cropped-pulp-fiction.jpgdi Stefano Brugnolo

[Il saggio Strane coppie (Il Mulino 2013) di Stefano Brugnolo parla di un topos ricorrente nell’immaginario narrativo, teatrale e cinematografico – la coppia di personaggi complementari, simili ma diversi, opposti ma uguali, che creano scompiglio e straniamento, spiazzando il lettore o lo spettatore: Bouvard e Pécuchet di Flaubert, il Gatto e la Volpe di Collodi, Stanlio e Ollio, Vladimiro ed Estragone di Beckett. Presentiamo le prime pagine del libro, dedicate a una delle strane coppie più celebri del cinema contemporaneo, quella formata da Jules e Vincent in Pulp Fiction (1994) di Quentin Tarantino].

L’idea di occuparmi di strane coppie mi è venuta vedendo Pulp Fiction, un film del 1994. Nel film di Tarantino incontriamo una strana coppia di killer strampalati: Jules e Vincent. Mi è subito parso che si trattasse dell’ennesima versione di un topos, che i due personaggi fossero gli epigoni di una tradizione che veniva da lontano, una tradizione originariamente di tipo comico-popolare che poi nel tempo s’è fatta grottesco-surreale. Si possono riconoscere in Jules e Vincent i due zanni della Commedia dell’arte. Non è un caso se comincio da un film recente: il motivo di cui mi occupo interessa e attraversa la letteratura ‘alta’, ma ha origini e ricadute in altri linguaggi e generi spesso legati all’intrattenimento (oltre che nella commedia dell’arte e nelle pantomime, lo si ritrova nel circo, nel varietà, nei fumetti, nei cartoni animati, nelle gag televisive, e moltissimo nel cinema). Pulp Fiction, che è un prodotto ibrido per eccellenza e mescola originalmente cultura pop e cultura letteraria e filmica alta, ben si presta a queste mie indagini. Anticipo anzi che, anche se il mio corpus è principalmente letterario, mi capiterà spesso di effettuare delle ricognizioni in questi altri ambiti, sempre però sulla base di alcune poche costanti di tipo immaginativo. La strana coppia a cui mi riferisco è infatti prima di tutto una certa immagine di cui qui abbozzo una preliminare e sommaria descrizione: due individui ‘fuori squadra’, due outsiders goffi, buffi, fondamentalmente stupidi, dai tratti fisici e psicologici spiccati, che si muovono sempre insieme e sono complementari l’uno all’altro.

Jules e Vincent, anche esteriormente, hanno tutta l’aria di una strana coppia, sono infatti simili ma diversi: «uno bianco, uno nero, indossano entrambi abiti neri con sottili cravatte nere sotto lunghi soprabiti verdi».» (13).[1] Quando entrano in scena stanno nel bel mezzo di una discussione che si svolge in macchina, e si tratta di una discussione futile e appassionata su alcune abitudini nei consumi di droga, birra e hamburger in Europa, da cui Vincent è appena ritornato. La conversazione ci dà subito la cifra del film; siamo infatti più che mai dentro la civiltà dei consumi, della pubblicità, delle marche, e i due tipi ne sono due campioni, due ‘stupidi’ rappresentanti:

JULES. E come lo chiamano il Big Mac?
VINCENT. Big Mac resta Big Mac, ma lo chiamano Le Big Mac.
JULES. E come lo chiamano un Whopper?
VINCENT. Non lo so, non ho mai trovato un Burger King. Ma sai che cosa mettono sulle patate fritte in Olanda, invece di ketchup?
JULES. Cosa?
VINCENT. Maionese.
ULES. Santo cielo!
VINCENT. Li ho visti farlo. E mica un pochino sull’orlo del piatto, no, ce le annegano dentro quella merda.
JULES. Puah! (15)

