di Andrea Cortellessa
[Cinquant’anni fa, il 3 ottobre 1963, cominciava a Palermo il convegno che sancì la nascita del Gruppo 63. È in uscita presso L’orma, come primo numero della nuova serie della collana fuoriformato, il volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, a cura di Nanni Balestrini, che contiene gli atti del terzo convegno del Gruppo (Palermo, settembre 1965) dedicato appunto alla narrativa e che uscì da Feltrinelli nel 1966; nella presente edizione è compresa un’ampia sezione dal titolo Col senno di poi, nella quale Andrea Cortellessa ha raccolto contributi del “reduci” di allora e di una certa quantità di “postumi”, scrittori e critici delle generazioni successive. Riportiamo qui una sintesi della postfazione di Cortellessa; una versione più ampia di questo testo sarà presentata al convegno Cinquant’anni del Gruppo 63 (Bologna, 16-17 ottobre). Nei prossimi giorni sarà la volta di altri contributi compresi nel volume].
Anacronistico. Questa la prima parola che si pensa, sfogliando il volume sul Romanzo sperimentale, che contiene gli atti del terzo convegno del Gruppo 63 (Palermo, 3-6 settembre 1965), l’anno seguente curato da Nanni Balestrini come settimo volume della collana «Materiali» di Feltrinelli. A partire dalla sua grafica, oggi splendidamente vintage, che l’editore L’orma ha voluto iper-realisticamente riprodurre nella copertina della riedizione anastatica, appena uscita a inaugurare la nuova serie della collana fuoriformato.
Lo straniamento si deve al fatto che le questioni di cui si parla sono grosso modo le stesse di mezzo secolo dopo (il romanzo, la realtà…); e a quello che molti dei partecipanti di allora sono. ancora oggi, in piena attività. Ma li scopriamo, qui, in un contesto che pare un manufatto alieno, proveniente da una galassia lontana. Un manufatto rimasto sempre abbastanza alieno, peraltro, agli occhi degli stessi «marziani» del Gruppo. Tanto è vero che è stata proprio questa parte, della proposta teorica della Neoavanguardia, ad essere rimasta fuori dalle riproposte dei precedenti decennali. Come se in queste pagine si annidasse un disagio, un dubbio, un atto mancato.
Può risultare imbarazzante, in effetti, un documento così patente del disaccordo vigente fra i «membri del Gruppo»: non ai tempi della famigerata «rottura» del ’69, ma proprio nel momento aurorale. L’anno prima, a Reggio Emilia, disse Giorgio Manganelli – il trickster, l’asociale, il cinico Manga – che «il Gruppo non ha un Manifesto, non ha una teoria, non ha mica una ortodossia, è un club di persone irritate… no, di persone disoneste, direi, di persone disoneste a vari livelli di coscienza ma disoneste, altrimenti non ci sarebbe alcun motivo di fare un club». Quelli che si incontrano ai convegni del Gruppo 63 sono amici dissidenti. Non dissidenti rispetto a un’ortodossia, eretici in procinto di essere scomunicati da un pontefice. Dissidenti assoluti: ciascuno in dissidio con gli altri nonché, spesso, nei confronti di se stesso. Questo connotato abbastanza paradossale (un’Avanguardia senza Manifesti, un’Avanguardia senza un Dentro e un Fuori, un’Avanguardia senza Leader – si può definire ancora un’avanguardia?), sino a qualche tempo fa, poteva appunto rappresentare un sintomo di debolezza. Ma si sa, i tempi cambiano. E quello che per molti versi è un ossimoro concettuale, questa avanguardia debole, poté infine incontrare un tempo in cui tale debolezza non apparve più, necessariamente, un contrassegno negativo.
Inoltre è proprio l’oggetto di cui si parla a Palermo nel ’65, il primo e più cocente motivo di scandalo. Ma come, la Neoavanguardia dedica il suo terzo convegno al romanzo? Soprattutto per questo il libro rappresenta la parte maledetta della Neoavanguardia. Se c’è un’idée reçue passata in giudicato, al suo riguardo, è che «le opere non furono al livello delle teorie»: in special modo, appunto, in campo narrativo. Grandi teorici, per carità; ottimi poeti, si concede pure. Ma col romanzo non avevano proprio niente a che fare.
