di Gianluigi Simonetti
[Ricorre in questi giorni il cinquantesimo anniversario del convegno di Palermo che sancì la nascita del Gruppo 63. Nella nuova serie della collana fuoriformato, pubblicata dalla casa editrice L’orma, sta uscendo la ristampa del volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Contiene gli atti del terzo convegno del Gruppo (Palermo, settembre 1965); la prima edizione fu pubblicata da Feltrinelli nel 1966, a cura di Nanni Balestrini. Nella ristampa 2013 è compresa un’ampia sezione intitolata Col senno di poi, nella quale Andrea Cortellessa ha raccolto contributi dei partecipanti al convegno e di alcuni scrittori e critici del nostro tempo. Ne fa parte l’intervento di Gianluigi Simonetti che oggi presentiamo. Giovedì scorso abbiamo pubblicato un intervento di Andrea Cortellessa sullo stesso tema].
1. A rileggerlo adesso, mezzo secolo dopo la sua prima pubblicazione, Il romanzo sperimentale colpisce fin dalle prime pagine per un aspetto tutto sommato marginale; un dettaglio che afferisce, direi, alla storia della società delle lettere, più che alla teoria letteraria vera e propria. Mi riferisco alla qualità formale del dialogo, evidente soprattutto nella seconda parte, quella riservata al dibattito vero e proprio, che è del resto il cuore del libro; allo stile compatto e civile in cui si sembra svolgersi cinquant’anni fa il confronto delle idee. Compatto, perché questi letterati prima di parlare si ascoltano, si studiano, tengono conto delle idee e delle parole altrui nel proporre le proprie – in un modo al quale l’autoreferenzialità e il narcisismo della comunicazione contemporanea ci ha disabituati; civile, perché sempre rispettoso, anche nei non rari momenti di scontro. Una civiltà che non è fondata tanto sulla buone maniere (o sul quieto vivere, sul non pestarsi i piedi) quanto al contrario su un ideale molto serrato di critica, verifica e collaudo delle posizioni altrui. Il dissenso e la polemica esplicita – anche tra intellettuali riuniti in un movimento coeso, e quindi già d’accordo su molte cose, almeno in teoria – appare qui, ancora, come forma concreta di collaborazione, e forse di amicizia: più o meno il contrario del “dibattito” come monologo, autismo e rissa, oggi, sui giornali o nei blog letterari.
Esemplare, al riguardo, l’apparato fotografico che correda il volume; se le parole d’ordine della neoavanguardia hanno fatto tanta paura a chi le ascoltava in diretta è anche perché a pronunciarle erano, visibilmente, delle persone serie, con i pregi e i difetti delle persone serie: quasi tutti distinti giovani uomini con la faccia da professori, quasi tutti in giacca, camicia e cravatta (fa eccezione soprattutto Enrico Filippini, vestito come Don Johnson in Miami Vice, e con ben vent’anni di anticipo).
2. Ma cosa succederebbe se provassimo ad applicare quel metodo a questo libro – e cioè se fossimo noi, alla nostra altezza distanza storica, a verificare, a collaudare la tenuta delle idee formulate allora? Il risultato è abbastanza paradossale. Il concetto più resistente del convegno, e per certi versi anche il più profetico o gravido di futuro, è anche il più distruttivo nei confronti dell’ipotesi stessa di un romanzo sperimentale come lo intendeva il Gruppo 63, tanto all’ala destra (Barilli) quanto all’ala sinistra (Balestrini e Sanguineti). Ne parla Umberto Eco, quando descrive la reazione del pubblico palermitano alla proiezione della Verifica incerta di Baruchello e Grifi, e annota che si è ormai formato, anzi si sta formando in diretta, un codice, una tradizione dell’avanguardia, destinata a trasformare fatalmente in même tutte le categorie autre evocate da Barilli, inclusi i «meccanismi di effrazione» descritti da Guglielmi rispettivamente nella prima e seconda relazione di apertura. Non è una rimasticatura dell’idea novecentesca del ciclo