraverso l’esplosione dell’economia immateriale, ovvero della messa a valore degli apparati simbolici e discorsivi, ovvero di una società logorroica e condannata ad essere sempre più logorroica dacchè la competizione commerciale si svolge nei termini di una competizione tra universi narrativi.
    la crisi di sovrapproduzione che viviamo è anche una crisi di sovrapproduzione simbolica e l’attività di analisi sociale è completamente fuori giri; sebbene le dure condizioni del mondo materiale stiano reclamando il loro spazio, vi è una effettiva impossibilità a costruire una narrazione unificata e unificante alternativa alle impostazioni di default, nella cacofonia assordante delle cordate imprenditoriali contrapposte dentro lo sterminato campo delle narrazioni del reale.

  2. L’intreccio fra la crisi materiale e morale del nostro paese, la progressiva disintegrazione della Ue in quanto polo imperialista ad egemonia tedesca, l’aggravamento delle tensioni politico-militari fra Usa e Russia nel Vicino Oriente e il corso inarrestabile della crisi economica mondiale stanno accumulando una formidabile quantità di materiale esplosivo, talché ben a ragione si può affermare che l’Italia vive, ostinandosi a non vedere, tempi calamitosi. L’Italia, una volta formalmente settima potenza industriale del mondo, è oggi, in buona sostanza, oltre che il ‘ventre molle’ dell’Europa, un paese economicamente e politicamente fragile. La crisi e l’instabilità dell’assetto del Bel Paese possono essere riassunte in questa formula: “debolezza strutturale della borghesia italiana”. Una borghesia rachitica che è cresciuta storicamente grazie alle stampelle offerte dallo Stato, che ha fatto del parassitismo la propria vocazione, che non è in grado né di reggere la competizione internazionale né di accumulare e investire capitali né di promuovere ricerca e innovazione, ma si limita a sfruttare le proprie rendite e ad incrementare i propri patrimoni lucrando sul declino della nazione, non poteva che esprimere un ceto politico corrotto, incapace e ignobilmente parassitario, fatto a sua immagine e somiglianza. Per dirla brutalmente, i padroni hanno i politici che si meritano e che incarnano, con un’evidenza che sarebbe pittoresca se non fosse tragica, il modello di sviluppo (cioè di sottosviluppo) del capitalismo italiano.
    La borghesia, peraltro, ha mirato, a partire dalla lunga transizione iniziata nel 1992, riuscendovi in buona misura, a cooptare i gruppi dirigenti della sinistra, ma non ha ottenuto l’obiettivo principale: stabilizzare il quadro politico-istituzionale secondo un modello di alternanza bipartitica come quello esistente negli Usa. D’altra parte, la totale delegittimazione del ceto politico rappresenta un serio problema per la borghesia, perché ne indebolisce quello strumento indispensabile che è la mediazione fra la società civile e il potere politico di Stato. Vi è poi da osservare che le vicende attuali della politica italiana dimostrano che il rapporto di dipendenza che esiste tra potere economico e potere politico non ha un carattere meccanico, è soggetto a reversibilità e può generare conflitti assai acuti. Sennonché, quando i conflitti si acutizzano, si verifica una crescente instabilità, che è il segnale che precede i grandi sommovimenti sociali. In questo senso, la cosiddetta ‘antipolitica’, se da una parte può aprire la strada a soluzioni autoritarie (anche funzionali agli interessi dominanti, ma non facili da controllare), dall’altra può essere il preludio all’irruzione delle masse sulla scena politica.
    Dal canto suo, la sinistra arriva a questo appuntamento politico come peggio non si potrebbe. Il bilancio della sinistra sul piano delle riforme sociali e dei diritti civili è assolutamente fallimentare. La questione meridionale, la questione industriale, la questione salariale, la questione ambientale, la questione scolastica e universitaria, la questione della ricerca scientifica e tecnologica, per citare alcune fra le più drammatiche emergenze del nostro paese, sono squadernate quotidianamente sotto i nostri occhi e costituiscono la rappresentazione più impressionante del fallimento di questa sinistra e della sua progressiva estraneità rispetto agli interessi delle classi che dovrebbe rappresentare. D’altro canto, la grottesca vicenda della condanna di Berlusconi e della logica eversiva di ritorsione posta in atto dalla destra confermano quella mordace battuta che pronunciò Antonio Labriola più di un secolo fa, quando affermò che l’Italia è il paese della tragedia che fa ridere e della commedia che fa piangere. In questa fenomenologia di Pulcinella rientrano anche la passività e la compromissione del Pd, sempre più incapace di dissimulare la sua natura di partito neoborghese. Nei prossimi mesi verranno in primo piano le conseguenze della crescente polarizzazione politica e sociale, destinata probabilmente a sfociare in una grande rottura di massa, per prevenire la quale la borghesia è ricorsa a molteplici operazioni, che tuttavia difficilmente troveranno una saldatura politico-istituzionale. Il vento della restaurazione e della repressione, che sembra spirare così forte, potrebbe trasformarsi allora in un vento di emancipazione e di liberazione. Vedremo se i cavalli di Frisia che vengono approntati dalla borghesia per impedire, evitare o rinviare la rottura che si sta determinando nel profondo della società, saranno, oltre che necessari, sufficienti. E se le cose dovessero andare diversamente dallo scenario che ho provato a delineare, e che su alcuni punti converge con quello delineato da Genovese, avremmo un’ulteriore conferma della verità contenuta in un’altra corrosiva ‘boutade’ pronunciata da un maestro del socialismo italiano della seconda metà del secolo scorso, Vittorio Foa, che ebbe a rilevare, una volta, come in Italia non vi siano differenze tra riformisti e rivoluzionari, poiché gli uni non sono capaci di fare le riforme e gli altri di fare la rivoluzione.