Quello che, in un’apposita sezione dal titolo Col senno di poi, ho provato a sottoporre a test, del libro del ’66, è appunto – per dirla alla maniera di Croce – «ciò che è vivo e ciò che è morto», di quella settimana calda palermitana. Chiedendo un commento tanto ai «reduci» ancora raggiungibili, fra i partecipanti di allora, che ai «postumi», cioè a scrittori e critici delle generazioni successive, sino a quelli che oggi hanno vent’anni. Ma altrettanto esplicito era lo scopo simmetrico e contrario: sottoporre a test – proprio come predicava sempre Edoardo Sanguineti di fare coi testi – la cultura che nei decenni successivi al ’65 ha rimosso, questa discussione, come uno scheletro nell’armadio. Misurando con questo stereoscopio la qualità dei tempi da allora trascorsi. Il senno di poi, certo: non solo sull’allora ma soprattutto sul poi.
Un primo aspetto è appunto la vulgata sull’estraneità della Neoavanguardia rispetto alla narrativa. Semplicemente sfogliando le pagine del Romanzo sperimentale si ha netta l’impressione, viceversa, che (come ha scritto Francesco Muzzioli) «il Gruppo 63 è stata invece l’avanguardia che ha fatto i conti fino in fondo con la forma-romanzo, portandola a un’incandescenza contestativa almeno pari alla poesia novissima». Era cioè pienamente consapevole, la neovanguardia, che in qualunque sistema letterario è nel territorio più impuro e sfrangiato, più corruttibile e di fatto più corrotto, quello del romanzo appunto, che si gioca la partita politicamente (in tutti i sensi) decisiva. Rileggendo di recente un’autrice sperimentale che restò ai margini del Gruppo, Alice Ceresa, mi è parso evidente perché proprio in campo narrativo le proposte della Neoavanguardia siano oggi dalla doxa le più vituperate. Intanto perché i modelli premoderni restano i più comodi, per l’industria culturale, da produrre in serie. Ma poi, e direi soprattutto, perché è in questa sede che si vede meglio come un rinnovamento delle forme non possa non essere accompagnato da una mutata «grammatica della visione», per dirla con Maria Corti (che di Ceresa fu non per caso ammiratrice), o, per dirla con Sanguineti, una diversa «ideologia».
Su questo è opportuno rileggere il lungo intervento che a Palermo fa Elio Pagliarani. Se, teste Pound, «funzione sociale della letteratura» è quella di «mantenere in efficienza, per tutti, il linguaggio» – ossia, traduce Pagliarani, operare una «contestazione nei confronti dei significati socialmente dati» – tutt’altro che estranee a una letteratura «sperimentale» saranno la «contrapposizione di significati “semantici” […] a significati usurati» e la «progettazione di nuovi significati». Sostiene Pagliarani che «la negazione non basta, che distruggere non basta»: perché la «negazione dei significati implica troppo spesso una rimozione». Anche i più modesti romanzi sperimentali ci mostrano che «modificando la struttura del romanzo» è possibile «suscitare una specifica visione del mondo». Per questa via Pagliarani può esprimere, anche a Palermo, quella che resterà sino alla fine la sua violenta fiducia: «saremo in gabbia, ma c’è anche chi si dibatte e prova a dar calci contro le sbarre».