I dialoghi in Pulp Fiction sono così, chiacchiere fitte sul niente, ma chiacchiere molto naturali, spontanee e partecipate, coinvolgenti e capaci di fare arrabbiare gli interlocutori. In effetti, è difficile trovare un film più parlato di questo, e molto del suo fascino consiste proprio in questo flusso verbale ritmico, avvolgente, quasi ipnotico. Sembra che ci troviamo nella quotidianità più rilassata, ma poco dopo capiamo che questi due tipi stanno andando a ‘sistemare’ qualcuno (tre ragazzi che hanno fatto uno sgarro al loro capo). Sono due gangster ma hanno l’aria di ordinary men, due vecchi amici che vanno insieme al lavoro e intanto chiacchierano di baseball, di donne, di macchine, ecc. Tutta la situazione sta sotto il segno dell’umorismo nero: fatti violenti e scandalosi vengono presentati come normali e scontati. Era stato Swift con la sua Modesta proposta[2] l’iniziatore del genere che da allora in poi si era caratterizzato come una letteratura che rivelava la banalità del male, mostrando come si potesse praticarlo con un piglio razionale, professionale, asettico.

Nel film ritroviamo ancora una serie di effetti tipici del genere; ad esempio i due ad un certo punto si lamentano dei loro capi che non provvedono abbastanza a garantire loro migliori condizioni e strumenti di lavoro: «dovremmo avere fucili per questo tipo di lavoro». (16); in un altro momento Jules dice a Vincent, poco prima di cominciare a «lavorare»: «preparati come un vero professionista» (24); e in un altro momento ancora Vincent, che sta discutendo con uno spacciatore a proposito del furto della sua macchina, mentre si prepara la sua dose di eroina, si lamenta così: «Non si fotte il veicolo di un altro. […] E’ contro le regole, non si fa». (42-43). Lo spacciatore concorda e depreca i mala tempora in cui si è costretti a vivere e aggiunge che «bisognerebbe ammazzarli quei bastardi. Niente processo, niente giuria, direttamente al muro» (42). Richiamarsi a valori professionali o morali nel mentre si sta agendo in modo turpe ha naturalmente un effetto umoristico, ma qui Tarantino non vuole certo stigmatizzare tali discrasie alla maniera di Swift; esse semplicemente lo divertono. Quando per esempio i due gangster pasticcioni dovranno sbarazzarsi di un ingombrante e imprevisto cadavere e chiederanno l’aiuto di un amico ‘normale’, quest’ultimo, preoccupato di quel che potrebbe dire la moglie si lamenterà così: «lo capite o no che se Bonnie ritorna e trova un cadavere in casa sua per me sarà il divorzio» (148). In effetti, nel film tutti, spacciatori, boss mafiosi, prostitute, assassini condividono gli stessi «fottuti» valori piccolo-borghesi dell’infermiera Bonnie che non vuole cadaveri per casa.

Ma torniamo alla scena da cui eravamo partiti. Ebbene, mentre i due giustizieri si avviano a compiere il loro ‘lavoro’, si mettono a discutere della moglie del capo, Mia, un’attrice mancata. Salta fuori che il boss Marsellus avrebbe inflitto una terribile punizione a un tale Antwan colpevole di aver fatto un massaggio a un piede di sua moglie. A questo punto scatta una discussione molto concitata:

JULES. E’ stato un massaggio al piede, un massaggio al piede è niente, un massaggio al piede io lo faccio a mia madre. VINCENT. No, significava mettere le mani addosso alla nuova moglie di Marsellus Wallace in maniera troppo confidenziale. […]
JULES. Un massaggio ai piedi non significa un cazzo.
VINCENT. Hai mai praticato un massaggio ai piedi?
JULES. Non parlarmi di massaggi ai piedi – io sono un fottuto maestro del genere.
VINCENT. Ne hai praticati molti?
JULES. Altroché, merda. Io la mia tecnica ce l’ho sulle punte delle dita, mica faccio il solletico o altro del genere.
VINCENT. Hai mai fatto un massaggio ai piedi a un uomo?
Jules lo guarda a lungo – Comincia a irritarsi.
JULES. Va a farti fottere. […] Senti per il fatto che io non massaggerei il piede di un uomo, questo non significa che da parte di Marsellus fosse giusto scaraventare Antwan da un quarto piano in una fottuta serra […]
VINCENT. Non dico che avesse ragione, ma tu dici che un massaggio ai piedi non significa niente, e io dico che invece sì. Ho praticato un milione di massaggi ai piedi a un milione di signore, e tutti hanno significato qualcosa. […] Marsellus non poteva prenderla con umorismo, quella merda. (20-22)