  3. Analisi molto affascinante, e largamente condivisibile.
    Alcuni punti però su cui non concordo del tutto.
    La crisi di legittimazione, secondo me, c’è. Certo, che il ruolo dello stato nell’economia potesse evitare le crisi di sovraproduzione era una pia illusione; queste crisi sono strutturali al capitalismo. Però è vero che quel tipo di intervento carica lo stato di istanze che, se non soddisfatte, mettono in crisi le istituzioni democratiche. E’ proprio quello a cui stiamo assistendo ora: l’impossibilità degli stati di correggere o limitare le forze distruttive del mercato (per le ragioni ricordate alla fine del testo) viene pagata con la crescita della demagogia, con la debolezza dei canali tradizionali di rappresentanza, con elezioni politiche in cui si finisce sempre per fare “grandi coalizioni” ecc. E la ragione per cui la crisi di legittimazione continua a esistere è che il tessuto normativo della modernità è sempre presente: gli individui che abitano queste società si concepiscono come cittadini eguali, e perciò non si sentono più rappresentati da stati che non riescono a salvare neanche l’apparenza di questa loro condizione ideale.
    L’altro mio dubbio riguarda appunto l’idea che la modernità sia inceppata. A me sembra che i processi descritti (sfruttamento della manodopera su scala globale, urbanizzazioni violente ecc.) siano proprio i processi della modernità, economica. Ma la modernità ha molte facce, politica, giuridica, morale, economica ecc., e spesso queste sono in contraddizione tra di loro. E queste contraddizioni ci sono tutte.
    Lo stato è (falsamente) neutrale rispetto alle lotte sociali solo per una concezione liberale classica (diciamo ottocentesca). Non lo è per una concezione democratico-liberale che parta dall’idea di eguaglianza, e che richieda anche una politica sociale.

  4. Due distinte osservazioni.

    La prima riguarda l’espressione “mettere in discussione il capitalismo” accanto a quella del capitalismo non superabile.
    A mio parere, qui si confondono due livelli che sono costitutivamente non mescolabili. Mettere in discussione mi pare coinvolga il dibattito pubblico, mentre il superarlo significa agire politicamente a tutto tondo. Seppure il dibattito pubblico è parte integrante dell’agire politico, è chiaro che ne costituisce comunque solo un sottoinsieme.
    Bene, questo sottoinsieme non può non contemplare anche il superamento del capitalismo, se non vuole apparire come autocensurato, monco, e quindi in definitiva inutile. Che poi il superamento avvenga o no, è un’altra faccenda, esula dalla questione puramente teorica, fa parte della praticabilità che costitutivamente non può esaurirsi sulla base di semplici considerazioni teoriche, visto che le scienze sociali non possono essere assimilate alle scienze fisiche. In fisica, certi eventi possono essere definitivamente esclusi, ma nelle scienze sociali, escludere qualcosa comporta di fatto un modo “furbetto” per evitare di affrontare certe tematiche.

    La seconda osservazione riguarda la sovranità statali.
    Qui trovo strano che Genovese richiami il caso dell’aiuto alle banche come se si trattasse di una dimostrazione di esercizio di sovranità. Tuttaltro, questo è appunto un esempio palese della loro mancanza di sovranità. Come sappiamo, le banche sono state salvate sulla base dell’espressione “too big to fail”, e non riconoscendo che un evento catastrofico fosse avvenuto a banche di per sè innocenti. Si è al contrario riconosciuto la responsabilità del management bancario nella crisi, ma non li si è potuti punire perchè i governi hanno tremato di fronte alla conseguenze del fare avvenire ciò che sarebbe dovuto avvenire, il loro fallimento. Teoricamente, avrebbero potuto farle fallire e secondo me avrebbero dovuto, e dovrebbero farlo anche oggi, ma prigionieri della dittatura dell’economia e dei loro personali interessi carrieristici, ciò era di fatto impossibile. In altre parole, il pensiero dominante e la globalizzazione di fatto hanno espropriato del tutto le sovranità nazionali (inclusa quella USA, per intenderci).