Tornando al tormentone del senno di poi, non mi sento di dar torto a Raffaele Donnarumma, allorché sostiene che «il luogo comune di una prassi non all’altezza delle teoria può anche essere rovesciato. Il dibattito è persino avvincente; ma quel che se ne salva vale meno di quanto si possa salvare dei libri scritti in quel clima». Sostiene invece Tommaso Ottonieri che da Palermo a uscirne esaltato, anziché un oggetto testuale come prodotto, e dunque almeno in potenza come merce, sarebbe stato un comportamento, un’attitudine, una pratica: il narrare (sarà questa, per inciso, la via di fuga che tenterà l’allievo più problematico e degenere del Gruppo, Gianni Celati). E invece temo che mai come in questo caso gli esiti – non solo i canonici Fratelli d’Italia, Hilarotragoedia e Il serpente o i meno canonici Capriccio italiano, L’oblò, Settembre, Partita e Tristano – facciano aggio sulle teorie, gli aneliti, gli slanci. Riguardo alle dissonanti e babeliche proposte provenienti dal dibattito, alla domanda fatidica «che cosa rimane?», non si può che rispondere – come fa oggi con semplicità Carla Vasio – «niente, naturalmente».
È questo l’altro corno dello straniamento di cui sopra. Quello che genera – a fronte della temperatura intellettuale del Romanzo sperimentale – il senso di vuoto agghiacciante che si prova, misurando la distanza che da esse ci separa. Quella spasmodica tensione prolettica s’è sciolta in quello che Vitaliano Trevisan ha definito un «futuro non stato». Se ogni volta che si rilegge l’antologia dei poeti, I novissimi, si ha la sensazione di contemplare un’immagine dialettica, capace di illuminare il presente prima ancora del passato da cui proviene, il contrario accade leggendo Il romanzo sperimentale. Mentre la poesia, volente o nolente, ha finito per introiettare l’esempio dei Novissimi, la narrativa delle generazioni successive ha potuto fare come se niente fosse stato. Dopo il crinale rappresentato da Altri libertini e dal Nome della rosa, «il romanzo di ritorno» (come verrà definito da Stefano Tani) non sarà affatto il romanzo autre di Barilli, o quello incorniciato fra le virgolette del double coding da Eco: bensì proprio il romanzo même, l’ominoso «romanzo ben fatto» in cui la marchesa, imperterrita, insiste a uscire alle cinque (o, peggio ancora, il commissario indaga sul serial killer di turno). Questa, ahinoi, la normalizzazione toccataci in sorte: in quello che uno dei più giovani fra i «postumi», Stefano Gallerani, ha potuto ribattezzare «il sonno di poi». Che è poi l’agitato sonno di adesso. Un sonno bagnato dal «diluvio» profetizzato da Sanguineti giusto un decennale fa, quando – ricordo bene lo sconforto che serpeggiava allora fra noi più giovani ascoltatori – pronunciò la frase ominosa «dopo di noi il diluvio».
Nella cultura di massa impossessatasi nei decenni successivi di una paradossale egemonia culturale – come dice il Frederic Jameson opportunamente citato da Antonio Loreto – «gli stili modernisti diventano codici postmodernisti». La normalizzazione même è quella che «codifica» le forme narrative in format: secondo protocolli che l’industria editoriale ha mutuato da quella cinematografica prima, da quella televisiva poi. Non è un caso che, a rileggerli appunto da dopo, i protocolli di Palermo parlino chiaro a molti, tanto fra i «reduci» che fra i «postumi»: a Palermo ’65 si consuma la svolta postmodernista (o, piuttosto, viene alla luce la segreta natura postmoderna) della Neoavanguardia. Nell’intervento scritto per l’occasione dal principale indiziato, Umberto Eco, lo si dice papale papale: ponendo proprio lì l’inizio del percorso che lo porterà, quindici anni dopo, al Nome della rosa.
E non è un caso che Sanguineti a Palermo finisse per concludere che «forse il romanzo sperimentale non c’è, e riesce tanto difficile parlarne perché si dovrebbe parlare di un ente immaginario». In effetti una e una sola sua formula, non si può trovare. Il romanzo sperimentale davvero non esiste. Se non, appunto, come ente immaginario. L’oggetto del convegno, allora, doveva restare inevaso. Fallire la propria ricerca voleva dire, per paradosso, aver dimostrato il proprio assunto. Se ci fosse la risposta, non ci sarebbe più la domanda; sperimentare, al contrario, significa appunto continuare a porre la domanda.
