[Alice Munro ha vinto il Premio Nobel per la letteratura. Festeggiamo questo riconoscimento ripubblicando un articolo di Daniela Brogi dedicato a Munro e alle altre grandi scrittrici canadesi contemporanee]
di Daniela Brogi
È impossibile fermarsi all’argomento della pura coincidenza per così tanti nomi provenienti da un unico territorio: il Canada è il paese delle grandi scrittrici.
Basta ripensare alle più note per capire che non è una questione esclusivamente riducibile al genere, con le relative recinzioni che potrebbero derivarne: a fare valore è la qualità alta del lavoro, l’attenzione alla scrittura, tant’è vero che scrivere short stories, anziché romanzi, non è una discriminante. E così possiamo citare Anne Hébert (1916-2000), nata nei pressi della città di Québec: tre suoi romanzi – I bambini del Sabba, L’ultimo giorno d’estate e Un vestito di luce – sono stati tradotti da Maria Piera Nappi (il primo e il terzo), e da Vilma Porro (il secondo), e pubblicati dalla coraggiosa casa editrice di Luciana Tufani; Mavis Gallant (Montréal, 1922), pubblicata da Rizzoli (Varietà di esilio; Un fiore sconosciuto; Piccoli naufragi, traduzioni di Giovanna Scocchera e Chiara Gabutti); Alice Munro (Wingham, Ontario, 1931), che da molto tempo merita il Nobel; Margaret Atwood (Ottawa, 1939), di cui qui ci limitiamo a ricordare The Blind Assassin (2000) e la raccolta Moral Disorder (2006) tradotti da Raffaella Belletti per Ponte alle Grazie; Carol Shields (1935-2003), nata nell’Illinois ma cittadina canadese, Premio Pulitzer per la narrativa nel 1995 con The Stone Diaries (1993, tradotto da Alessandra Cremonese Cambieri per Rizzoli e nel 2009 da Barbara Ronca per Voland); Anne Michaels (1958), l’autrice di Fugitive Pieces (1996, pubblicato da Giunti nella traduzione di Roberto Serrai); e, infine, Deborah Willis (Calgary, Alberta, 1982), ottima esordiente con la raccolta di racconti Vanishing and Other Stories (Svanire, appena pubblicata da Del Vecchio nella traduzione di Anna Baldini e Paola Del Zoppo).
Il Canada, però, sembra rimandare non soltanto a un territorio, ma alle esperienze del mondo che si sono sedimentate in questo luogo; il Canada sta per una cultura, un immaginario, un modo simile di dare attenzione, attraverso il linguaggio, alla posizione e agli incroci delle vite umane nel tempo, oltre che nello spazio: da questo punto di vista, è il posto dove più che altrove è durata l’esperienza viva di quanto le storie degli altri e degli antenati possano arrivare da lontano, perché è terra di immigrazione altissima, ma anche perché è una nazione, diversamente dagli Stati Uniti, dove le differenze di partenza hanno mantenuto più spazio: in senso fisico, materiale, simbolico.
È davvero più di una coincidenza, allora, il fatto che la maggior parte delle narratrici canadesi – ma il discorso vale in parte anche per le poesie di Anne Carson (Toronto, 1950) – lavori attorno a un nucleo di domanda centrale: come recuperare il passato e dargli voce, sopravvivendo all’angoscia dei ricordi, per un verso, e per l’altro rappresentando la natura “vivente” di questa materia. Non si tratta tanto e solo di una questione filosofica, ma di un problema affrontato a titolo di scrittrici. È un interrogativo, dunque, che non chiede risposte di contenuto, ma, anzitutto, di lavoro sulla scrittura. La memoria, così, diventa un problema di tecnica narrativa: la costruzione del testo deve dare voce alla memoria, da un lato, e dall’altro imitare, esprimere, quanto accade ai ricordi durante lo svolgimento della vita reale. Non si tratta, infatti, di una narrativa semplicemente riferibile al genere dell’autobiografia, ma di un discorso capace di costruirsi, attraverso la sua forma, come un’immagine degli anni. Può trattarsi, per esempio, dei racconti di Gallant, come di quelli dei libri di Munro: i singoli testi sono tracce autoconcluse di un intero che può esistere, ma solo come profilo di un’ombra – e l’uso di questa immagine, vale la pena precisarlo, non c’entra nulla con la retorica dell’abbandono sentimentale.
