di Gilda Policastro
[Presentiamo alcune pagine di Sotto, il nuovo romanzo di Gilda Policastro appena uscito presso Fandango].
Ha le piante sporche, lo nota quando siede a terra con le gambe incrociate. È magra come sempre, ha la pancia appena più pronunciata. Ci sono di quelle donne fatte a stecco, che pure, per gli uomini, hanno un fascino. Sono donne che rimandano all’infanzia, forse, ai primi giochi tra maschi. Lei l’avevano rincorsa fin sotto casa della nonna, chiedendole di togliersi le mutande. Parlavano in un gergo consonantico di farfugliari asemantici, ma fu salva per quella volta, come in chiesa o in uno spazio inaccessibile, un altare consacrato al prigioniero, un ponte crollato prima dell’arrivo del nemico. I bambini sembravano minacciarla da lontano di riprovarci, con quegli sguardi di cattiveria preformata.
“E adesso che fai.”
“E niente, cosa vuoi che faccia. Aspetto.”
Parla come avesse l’Alzheimer, “ma di me ti ricordi”, come la nonna a cui bisognava fare tre volte la stessa domanda, e alla quarta, si spazientivano pure i santi.
Ha una ruga nuova agli angoli della bocca, due totali, quindi, ma una è più pronunciata. Gliela guarda sempre Derek quando la prende davanti, quelle poche volte che lo fanno normale. La fissa come a ristabilire una improbabile parità estetica, e la fissa con insistenza, lì e solo lì, con un sorriso di trionfo. Del resto si è sempre capito chi era veramente a torturare, dei due. Lei si era soltanto difesa, da una iattura così.
“Va be’, ma mangi.” Ecco la domanda. La solita domanda che le faranno da quando è nata, e poi perché è così bianca.
Adesso lei per vendicarsi chiederà di Daria e di Marco, senz’altro. Ed è già pronta a mentirle, che sono felici, ne faranno un altro, e sperano maschio. Ma Alba non chiede niente, si guarda le piante sporche. Sembra non gliene importi più di tanto, è solo che non ha nessun altro posto dove guardare. Camilla siede a terra pure lei, e si toglie le scarpe. Un gesto di libertà e confidenza incongrua, dopo quel tempo, e gli eventi, ma che la fa sentire subito meglio, a suo agio. Le sue piante sono molto pulite, ha le calze. Ma poi si toglie anche quelle. E ha i calli, una micosi all’unghia, invecchia di ora in ora. Ed è sola. Vorrebbe dirglielo adesso, ma come si fa? Non deve subito spaventarla con quelle antiche confidenze di disperazione rinnovata. Alba sta peggio di lei, non ha un lavoro, suo padre se n’è andato chissà dove, non ha retto. Dice che torna, ma chissà quando. E lei aspetta, in quella casa enorme, dove quelli (lo dice al maschile, qualche volta) sono morti.
“Perché non ci prendiamo un appartamento noi due? Ricominciamo come da studenti (a quel punto, vada per il maschile sempre), lo fanno tutti, di questi tempi. Io mia madre non la reggo più.” Ecco la gaffe: è arrivata. Doveva farne una ed è partita dalla peggiore. Le manca di ribadirle quanto è spaventosamente magra, poi può anche andarsene, esaurito l’ufficio penoso della verità, che a qualcuno tocca pur dirla. Per pareggiare i conti, le confida che lei e Marco si sono poi lasciati per sempre. Però deve subito aggiungere che a deciderlo è stata lei, alla fine. È per riabilitarsi ai suoi occhi, Alba lo sa. Proprio non ce la fa a vedersi sminuita perfino dall’amica peggio combinata, anzi, da una che non è più nemmeno un’amica, che non vedeva da mesi e non avrebbe rivisto, probabilmente, mai più, se non lì. Una sera ha laikato una foto del profilo aperto di Camilla. E anche Camilla ha preso a laikare un post e poi un altro, con una complicità implicita tutta diversa dalle chiacchiere di una volta. E alla fine hanno deciso di vedersi, non importa chi abbia fatto il primo passo. Adesso si trovano insieme in una stanza in cui la metà dei mobili è