fatale dello sperimentalismo (dallo scandalo al museo, passando per il mercato); neanche una celebrazione tardiva della nuova avanguardia voluta da Sanguineti agli albori del Gruppo – quella virtuosisticamente cinica, con arie di persuasione occulta e ambizioni spregiudicate di marketing. È, più profondamente, l’intuizione di un passaggio ulteriore: la nascita di un’avanguardia di massa, di un gusto che anticipa la futura annessione al consumo dei territori formali della contestazione, e che mette a rischio ogni forma di sperimentalismo “contro l’establishment” – perché l’establishment parla o si avvia a parlare lo stesso linguaggio frammentario, antigerarchico e analogico dell’avanguardia. Assistendo a Palermo alla proiezione della Verifica incerta Eco scopre, in se stesso e negli altri spettatori, l’affiorare di una degustazione insieme ludica e critica dell’opera sperimentale; la pellicola ottenuta montando spezzoni di vecchi film hollywoodiani destinati al macero sovrappone denuncia e ammiccamento, dissacrazione e (forse inconsapevole) consacrazione: «un piacevole filmico che veniva rivalutato nello stesso istante in cui veniva messo in crisi» (così Eco nella Prolusione a Il gruppo 63 quarant’anni dopo, Pendragon 2005, p. 17). Nello sfarinamento di una distinzione netta tra inaccettabile e gradevole, e tra sperimentale e canonico, quella che Eco descrive, non senza un certo compiacimento, è l’ironia postmodernista al lavoro, colta allo stato nascente, molto prima che anche in Italia venisse chiamata così. Non «dopo di noi il diluvio», come scriveva Sanguineti rivisitando le storiche riunioni del Gruppo (ivi, p. 89); il diluvio postmoderno, in Italia, è cominciato proprio con la neoavanguardia. Tanti altri indizi, nel libro, stanno lì a dimostrarlo (si vedano per esempio le osservazioni di Barilli sul ritorno dei generi di consumo, o le proposte di Balestrini sul romanzo come «gioco autosufficiente», o quelle di Manganelli sulla letteratura come menzogna).
3. Nelle intenzioni dei suoi autori La verifica incerta rappresentava innanzitutto, come sappiamo, un passo verso la pratica di un linguaggio innovativo. Si cerca un linguaggio nuovo quando si crede che occorra «una nozione liberata di realtà» (Guglielmi), quando cioè si pensa che il mondo possa anzi debba essere cambiato, e che il cambiamento valga la rinuncia al linguaggio del passato, che è come dire a una parte di se stessi. Ogni moderno progetto di rifondazione d’avanguardia poggia non solo su una spinta creativa, ma pure sull’urgenza di una palingenesi che per attuarsi sia disposta a tutto – anche a fare in modo, come sostiene ancora Guglielmi (elogiando Capriccio italiano) che il valore critico diventi immediatamente valore poetico; che la forza delle idee venga prima della forza delle opere (perché le opere, anche e soprattutto le grandi opere, non sono fatte solo di idee).
Su questo, secondo me, la neoavanguardia si sbagliava; lo sperimentalismo letterario, in realtà, non rappresenta di per sé un gesto politico. Non solo non lo rappresenta oggi, ma non lo rappresentava neppure allora. Dal ’65 ai nostri giorni, in più, la fede o la speranza in un mondo radicalmente diverso si è molto logorata; oggi che alla rivoluzione non crede nessuno – almeno non in questa parte del pianeta – e che la libertà ci fa più che altro paura, siamo ancora meno disposti di prima a pensare che cambiare il linguaggio significhi cambiare il mondo. La consideriamo una pretesa molto nobile, ma comunque niente più che una pretesa, fondata sulla riduzione arbitraria del mondo al linguaggio, e dello scrittore a scrivente, a tecnico, a chirurgo. «E invece il nostro mestiere, come si è detto, è più modesto», annota saggiamente Pagliarani, «il chirurgo rimanendo quella signora che non è più tanto di moda nominare: la storia, la società nella storia».