Il senso del tempo – come oblio, come recupero incerto, ma anche come reinvenzione permanente – non guarda mai a un punto finale di armonia; piuttosto arriva dalle fratture a vista tra i singoli testi, che compongono una struttura fortemente scandita (in singoli racconti, in parti, in capitoli dai titoli autonomi, o in paragrafi tematici: linee spezzate, in ogni caso, che smantellano i confini tra racconto e romanzo), e puntano a un effetto di discontinuità, perché il tempo dei ricordi non fa stare tutto insieme, ma è sconnesso e sconnette sempre; la tensione non si scioglie mai. «Ci fanno sudare, le nostre bugie» (A. Munro, Chi ti credi di essere?, traduzione di Susanna Basso, Einaudi, 2012, p. 53)
Per questi aspetti, così centrali, quasi tutte queste scrittrici recuperano l’esperienza di Margaret Laurence (1926-1987, nata a Neepawa, piccolo villaggio nella pianura sterminata del Manitoba). Laurence è stata autrice di racconti e, soprattutto, di un famoso ciclo di cinque romanzi (“Ciclo di Manawaka”), scritto tra il 1964 e il 1974, di cui adesso la casa editrice Nutrimenti propone il primo e l’ultimo testo: The Stone Angel (L’angelo di pietra), 2011) e The Diviners (I rabdomanti, 2012), tradotti entrambi da Chiara Vatteroni; assieme a questi, gli altri tre romanzi sono: A Jest of God; The Fire-Dwellers; A Bird in the House, ed erano stati pubblicati tra il 1994 e il 2000 da La Tartaruga.
Ciascun volume del ciclo è ambientato intorno a Manawaka, cittadina immaginaria ispirata al luogo natale di Laurence, di cui si ripercorrono gli ultimi cento anni di storia. Hagar, ne L’angelo di pietra, è una donna di novant’anni, ammalata, non del tutto in sé, dispettosa e prossima alla morte, che ricostruisce la propria vita dentro un mondo di relazioni con l’esterno fatto ormai più che altro di pensieri («Si sta avvicinando furtivamente una vecchietta con una gonna di cotone rosa stampato a fiori e impillaccherata dalle tracce di vecchi pasti. Che vuole da me questa vecchia? Dovrei forse parlarle? Non ci siamo mai presentate. Sarebbe un comportamento sfacciato»: p. 103). Morag Gunn, ne I rabdomanti, ha quarantasette anni ed è una famosa scrittrice di romanzi che riflette attorno al proprio destino, magari chiedendosi «che cosa è andato male?», o cercando i nodi irrisolti della propria famiglia, guardando, attraverso i ricordi, cosa permane delle esistenze che ci hanno preceduto e accompagnato nella propria vita, e, viceversa, cosa si nasconde, del nostro presente, nei frammenti delle biografie altrui; tant’è vero che i luoghi a cui tornano in continuazione entrambi i romanzi di Laurence sono le tre zone fisiche e simboliche di raccolta dei resti della vita umana: quella monumentale del cimitero (dove si trova la statua votiva dell’angelo di pietra che dà il titolo al primo libro); quella molesta della discarica; e, infine, la terra di mezzo tra vita e morte della casa di riposo, che torna anche nel libro di Munro (Chi ti credi di essere?). Riflettere sulla propria storia significa ripensare a cosa è stato seppellito, rifiutato come «robaccia», oppure cercare, come un rabdomante, le vene d’acqua nascoste sotto la corrente del nostro gran daffare: «Ricordo la loro morte, ma non la loro vita. Eppure sono dentro di me, mi scorrono nel sangue a mia insaputa e si muovono in incognito nella mia testa» (I rabdomanti, p. 31).
L’aspetto più sperimentale della scrittura di Laurence è quello che ha lasciato le maggiori tracce anche nelle autrici successive. Si tratta della scommessa, affrontata in senso tecnico, di comporre una narrazione intorno alla memoria di un luogo mettendo su un edificio testuale che fosse capace non tanto di recuperare il passato, ma di far trovare al presente il posto nel passato – «Non era colpa di nessuno. Dove cominciano le cause, fino a dove bisogna risalire?»(L’angelo di pietra, p. 236).
È una questione di “taglio” della storia, come si vede, che l’autrice risolve lavorando su due piani: in primo luogo organizzando una struttura sezionata in nuclei di racconto che non procedono secondo un modulo di scorrimento uniforme e graduale, ma sono composti di incroci continui tra scene del passato e situazioni presenti, e potrebbero dunque esistere anche da soli. Come in molte raccolte di racconti di Munro, e particolarmente nel bel libro del 1977 appena pubblicato da Einaudi Who Do You Think You Are?, non siamo in presenza di opere dove, superata la prima pagina, la voce narrante racconta in flashback la propria storia, ma di trame vive della memoria che ricostruiscono la vita presente delle protagoniste man mano che si riprendono parti del passato – «tengo le fotografie non per quello che mostrano ma per quello che vi è nascosto»: I rabdomanti, p. 17).