rivestita da lenzuoli bianchi. Alba vorrebbe venderla, ma i suoi fratelli si oppongono. Sono cominciati litigi che non avrebbe mai immaginato, recriminazioni covate per anni. Lei, la cocca di tutti, ora doveva diventare grande (“non lo sai fare, tu, un lavoro normale?”). Alba si guarda perenne le piante sporche, per oggi questo sa fare, ed è stato già un lavoro alzarsi dal letto, darsi un po’ d’acqua in faccia, il tempo di riaversi, prepararsi un caffè. L’altro lavoro è uscire, comprare del cibo che basti per settimane, caricarsi di due chili di buste pur di vederle di meno, quelle facce. E rigorosamente al supermarket, dove alla cassa automatica puoi non parlare. Parlare è la fatica maggiore. E non perché di cose da dire non ce ne siano, ma perché sentire il suono della sua stessa voce le è diventato molesto: come fossero gli altri a farlo, persone odiose, che sono lei ma con una voce che somiglia appena alla sua di prima, il timbro è più basso, la cadenza petulante. Una volta erano sole in stanza, da Ludwig, e Alba aveva avuto l’impressione che Camilla stesse per baciarla, o lei Camilla, non ricordava. Ma adesso non ci sono ormoni in circolo, se non quando chiude le tapparelle e si stende sul letto dei suoi per riposarsi (ma da cosa, che lavoro stai facendo, che ti riposi): manda in loop lo stesso video, le piace l’idea che la carne soffra al contatto con degli spigoli, che la pelle si scotti o si ferisca[1]. E viene in un secondo, sfiorandosi le mutande. Gli uomini ci hanno sempre messo delle ore.
“Dovresti provare con una donna”, le avevano detto le amiche di palestra, quando ci andava, quando era fissata con la magrezza. Adesso è magra di vergogna, di pallore, di asocialità. Si ingrassa solo con gli altri, gli eremiti sono tutti magri.
[1] “La pelle del corpo è la membrana di confine fra l’interno e l’esterno, è la barra dove si consumano gli atti di crudeltà, è lo spazio dischiuso e socchiuso fra il sé e il mondo, fra la custodia del pudore e l’avventura dispendiosa dell’erotismo.” (AT)
[Immagine: Nina Leen, Foto per Life, 1956 (gm)].
Si dice sempre un gran male dell’editoria italiana che non produce qualità invece trovatemelo un altro paese dove gli editori pubblicano libri dove di punto in bianco ti trovi dei versi così struggenti, alla faccia di chi dice che in Italia non c’è più letteratura, e questa cos’è?, specialmodo l’incipit, quasi primigenio, ancestrale… cito dal testo:
“Parlavano in un gergo consonantico di farfugliari asemantici, ma fu salva per quella volta, come in chiesa o in uno spazio inaccessibile, un altare consacrato al prigioniero, un ponte crollato prima dell’arrivo del nemico”.
Accipicchia che brutto!
La Policastro è brava. In quella frase citata da Seligneri la stonatura è l’nizio, che poteva essere risolto con più semplicità, per esempio “parlavanlo un gergo incompresibile, ma fu salva per quella volta…”. Il resto è perfetto: secco e preciso.
Uno dei libri più sgradevoli che abbia letto.
A cominciare dal titolo, pregno di accezioni negative, evocante bassezze fisiche e morali, sopraffazioni, compiacimenti subdoli e/o manifesti.
Storie deprimenti, personaggi squallidi che difficilmente riescono a mostrare un minimo barlume di sana umanità.
Un linguaggio pretenzioso, che solo a brevi tratti pare riscattarsi dal turpiloquio e dalla bassezza delle conversazioni e degli stessi pensieri dei protagonisti.
Vicende scontate, ma non per questo così sordide e scandalose.
Il dominio intellettuale del più forte, trasformato in totale sfruttamento fisico e mentale del più debole …(ma chi è, poi, il più debole? qual’è la vera forza? da che parte essa si trova?)
Un periodare dispersivo, che male assembla vicende e pensieri, nello sgretolarsi delle vite dei personaggi.