  5. Per Detrito immateriale.
    Non siamo poi così in disaccordo: lei infatti si riferisce a un movimento che era vivo più di una decina d’anni fa, e che trovò il suo momento migliore nell’opposizione alla guerra in Iraq, cui anche l’Italia prese parte (per non parlare dell’Afghanistan, che aveva un minimo di legittimazione in più ma era, come si è visto, una guerra altrettanto insensata). Dopo di allora il movimento, o i movimenti, in Italia sono andati indietro e, rispetto ad altri paesi, si sono visti poco. La mia analisi induce a concludere che – in mancanza di un quadro politico degno del nome – perfino i movimenti sociali, che hanno comunque la loro politica, isteriliscono e affondano nella melma populistico-familistica. La mancanza di una sinistra politica – che sia politica, non puramente sociale – si riflette sui movimenti. Sulla faccenda che la sinistra “riformista” in Italia abbia inseguito gli organismi sovranazionali, c’è un semplice “qui pro quo” da parte sua. Io mi riferivo a un progetto di unificazione europea come momento utopico, terreno di lotta più avanzato, non certo alle entità della “governance” mondiale come il Fondo monetario internazionale… La tendenza a trascurare le prospettive federative a tutti i livelli – sia tra gli Stati sia tra le diverse componenti dei movimenti sociali – la trovo il portato di un incomprensibile crampo mentale. Per dirne una, negli anni sessanta, su impulso di Nasser, Egitto e Siria stavano dando vita a una confederazione che avrebbe dovuto aggregare altri Stati arabi; il progetto fallì, ma, con il senno del poi, non sarebbe stato quello un grande fatto politico, che avrebbe anche potuto restringere gli spazi dei successivi islamismi più o meno radicali? Infine, sulla riduzione alla pura coppia mi piace/non mi piace, o al sì/no privo di argomenti: ho tirato in ballo questa secca e vuota alternativa in contrapposizione all’idea habermasiana (e non solo) delle pretese di validità discorsiva come nocciolo della politica. Purtroppo siamo molto lontani da qualcosa del genere: prevalgono le emozioni elementari sugli argomenti, ed è questo l’ “humus” fecondo dei populismi. Che poi il capitalismo – con l’iperconsumo, il gioco d’azzardo, etc. – costruisca una propria “narrazione”, questo è implicito nel mio articolo: soltanto, anche qui, gli aspetti mitici prevalgono su qualsiasi razionalità.

    Per Eros Barone.
    Mi fa piacere vedere che siamo d’accordo sulla citazione da Foa riguardo alla sostanziale inconsistenza, in Italia, sia dei “riformisti” sia dei “rivoluzionari”.

    Per Mauro Piras.
    Secondo me dobbiamo distinguere tra un problema di legittimazione che riguarda propriamente la sfera politica democratica, e la “crisi di legittimazione” di cui si parlava un tempo a proposito del capitalismo in generale. È la seconda che non c’è, o non c’è più: perché il capitalismo, con la sua stessa presenza priva di alternative, si autolegittima continuamente. Non c’è, in altre parole, un deficit di consenso nei confronti del sistema economico: e ciò gli ha permesso d’infiltrarsi ovunque, diventando una cultura in senso antropologico, contrastata a livello mondiale quasi soltanto da forme ibridate arcaico-tradizionali, di quelle che si esprimono con il ritorno delle religioni. Per quanto concerne la legittimazione della politica democratica, mi pare evidente, soprattutto in Italia, che ci sia invece una netta caduta. Qui la mia proposta è appunto quella che si esprime nella combinazione tra un socialismo democratico rinnovato, capace di ritrovare la sua dose di utopia, e il dispiegarsi di movimenti di contestazione che allarghino le basi della democrazia mediante attribuzioni di potere determinate. Intendo, con ciò, che quanto appare ovvio e scontato – per esempio che ci sia un welfare fondato sulla famiglia – non lo sia più, e che i poteri che vivacchiano nella invisibilità quotidiana siano portati alla luce attraverso momenti di contropotere. Per fare ciò, come dicevo sopra, non è sufficiente una “sinistra sociale”, ci vuole al tempo stesso una sinistra politica, con rapporti tra loro di reciproca autonomia. So bene che una politica democratico-liberale, come tu la definisci, non è affatto opposta a una politica socialdemocratica di intervento dello Stato. Ho richiamato quella differenza storica circa la questione Stato neutrale vs. Stato come terreno di lotta, solo per ricordare che una visione socialdemocratica “classica” (cui peraltro ricollegarsi solo in parte) non è affatto così ingenua come suppone, talvolta, una sinistra presunta radicale.