Si tratta di un dialogo strampalato, capzioso, assolutamente inadeguato alla situazione. La loro assomiglia alle conversazioni vacue che si tengono nelle sale d’attesa, prima d’essere ricevuti; solo che in questo caso l’appuntamento coincide con un agguato mortale che avrà luogo di lì a poco. D’altra parte, questi dialoghi sono piccoli capolavori nel loro genere, per fluenza, animazione, ritmicità, che fa tutt’uno con la loro piacevole, rilassante insulsaggine. È il tipico tira-e-molla di una coppia di amici sempre pronti a contraddirsi per un nonnulla, per poi ritrovare ogni volta l’intesa. Ma qui questo copione da strana e vecchia coppia diventa qualcosa d’altro. Direi infatti che nessun artista ha portato fino a tal punto di virtuosismo questo senso della chiacchiera fàtica come dimensione propria della società dei consumi americana e in fondo planetaria. E’ questa la vera musica che fa da ininterrotta colonna sonora al film, e che ne è forse la protagonista vera. E non si tratta certo di realismo; nella loro apparente colloquialità questi dialoghi costituiscono una sorta di concentrato stilizzato del parlato massmediatico. Non c’è per esempio nessun intento espressivo nell’uso insistito delle parolacce: sono parole vuote con funzione di punteggiatura puramente prosodica.

Nel dialogo tarantiniano a contare, più che il merito della discussione, è la prontezza e la velocità nel botta e risposta; questo può anche trasformarsi in aggressività, però del tutto gratuita e spostata. Per esempio ecco uno scambio tra i due gangster che stanno ripulendo la macchina dai resti di cervello di un ragazzo casualmente ucciso da Vincent:

VINCENT. Ho un limite, Jules. Ho un limite per le offese che sopporto. E tu lo stai superando. Sono un’auto da corsa e tu hai superato il limite di giri al minuto. […]

JULES. Oh, stai per esplodere? E io sono un fungo atomico sterminatore, figlio di puttana che sei! Ogni volta che le mie dita toccano cervelli divento Superfly TNT, divento i Cannoni di Navarone; […] Infatti, che cazzo ci sto a fare io qui dietro? Sei tu il figlio di puttana che dovrebbe occuparsi dei pezzi di cervello. (159).

Come si vede questi scambi non si caratterizzano solo per essere assurdi, ma anche perché suscitano nei partecipanti impuntature, permalosità, sottigliezze pedanti che risultano ogni volta più sconclusionate. Tale esilarante incongruenza la si può notare già nella discussione sui massaggi ai piedi e soprattutto nella scena violentissima e grottesca della esecuzione dei tre ragazzi. Mentre le loro vittime sono sotto tiro, assolutamente terrorizzati, Jules li interroga e tira ancora fuori le solite questioni di marchi commerciali:

JULES. Cosa stavate mangiando?
BRETT. Hamburger.
JULES. Hamburger. Il pilastro di ogni colazione nutriente. Che tipo di hamburger?
BRETT. Cheesburger.
JULES. No, no, no, no. Voglio dire dove li avete comprati? McDonald’s, Wendy’s, Jack-in-the-Box, dove?
BRETT. Big Kahuna Burger.
JULES. Big Kahuna Burger. […] Come sono?
BRETT. Sono buoni.
JULES. Ti dispiace se ne assaggio uno dei vostri? […] Uuuummmm, questo sì che è buono. […] Io di solito non li posso mangiare perché la mia ragazza è vegetariana. […] Che cosa c’è in quello?
BRETT. Sprite.
JULES. Sprite, benone, ti dispiace se bevo un sorso della tua deliziosa bevanda per mandare giù gli hamburger? (25-27)