L’aspirazione tecnocratica della neoavanguardia si esprime da un lato nella volontà di una critica robusta delle posizioni non sperimentali, dall’altro in una rinnovata esigenza di invenzione formale: due spinte opposte ma complementari, benissimo documentate dal convegno di Palermo. Eppure le vere invenzioni formali sono rare, e non è affatto detto che coincidano con la grande letteratura. Il Gruppo 63 conosceva bene, e ha contribuito a divulgare in Italia, la tradizione dello sperimentalismo primonovecentesco (Joyce soprattutto, Kafka, in parte Proust); ma ha forse sbagliato a sentirsi in obbligo di inventare, e di commissionare al prossimo, forme sempre nuove, avanzate tecnicamente. L’enfasi sul laboratorio, la fiducia nel «lavoro sul linguaggio», la scommessa sul «romanziere artificiale», e sulla letteratura come «meccanismo puramente verbale» (Balestrini) – sono aspetti del libro che inibiscono una pratica del romanzo come conoscenza “dal vero”, anzi come conoscenza tout court, per esigere invece una continua, sfibrante autocritica, e un’infinita dose di utopia: due cose che al romanzo non fanno tanto bene. Tutto questo, più che provocare, ha intimidito chi negli anni Sessanta e Settanta non si sentiva critico letterario o scrittore sperimentale, ma scrittore e basta; quindi ha funzionato, dal punto di vista della neovanguardia; ma ha anche finito col fare, oscuramente, il gioco del nemico, cioè della «mercificazione estetica» (Sanguineti in Sopra l’avanguardia [1963], in Gruppo 63, Critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Feltrinelli 1976, p. 337); quella mercificazione che proprio negli anni d’oro del Gruppo 63 imparava a scommettere sull’arte come gioco e come novità.
E qui mi sembra di ravvisare un secondo paradosso del Romanzo sperimentale. Mentre tutti o quasi tutti, nella riunione di Palermo, sembrano aspettare l’avvento imminente di un mondo senza schemi (di cui la rottura degli schemi formali obsoleti propugnata dall’avanguardia si vuole annuncio e prefigurazione), l’unico a far notare che nonostante i cambiamenti politici in corso la realtà si stava rimpicciolendo, e che un’alternativa non solo politica ma anche immaginativa restava invisibile, l’unico, dicevo, è forse il meno culturalmente raffinato del gruppo, il meno professore, direi anche il meno influente e ascoltato. Furio Colombo: «Non esiste per un mondo alternativo e per il mondo nel quale ci stiamo muovendo e col cui materiale stiamo costruendo una immaginazione socialista, un’immaginazione di un altro mondo, di un altro tipo di rapporti umani, di un’altra bellezza e di un’altra morale i cui punti originanti siano differenti da quelli nel cui ambito [la società del consumo] continuiamo a vivere e operare».
Cinquant’anni dopo, da questo punto di vista, le cose non sono poi così cambiate – se non per un deficit ulteriore di immaginazione socialista, e per un netto incremento di nichilismo. Ma il problema della neoavanguardia non è la sconfitta politica, è l’errore teorico – la scelta di collegare effrazione formale e rivoluzione, se la prendiamo sul serio, si rivela sbagliata anche quando la rivoluzione, per ipotesi, arriva davvero. Non mi pare che la neoavanguardia si sia mai veramente spinta a creare quella bellezza autre che cercava o diceva di cercare; non è in quell’ambito che vanno rinvenuti i (pochi) capolavori riconducibili al movimento, come ad esempio Fratelli d’Italia. In compenso la neovanguardia ha contribuito a brevettare, per antifrasi, un’idea di bellezza assolutamente moderna, adeguata alla «società del consumo» di cui parla Colombo – una bellezza non pedagogica e non effusiva come quella che il Gruppo 63 rimproverava al romanzo classico e alla lirica post-romantica. Al loro posto, un romanzo-meccano e una poesia-merce che oscillano tra divertimento e senso di colpa, e che tagliando i ponti con la tradizione l’hanno a loro modo cristallizzata, resa eternamente disponibile al trovarobato e all’assemblaggio. In questo senso, un’idea di letteratura più in anticipo, una genealogia più solida di quello che all’epoca si potesse immaginare. E quindi, in sintesi, ha di nuovo ragione Umberto Eco (nella citata Prolusione del 2003): il Gruppo 63 non ha fatto rivoluzioni; ha fatto filologia.
[Immagine: Michelangelo Antonioni, L’eclisse (1962) (gm)].
Sono d’accordo con quest’analisi di Simonetti, che limita sostanzialmente l’apporto del gruppo 63 facendone un calco della “società del consumo”. Visto però che un po’ mi è già capitato di parlarne su questo sito, l’immaginazione socialista proprio dai consumi, e da una critica degli stessi, dovrebbe riprendere le mosse, non più dal mutamento dei rapporti di produzione. Sarebbe l’antidoto al profondo nichilismo italiano contemporaneo.