    Per Vincenzo Cucinotta.
    Lei continua a considerarmi un “furbetto”. È lampante, però, che non escludo affatto che si possa progettare un modo di produrre e consumare diverso da quello capitalistico: anzi, ogni volta che qualcosa del genere fa capolino, me ne compiaccio. Ma il capitalismo, a differenza di quanto pensava Marx, non crea da sé la classe sociale dei becchini che lo affosseranno. Il socialismo, come alternativa al sistema economico dominante e come nuova cultura antropologica, non può quindi intravedersi se non in una prospettiva utopica. Riguardo all’intervento dello Stato nell’economia, poi, lei ne vede cancellate le possibilità d’intervento, laddove io le vedo tutt’al più ridotte – e perciò da potenziare attraverso la costruzione di Stati federali. Se vuole, è la proposta di un obiettivo intermedio. Starebbe a lei dire cosa si dovrebbe fare una volta che un movimento altermondialista fosse cresciuto oltremisura. L’organizzazione attraverso le comuni (di cui parlava Harvey in un’intervista sul “manifesto” di ieri, primo ottobre) sarebbe una pratica dell’obiettivo, certamente: ma priva di qualsiasi mediazione politica ha zero possibilità di riuscita. Il problema è sempre tenere insieme l’utopia con la concretezza, il realismo con l’irrealismo.

  6. @Genovese
    1. Mi legga più attentamente, io non dico che lei è furbetto, ho detto che escludere dal novero delle ipotesi alcune preliminarmente è un metodo furbetto, capirà anche lei la differenza.

    2. Io non ho mai citato il socialismo, non sono marxista e non credo al materialismo storico. E’ significativo che lei si sia immaginato di me cose che non mi sono mai sognato di dire.
    Non solo non sono marxista, ma sono anche fieramente antihegeliano, quindi figurarsi se credo a una storia scritta prima che l’umanità lo faccia nella pratica effettiva.

    La mia opinione è che coloro che sono scettici sull’uscita dal capitalismo, in realtà lo sono perchè non sono disponibili a perdere qualche misero vantaggio che questo sistema economico gli fornisce. non credo minimamente alle necessità storiche (anche riguardo alla tecnologia), ma devo anche ammettere che i capitalisti in questa specifica fase storica si danno molto da fare per distruggere lo stesso sistema economico che dirigono, il che dimostra ancora una volta che disegnare l’uomo come un essere economico, è un palese errore. Solo quando metteremo l’economia al suo posto che sia ancillare rispetto alla politica, solo allora l’umanità potrà superare un periodo storico da cui rischia di uscire decimata.

  7. Devo a Genovese una risposta sull’altermondismo, ma purtroppo non ne sono in condizione. Bisognerebbe prima stabilire cosa l’altermondismo sia, se cioè basti una parola per dare consistenza a un movimento.
    La mia opinione in proposito è che una teoria politica non si possa costruire a colpi di votazioni a maggioranza, cosa inevitabile quando il movimento ha una natura spontaneista.

    L’unica esperienza di opposizione che ha messo in forse lo stesso predominio del capitalismo, è stato il marxismo, nato dagli scritti di una serie di pensatori a partire dallo stesso Marx. La teoria cioè deve necessariamente preesistere, non solo ma deve coinvolgere aspetti perfino filosofici e io aggiungo antropologici, e secondo me è proprio sul piano antropologico che il marxismo ha mostrato le sue debolezze.
    In sostanza, non è tanto la bontà della teoria, ma lo stesso fatto di essersi posta come una visione radicalmente nuova della realtà che ha consentito al marxismo di essere così incisivo.

    Il fatto che periodicamente tutti coloro che si autoconsiderano alternativi si riuniscano e pretendano di trovare assemblearmente una sintesi che nei fatti è del tutto impossibile vista la natura così eterogenea di chi si confronta, mi lascia estremamente perplesso sul fatto che si giunga a qualcosa di produttivo.
    Meglio sarebbe che chi si sente alternativo, studi, si confronti prima di tutto col sapere sedimentato dell’umanità, e costruisca le sue aggregazioni sulla base di convinzioni ben maturate e delineate piuttosto che su parole d’ordine del tutto generiche.

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