In secondo luogo, Laurence escogita un punto di vista autobiografico tutto particolare, perché nutre i ricordi della vita presente, creando un senso continuo di sovrapposizioni e slittamenti tra la familiarità con cui l’io riprende la propria storia e l’estraneità con cui questa storia rivive sulla superficie, ora perché si mescola al presente (alternando magari, ne L’angelo di pietra, il ricordo dei piaceri sessuali di cinquant’anni prima alle sensazioni fisiche di un esame radiologico all’addome: p. 116), ora perché è rivista, trasformata dal presente. «Un pregiudizio comune è che non possiamo cambiare il passato – tutti cambiano costantemente il loro passato, ricordandolo, correggendolo. Che cosa è successo in realtà? Una domanda priva di senso. Ma alla quale continuo a cercare di rispondere, sapendo che non c’è risposta». (I rabdomanti, p. 77). Se ci pensiamo, è un passaggio che potrebbe funzionare anche per capire uno dei libri più noti di Alice Munro, La vista da Castle Rock, dove la ricostruzione del passato scozzese delle origini si mescolava – procedendo anche qui per scansioni mentali e narrative – al memoir della propria vicenda famigliare. E vale anche per l’ultimo pubblicato, Chi ti credi di essere?, dove il recupero delle memorie della protagonista, Rose, è, nel medesimo tempo, anche una riflessione continua su quanto, ogni volta che l’io ripensa e rivede se stesso nel passato, narri a sé e agli altri, a furia di tagliare tra i ricordi, una storia sempre viva e diversa.
[Questo articolo è uscito sul «Manifesto»]
[Immagine: Margarida Paiva, Erase (gm)].
Apprendo con entusiasmo che Alice Munro ha meritato il NObel, sia perchè è una donna, sia perchè innova con il suo taglio, come dice Daniela, breve, asciutto, di universi familiari del microcosmo interiore, che improvvisamente aprono a intuizioni geniali, che stravolgono il reale, eppure sono proprio nell’ambito della ‘verità’. Le donne, in questo scorcio di secolo, innovano, aprono scenari di immaginario rimasti bloccati nella scrittura e nella semantica maschile.
Nell’analisi di Daniela si nota una conoscenza profonda della scrittura e della semantica internazionale , soprattutto canadese. Niente viene tralasciato del modo di narrare, dei contenuti e dell’esame delo stile della Munro.
E non manca nella recensione il rilievo dato a quel tocco di antropica crudeltà che chiunque può portarsi dentro. Piccole degenerazioni o subdole perversioni che si insinuano nella banalità di una vita qualunque.
Le ritroviamo, ad esempio, nella follia del padre di “Dimensioni” che assassina i suoi tre figli solo per il timore che sua moglie, rifugiatasi da una vicina dopo una semplice lite coniugale, non torni più a casa oppure nella perfidia, tutta infantile, delle due ragazzine protagoniste di “Bambinate” le quali, durante un campo estivo, si coalizzano contro una compagna troppo diversa e troppo debole oppure nell’anziana vedova di “Radicali liberi” la quale confessa al malvivente che si ritrova in casa di aver avvelenato, tanti anni addietro, la presunta amante di suo marito. Le vite scorrono e il tempo riversa il suo strato di oblio su delitti passati in silenzio o spacciati semplicemente per casi fortuiti.
Donne e bambini sembrano essere i protagonisti preferiti di Alice Munro quasi come se in questi due universi, quello femminile e quello infantile, fosse possibile rintracciare misteriose e segrete alchimie, ombre indecifrabili nelle quali la bravissima narratrice si addentra con enorme maestria. La stessa a cui ricorre per soffermarsi sui passaggi da una fase all’altra della vita: infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia.
La dimensione ridotta del racconto le permette di non eccedere mai, di soffermarsi su una storia il tempo e lo spazio necessari. Una soluzione che, chiaramente, consente al lettore di non annoiarsi neanche per un istante e di trovare, pagina dopo pagina, qualcosa di diverso e ogni volta diversamente sorprendente.
Grande Munro,grande Daniela.
Quello di Daniela, il modo di leggere, la competenza è un dono fatto a chi vuol leggere e ampliare gli orizzonti culturali dell’editoria, che si chiude sempre più nei bestseller, nell’intrattenimento vacuo e noioso, soprattutto superficiale….di successo.Alice Munro è lettura di lunga durata. Resta…