È questo, a mio modo di vedere, il tratto più gravido di futuro – o, sarò più preciso, di un futuro che io possa auspicare – del Romanzo sperimentale del ’65: il suo desiderio di un romanzo diverso. O, se si preferisce, la sua ricerca. Questa tensione spasmodica, quasi palpabile nella sua fàtica spinta a immaginarlo, tale «ente immaginario»: a furia di teorie e modelli, proiezioni e speculazioni; sin quasi a mimarlo a gesti. Che è poi la stessa tensione specifica, la stessa densità d’immaginazione che all’interno di un romanzo – ancor oggi e malgrado tutto – ne fa qualcosa degno di essere letto: e che si può identificare nella critica interna ai testi, nell’intelligenza di sé degli autori (quella che, agli albori del moderno, prescriveva alla letteratura Baudelaire). Una riflessione che, nei decenni che ci separano dal ’65, clamorosamente ha latitato nei narratori, assai più che nei poeti, delle generazioni a venire. Coi risultati che abbiamo oggi sotto gli occhi. Di contro, tutti gli scrittori intervenuti a Palermo si producono in performance di scrittura critica che possono ben rivaleggiare con le rispettive prove en artiste. Tanto che – stanti oltretutto i precedenti, in tal senso non proprio innocenti, del curatore di allora – è legittima l’ipotesi che il vero romanzo sperimentale di cui si voleva sperimentare la possibilità finisse per essere proprio il libro maledetto del ’66. Il vero romanzo sperimentale è Il romanzo sperimentale.
C’è un’ultima crux da discutere. Detto di un’avanguardia debole, e addirittura postmoderna, non può mancare di far specie il senso ultimativo della famigerata pointe sanguinetiana sul «diluvio». Cioè l’irriducibile storicismo della Neoavanguardia: la sua «nozione di sviluppo del fatto letterario», ha sintetizzato Giulio Ferroni, «come specchio del movimento della storia». In questo, e in questo soltanto, l’atteggiamento intellettuale della Neoavanguardia appare irricevibile, oggi, come – poniamo – quello di Marinetti «sul promontorio estremo dei secoli» nel 1909. Al riguardo non posso che dar ragione a Filippo La Porta quando scrive che «animati da spirito antideterministico i “palermitani” hanno una visione fanaticamente deterministica e storicistica del processo storico». Lo stesso rimarcano i «postumi» in assoluto più giovani, i componenti del collettivo «404: file not found». Ma il rilievo in sé condivisibile di La Porta – «come se invece ad ogni momento non esistessero diversi tempi storici, diverse velocità a cui si muovono gli individui e i popoli» –, se oggi lo possiamo tutti o quasi condividere – in diversi tempi storici: lui nato nel 1959, io nel 1968, nati nei tardi anni Ottanta i «404» –, è perché tutti o quasi siamo accomunati, per così dire, dall’essere nativi postmoderni. Non si può chiedere, a chi interveniva nel ’65, questa consapevolezza.
Perché poi, dovremmo ben saperlo ormai, anacronistico è tutt’altro che un insulto. Come ha detto Giorgio Agamben in pagine ormai classiche, «la contemporaneità è […] una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo». Un’immagine del futuro realizzata nel passato funziona come uno specchio rovesciato. Ben più che l’idea di un futuro, per noi a sua volta passato da un pezzo, l’immagine più fedele del tempo in cui è stata prodotta. E allora, se certo storicismo aggressivo del ’65 non può che allontanarci, ad apparirci viceversa indispensabile è il futuro non stato che il nostro senno di poi conosce sin troppo bene: per averci passato tutta la vita. Il suo calco vuoto, l’ente immaginario, l’atto mancato. Quello che ci manca, che permane irrealizzato; e che contempliamo, ogni volta, nel commisurare la desolazione del presente, del diluvio presente, alle aspettative, alle aspettative così fervide, dei giovani del Sessantacinque. In questo senso tutto ciò può forse rappresentare, ancora, una promessa da adempiere. Un libro a venire. Se non per noi, per chi verrà dopo di noi. Fra altri cinquant’anni, magari.
[Immagine: Nanni Balestrini, Sos Collage (1964), particolare (gm)].
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