E via discorrendo. Le coppie di zanni della commedia dell’arte, da cui in fondo anche Jules e Vincent discendono, sono spesso caratterizzate sul piano della fame, dell’oralità. Ma rispetto a questi modelli lontani è evidente che anche questa dimensione è influenzata dalla società dei consumi. Prendiamo per esempio quest’altro dialogo dove i due si accaniscono su improbabili questioni dietetiche:

VINCENT. Vuoi una salsiccia?
JULES. No, non mangio maiale.
VINCENT. Sei ebreo?
JULES. Non sono ebreo, solo che non mi piace il porco.
VINCENT. Perché? JULES. Sono animali sudici. Non mangio animali sudici.
VINCENT. Le salsicce sono buone. Anche le braciole.
JULES. Un topo di fogna può sapere di torta di zucca. […]
VINCENT. E i cani? I cani mangiano i loro stronzi.
JULES. Non mangio neppure cane.
VINCENT. D’accordo, ma il cane lo ritieni un animale sudicio?
JULES. […] Un cane però ha una sua personalità. E’ la personalità, quella che conta.
VINCENT. Con questo ragionamento se un maiale avesse una personalità migliore cesserebbe di essere un animale sudicio? (171-172)

L’argomento del bisiticcio è cambiato, ma in realtà è sempre lo stesso inconfondibile stile. In questi e altri scambi tutto si mescola: la pubblicità, il cinema, la televisione, la geografia, i prodotti alimentari, la droga, l’arte del massaggio, la cucina vegetariana, la religione. E’ una sorta di conversazione-zapping. Ed è questo tono divagante in cui tutto fa rima con tutto che dà a questi dialoghi scemi la loro qualità originale, davvero unica. Jules e Vincent sono due pagliacci-killer che facendosi il verso l’un l’altro fanno il verso all’universale bla bla massmediatico. E in questo sono anche molto americani, se per americanità intendiamo qui la disposizione mentale a trattare tutto e tutti alla pari, a mescolare democraticamente l’alto e il basso, il sacro e il profano. Non è perciò un caso se la figura retorica del catalogo disordinato, tanto amata e praticata da Whitman, caratterizza anche la poetica, apparentemente tanto lontana, di Tarantino.

E’ sempre secondo questa attitudine a mescolare tutto che Jules, dopo aver disquisito di hamburger, chiede ai poveracci se hanno letto la Bibbia («Hai mai letto la Bibbia?» [21]), e subito parte con una lunga (e apocrifa) citazione da Ezechiele. Lui dice che è un passo che «sembra appropriato per la situazione», va da sé che non lo è per niente: «Il sentiero dell’uomo giusto è circondato da ogni parte dalle iniquità degli egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi ecc.» (22). Jules qui ci ricorda uno dei tanti predicatori invasati caratteristici della società e della storia americane, solo che lui è un criminale e non un profeta o un capo politico. Ma come vedremo questo è tipico delle strane coppie: esse si fanno quasi sempre l’eco distorta di discorsi originariamente autorevoli e solenni.

D’altra parte il motivo religioso attraversa tutto il film. Succede infatti che uno dei ragazzi sbuchi fuori dal bagno e spari a distanza ravvicinata sei colpi a Jules e Vincent senza nemmeno sfiorarli; si tratta dell’ennesimo disguido di cui questo film è pieno, ma Jules considererà letteralmente miracoloso l’evento. Tra i due si svilupperà allora una vera e propria «discussione teologica»:

JULES. Si è trattato di… un intervento divino. Lo sai che cos’è un intervento divino?
VINCENT. Sì, credo di sì. Significa che Dio viene giù dal Cielo e ferma le pallottole.
JULES. Sì, caro mio, significa questo. E’ esattamente questo che significa. Dio viene giù dal Cielo e ferma le pallottole.
VINCENT. Penso che adesso dovremmo andarcene.
JULES. Non puoi fare così! Non fare questa cazzata! Non buttare via così questa merda! Quel che è successo era un fottuto miracolo!
VINCENT. Piantala con questa storia, Jules, questa merda succede.
JULES. Sbagliato, sbagliato, questa merda non succede.
VINCENT. Vuoi che continuiamo questa discussione teologica in auto, o in carcere con i piedipiatti? (139).

Come si vede nel discutere del possibile divine intervention ci mettono la stessa partecipazione e puntigliosità che ci mettevano allorché discutevano di hamburger e di massaggi ai piedi. L’argomento più elevato non prevede un cambio di registro: i due discutono del fuckin’ miracle e uno dice che «questa merda succede» e l’altro che «questa merda non succede». Jules però decide di cambiare vita ‘davvero’:

VINCENT. Se abbandoni questa vita, che cosa farai?
JULES. […] Primo, ne discuterò con Marsellus. Poi, fondamentalmente, percorrerò la terra.
VINCENT. Che cosa vorresti dire con percorrere la terra?
JULES. Sai come, come Caine in Kung Fu. Semplicemente andare di città in città, incontrare gente, vivere avventure. VINCENT. E per quanto tempo intendi percorrere la terra?
JULES. […] Se ci vorrà un’eternità, aspetterò un’eternità. […]
VINCENT. […] Jules, finirai per essere come quei pezzi di merda che chiedono l’elemosina. Se ne vanno in giro come un branco di zombies, dormono nei cassonetti delle immondizie, mangiano quello che gli altri gli gettano, i cani gli pisciano addosso. (173-174)

Questa mescolanza del sacro con il profano, di Bibbia e criminalità, è ancora in puro stile humour noir, e può farci venire in mente tra gli altri Brecht e il suo lestofante Peachum, che spesso si appella alla Bibbia allorché gestisce la mendicità come se fosse un’impresa capitalistica:

Il lavoro che faccio è troppo difficile, perché il mio lavoro consiste nell’eccitare la compassione umana. […] A che servono le massime più belle e più stringenti, dipinte su allettantissimi cartelli, se poi si usurano così presto? Nella Bibbia vi sono quattro o cinque massime capaci di commuovere il cuore; ma, quando le si è consumate, si è subito alla fame. Guardate per esempio questa: “Date, e vi sarà dato”: sono tre settimane che è appesa qui, ed è già fuori uso […] bisogna sempre offrire qualcosa di nuovo. Bisogna continuare a sfruttare la Bibbia, ma quanto potrà andare avanti?[3]

Ma mentre in Brecht l’intento era dissacratorio, in Pulp Fiction l’attitudine è ludica e divertita. Per esempio, anche nel momento di massimo trasporto mistico Jules non può fare a meno di mescolare il profeta Ezechiele con il Kung fu. D’altra parte a sua volta Vincent per contestare illumisticamente il miracolo si rifà a un telefilm:

VINCENT. …Hai mai visto quel telefilm ‘Sbirri’? Una volta ero lì a guardarlo e si vedeva uno sbirro che raccontava di quella volta che aveva avuto una sparatoria con un tale in un atrio. Gli scarica addosso tutti i suoi colpi e non lo colpisce neanche di striscio. […] E’ un caso strano ma capita. (140)