Affermare che “il Gruppo ’63 non ha fatto rivoluzioni; ha fatto filologia” non è solo riduttivo, ma fuorviante (anche se, o forse proprio perché, ad emettere tale verdetto è un ‘maitre à penser’ come Umberto Eco). Che poi si ripeta un’operazione interpretativamente stantia come quella di sussumere, a seconda dei casi il Sessantotto o la neo-avanguardia, sotto la rubrica del consumismo e della mercificazione, scambiando la spinta contestativa ed eversiva che si espresse soprattutto nell’ala sinistra del Gruppo ’63 con la ‘rivoluzione passiva’, ossia con l’uso politico-economico di quella spinta, previa castrazione del suo potenziale rivoluzionario, ad opera delle classi dominanti e dei loro intellettuali sia organici che avventizi, è solo un episodio dell’eterno lorianesimo italiano. In realtà, lo scopo del “Gruppo ’63” era quello di svolgere un’azione eversiva sul piano formale e linguistico e al centro della contestazione promossa dalla neoavanguardia vi era esattamente il linguaggio della quotidianità e della merce, ma anche la nozione stessa di letteratura, così come risulta dal saggio critico su “Ideologia e linguaggio”, che Sanguineti pubblicò nel 1965. In tale saggio l’autore analizzava il rapporto tra l’arte e la merce in questi termini: «L’etimologia strutturale dell’avanguardia è stata perfettamente additata da Walter Benjamin sul mercato letterario: la prostituzione ineluttabile del poeta, in relazione al mercato come istanza oggettiva. Tale prostituzione illustra chiaramente il doppio movimento interno all’avanguardia. Questa esprime, infatti, l’aspirazione eroica e patetica a un prodotto artistico incontaminato, che possa sfuggire al gioco immediato della domanda e dell’offerta». Basti pensare, in questa ottica, ad un testo come “Laborintus” in cui lo scrittore genovese esemplifica il programma “cinico-ironico” della “letteratura della crudeltà” (definizione che egli mutua dal teatro di Antonin Artaud) (1956): un’opera che, attraverso la destrutturazione dei significati e del senso, racconta il faticoso lavoro (‘labor’) e il tortuoso viaggio (labirinto) che, avendo come guide Marx, Freud e Jung, scandisce la discesa negl’ìnferi dell’alienazione moderna. Così, sarà proprio Sanguineti, oltre che Balestrini, colui che stroncherà impietosamente il lirismo come forma di conciliazione con la realtà borghese-capitalistica, assolvendo con rigore e coerenza la funzione dell’intellettuale marxista educato alla scuola del pensiero gramsciano, cresciuto a quella del pensiero di Lukács e rivestito dal manto di una secca razionalità togliattiana. E sarà sempre Sanguineti a spiegare come “si diventa materialisti storici”, ripartendo nel lavoro letterario così come in quello politico (non da un ‘begriffo’ come l’immaginazione socialista ma) dalla dura realtà dei rapporti di produzione e di proprietà.
Bell’articolo, la ringrazio.
Secondo me però, non è esatto che ” lo sperimentalismo letterario, in realtà, non rappresenti di per sé un gesto politico”. Lo ha rappresentato eccome, solo che il senso di quel gesto politico era diverso da come se lo raffigurava chi lo ha compiuto (capita spesso, d’altronde).
E la rivoluzione c’è stata, eccome se c’è stata, anzi: c’è, e avanza trionfante. Non è la rivoluzione comunista, ma non si può avere tutto. Del resto, in confronto alla rivoluzione capitalistica di questi ultimi quarant’anni, i bolscevichi fanno la figura di un nido di barbogi…
@ Buffagni
“La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali…Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti.” (Marx-Engels, “Manifesto del partito comunista”, I, Borghesi e proletari).
a Eros Barone.