Come già dicevo, Pulp Fiction è pieno di questi riferimenti a film, telefilm, e ad altri prodotti della cultura di massa e la Bibbia si inserisce perfettamente in questo frullato.[4] Jules e Vincent sono due uomini copia, due uomini eco, che riecheggiano il discorso onnipervasivo della civiltà dei consumi e che contemporaneamente lo ridicolizzano. Vengono in mente certe affermazioni di Heidegger relative alla chiacchiera: «Le cose stanno così perché così si dice. […] La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere».[5] Non conosco nessun film che come questo abbia saputo farci intendere questa nuova pervasiva musica. La differenza naturalmente sta nella diversa attitudine nei confronti di questo «le cose stanno così perché così si dice»; l’intento di Tarantino non è certo critico-morale come quello di Heidegger. Questo flusso verbale continuo produce infatti in chi l’ascolta un effetto ipnotico, di rilassamento logico e ideologico, a cui è difficile sottrarsi. Ma anche ci destabilizza profondamente, ci coinvolge stordendoci, ci fa sentire che Jules e Vincent sono le nostre caricaturali controfigure, che siamo tutti più che mai immersi in questa «massa di materia informe» che è il pervasivo discorso mediatico.

Fermiamoci per un momento e proviamo a vedere se possiamo ritrovare gli antenati e i parenti di Jules e Vincent. Per farlo è necessario definire meglio il topos in questione.


 

[1] Le citazioni sono estratte da Q. Tarantino, Pulp Fiction, London, Faber and Faber, 1999. In questo caso come in tutti gli altri casi, là dove non è specificato il contrario, le traduzioni sono dell’autore. Inoltre d’ora in poi i riferimenti alle pagine dei libri da cui cito e che analizzo saranno dati tra parentesi e dentro il corpo del testo.

[2] Mi permetto di rimandare al mio studio La tradizione dell’umorismo nero, Roma, Bulzoni, 1994.

[3] B. Brecht, Die Dreigroschenoper, in Id., Stücke für das Theater am Schiffbauerdamm, Erster Band, Berlin, Suhrkamp, 1958, p. 10.

[4] Non dimentichiamoci che Tarantino ha messo come epigrafe della sua sceneggiatura questa definizione della parola pulp: « una massa di materia morbida, umida, informe». Che vale anche come una dichiarazione di poetica.

[5] M. Heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer Velag, Tübingen, 1927; trad.it. Essere e tempo, Torino, Utet, 1986, a c. di P. Chiodi, pp. 212-213. Nico Bondi sembra echeggiare queste analisi hedeggeriane quando scrive a proposito di Pulp Fiction: «i personaggi parlano per luoghi comuni “massmediatici”, non vi è emotività nelle loro modalità di ragionamento, tutto appare dal punto di vista asettico e spesso ridicolo di chi ha una percezione prettamente cinematografica e televisiva della realtà»: N. Bondi, “Pulp Fiction”: quattro passi nella “Junk culture, http://spettacolo.digiland.it/1212/analisi.htm

[Immagine: Quentin Tarantino, Pulp Fiction (1994) (gm)].

 

 

 

2 thoughts on “Strane coppie

  1. Il vero comune denominatore del libro di Stefano Brugnolo è dato dall’ipotesi che le coppie, quasi sempre oppositive (grasso-magro; astuto-sciocco; impulsivo-riflessivo; …) siano godibili in base a un segreto principio di simmetria: quel principio – tipico della logica dell’inconscio umano – che tende a trattare ogni relazione inversa come identica. L’ipotesi, desumibile da Matte Blanco – balena solo a pag. 122 a proposito di Carrol, Alice. Ma riguarda, in fondo, tutte le coppie trattate. Il merito del libro sta nell’avanzare questa complessa ipotesi dello psicanalista cileno, trapiantata alla letteratura, in forme discorsive leggere, godibili, perfettamente omologhe alla tematica trattata, così spesso farsesca o parodica.

  2. verissimo. non ci avevo pensato, ma non è un caso che Unconscious as Infinite Sets sia un libro citato e sfogliato attentamente sia da Orlando (nelle edizioni più recenti di Per una teoria freudiana della letteratura) sia dai suoi allievi
    però ho preferito la parte su Stanlio e Ollio (che ho letto in Vibrisse) a questo brano, più breve. lì mi sembra che il discorso sia particolarmente centrato -forse anche perché c’è più bibliografia di partenza

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