D’accordo con lei e con Marx-Engels. Tant’è vero che il capitalismo si è mangiato pure la borghesia…
Caro Buffagni,
Lei, affermando che “il capitalismo si è mangiato la borghesia”, sostiene la tesi paradossale dell’autofagia. Mi dica allora, in primo luogo, che cosa siano, se non frazioni della borghesia capitalistica, i circoli dominanti del capitale monopolistico (sia quelli che fanno capo alle vecchie famiglie sia quelli emergenti), i membri dei consigli di amministrazione delle banche e delle assicurazioni, i grandi industriali, i latifondisti, i possessori di grandi patrimoni: insomma quel 5% della popolazione italiana che possiede i principali mezzi di produzione e la maggior parte della ricchezza sociale. In secondo luogo, mi dica se siano o non siano frazioni della borghesia capitalistica gli industriali medi e piccoli. In terzo luogo, mi dica se appartengano o no alla borghesia i vasti settori della piccola e media borghesia delle metropoli e delle province, i lavoratori “delle partite Iva”, i ‘grands commis’ e i quadri intermedi dello Stato e delle aziende, le gerarchie militari, i professori universitari che gestiscono il potere accademico, la borghesia mafiosa (definibile anche come mafia imprenditrice). E non pensa infine che, guardando all’abnorme estensione che ha assunto nel nostro paese la ‘borghesia di Stato’ (costituita dai professionisti della mediazione istituzionale, che vivono, si arricchiscono e si appropriano di quote rilevanti della ricchezza sociale per mezzo della politica), si potrebbe anche sostenere con valide ragioni che è stata la borghesia a mangiarsi il capitalismo?
Caro Barone,
scusi il ritardo nella replica. Da un canto scherzavo, dall’altro intendevo dire qualcosa di un po’ più serio: che la borghesia intesa come classe che ha una sua etica e una sua “coscienza infelice”, è stata mangiata dal capitalismo, e non c’è più.
Che poi continuino ad esistere i proprietari dei mezzi di produzione è verissimo; ma continuano ad esistere anche gli aristocratici, e l’aristocrazia non esiste più come classe.
Come dovrebbe essere la letteratura dell’anno Zero?Esattamentecome i racconti-mondo, asciutti, concettuali, di Alice Munro e poi L.Davis, Ann Tyler,Clarice Lispector, e tante nuove. Penso un po’ alle italiane:mi vengono in mente Aversano e Ghinelli, ma molto al di sotto. Ci devo lavorare….
Una bella analisi. E’ poi in fondo una questione di umiltà, capire che è la storia che ci fa e non viceversa. La tecnocrazia ha qualcosa ha che fare, in profondità, con l’hybris dell’individualismo moderno, ormai tanto diffusa da esser vulgata (“sono ciò che decido di essere”, con nevrosi e liquefazioni psicologiche annesse, e il buttare a mare la zavorra chiamata tradizione).
Anche se ci sarebbe da domandarsi: è meglio oggi, con la cultura di élite che scimmiotta quella di massa, o allora, quando la cultura di massa scimmiottava l’avanguardia (l’élite?). Faccio riferimento a cose come questa: Patty Pravo intervistata che risponde “il mio scrittore preferito è Joyce”, con quella sua meravigliosa ariuccia blasée. Non l’aveva letto di certo, ma non si sarebbe sognata di spernacchiarla come oggi si farebbe. Ammesso che si sappia chi sia Joyce.
Sulla civiltà del dibattito. Io credo, Simonetti, che non potremo capire fino in fondo cosa sta accadendo, se non riusciamo a superare l’istintivo ragionare per categorie morali (morali, non moralistiche, perché capisco cosa vuole dire e in larga parte condivido, dunque è a me stesso che pongo la domanda). Premesso che non riesco del tutto a smettere di rimpiangere una presenza di intellettuali che dall’alto riescano ad essere modello intellettuale, ma perché no, anche di comportamento: mi domando se non ci siano ragioni rilevabili sociologicamente e psicologicamente nel costume e nell’ethos di quei vecchi intellettuali, e se non ce ne siano delle altre altrettanto “sensate” nel costume e nell’ethos di quelli di oggi. In una parola, approssimativa: quali “vantaggi” psicologici e sociali derivavano dall’autocontrollo e dalla buona educazione di quei borghesi al quadrato? quali invece dall’esibizione di sé e dallo sfrenamento di noialtri uomini e donne del 2000? Ci sarà forse anche un compiaciuto rafforzamento del proprio ego personale e collettivo nell’essere depositari di una civiltà logocentrica, sobria, civilissima? Ci sarà forse anche un diffuso senso di irrilevanza angosciata, rischio perenne di frantumazione psichica, fragilità, nelle nostre cattive (lo riconosco: cattive) abitudini?
Quanto moralismo nel mio precedente intervento. Non se ne esce, vero?