cropped-tumblr_mbwkqeklDu1rj2q96o1_12801.jpgdi Alberto Casadei

[La premessa a questa inchiesta e il saggio di Giancarlo Alfano si leggono qui]

Nel 1992, Timothy J. Reiss nel suo The Meaning of Literature proponeva di far risalire l’idea attuale di letteratura alla metà del XVI secolo, quando i discorsi religiosi e teologici di spiegazione del mondo cominciavano a essere sostituiti da quelli politici, nel filone machiavelliano, o saggistici, come nel caso di Montaigne, e poi da quelli più propriamente filosofici e scientifici. Le opere letterarie, soprattutto a partire da Cervantes e Shakespeare (ma si potrebbero aggiungere facilmente molti altri, come John Donne o Lope de Vega), cominciano a fornire una visione autonoma e credibile della realtà: essa non può ancora rivoluzionare i limiti imposti dalle varie forme di classicismo, ma di fatto li supera in più modi, spesso dotando di nuove valenze cognitive i campi metaforici (pensiamo a quello del sogno) e le azioni dei personaggi, dotati di una fisionomia sempre più complessa nell’ambito dei generi in ascesa, il proto-novel e il teatro. Potremmo anche sostenere che è da questa fase che i testi più alti invocano un’interpretazione specifica, mentre sino ad allora era sufficiente un’esegesi, che certo poteva trovarsi di fronte a passi allegorici anche complessi, ma tendeva a ricondurli a schemi noti: il caso dell’apocrifa Epistola a Cangrande è da questo punto di vista esemplare. La letteratura moderna non accettava le spiegazioni del mondo precostituite e cominciava a sondare due ambiti poi sempre più fondamentali nel suo spazio creativo, quello della multiformità del reale e quello della varietà e variabilità dei sentimenti.

Vent’anni dopo, abbiamo ormai introiettato una lunga serie di analisi allarmate o catastrofiche sullo stato attuale e sui destini di quel settore della cultura umana che da circa cinque secoli siamo abituati a chiamare letteratura. Dall’autoesaltazione e dall’apertura all’intero scibile umano, gli scrittori sarebbero passati a una tendenza autodistruttiva, ben forte a partire dalla fine del XIX secolo, secondo le ipotesi di William Marx, che ha poi anche indagato gli aspetti socialmente stravaganti della figura del letterato (L’adieu à la littérature, 2005; Vie du lettré, 2009). E se uno studioso di tanta esperienza e con tanti metodi quale Tzevetan Todorov ha indicato senza mezzi termini nel nostro sistema di diffusione superficiale della cultura un pericolo per la letteratura e per i suoi valori più forti, molti altri (da Segre a Compagnon) hanno visto nella crisi della critica e delle teorie letterarie il segno più ampio di una decadenza complessiva del sistema simbolico che aveva al suo centro l’opera scritta con intenti artistici e conoscitivi.

Tra questi poli, che potremmo definire quello dell’onnipotenzialità e quello del depotenziamento della letteratura, si deve collocare ogni discorso che oggi voglia indagare sulla sua condizione e sui suoi possibili destini. Molto spesso si adotta in questi casi un paradigma interpretativo di tipo storico-evolutivo, che porta a considerare il presente o come un miglioramento o, più spesso, come una degenerazione del passato. Sulle sue radici profonde è forse inutile tornare, dopo le tante riflessioni sui modelli progressisti o apocalittici, sul processo di secolarizzazione et cetera multa; tuttavia questo paradigma, ben applicabile in ambiti come quello tecnico-scientifico, quello economico e altri, è risultato poco convincente per le arti, essendo in effetti difficile riconoscere un progresso per esempio da Omero a Joyce: le arti accettano giudizi di valore transitòri (le mode dovute al prestigio di singoli o di gruppi) oppure perenni (quelli sanciti con la categoria del ‘classico’, e messi alla prova nelle storie letterarie, grazie anche al confronto fra i maggiori e i minori), ma non si può considerare superiore un grande autore del periodo moderno rispetto a uno dell’antichità, o viceversa, solo per la loro cronologia relativa. Risulta quindi difficile valutare lo stato complessivo della letteratura di un periodo basandosi sui meri dati storico-evolutivi.

Dobbiamo allora necessariamente adottare una griglia interpretativa molto meno rigida, di tipo scalare e non solo oppositiva, per riuscire a leggere la partita doppia che riguarda oggi, come sempre, la letteratura: ciò che essa sta perdendo rispetto alle potenzialità di un tempo e ciò che invece può essere o diventare in questa sua nuova metamorfosi. Se infatti alcuni recenti e importanti lavori teorico-storici, come quelli di Guido Mazzoni (2005 e 2011), hanno posto in rilievo alcuni nuclei fondativi della poesia e della narrativa postromantiche, a cominciare dalla capacità di rappresentare e storicizzare l’individuo umano in tutte le sue componenti, restano da esaminare aspetti di ancora più lunga durata, quelli appunto che la letteratura ha veicolato sin dalle sue origini, e che toccano aspetti biologico-cognitivi oltre che effettivamente storici. In questa prospettiva, categorie come quelle di crisi, trionfo o apocalisse risultano fuorvianti perché viziate da una valutazione implicita o comunque non formalizzata, mentre invece è necessario cogliere somiglianze e differenze senza presupporre che esse siano definitive e senza dimenticare mai che, in un sistema fluido ma coerente, l’avvento di una novità significativa costringe a riconfigurare anche il passato, come aveva già intuito Eliot proprio a proposito delle opere letterarie moderne che spingono a rileggere quelle precedenti da un’angolatura inedita.

Per cartografare il presente, bisogna allora tener conto di alcuni macrofattori, d’altronde largamente accettati. Il primo è il sempre più ampio numero di alfabetizzati a livello mondiale: la capacità di lettura è oggi un fenomeno ben più diffuso in confronto a poche decine di anni fa, e ciò vale anche se, singolarmente, sono pochi coloro che, dopo il periodo scolastico, s’impegnano nello studio attento di opere letterarie di valore. Immediatamente connesso al precedente è il fenomeno dell’editoria da bestseller: rispetto alla ben nota fase della prima industria culturale, nelle macroaziende editoriali domina adesso lo Zeitgeist del capitalismo attuale, ovvero la concentrazione degli sforzi su pochissimi prodotti che possono vendere milioni di copie, e che di anno in anno garantiscono la sopravvivenza dell’intero sistema (compresi i prodotti di pregio ma scarsamente venduti). Un terzo aspetto, ancora connesso ai precedenti, è quello della ‘selezione innaturale’ cui vengono sottoposti ora le opere letterarie: l’offerta di testi, spesso di nuovi autori, è molto alta, ma è successiva all’eliminazione di tutte le opere che non rientrano in parametri di genere, di scrittura, di pubblico potenziale che garantiscono un ritorno minimo all’editore. L’insieme di questi fattori produce intanto un primo macrofenomeno, e cioè la quasi totale impossibilità di generare una letteratura effettivamente alternativa, sperimentale nel senso più alto della parola, perché persino quella che può rientrare in questa categoria esiste solo di vita riflessa, grazie al sostegno di gruppi ristretti di lettori e critici, di fatto marginalizzati nel campo di potere attuale.

Si dirà subito che, contro questo stato di cose, si muovono i tanti gruppi che, in vario modo, agiscono nel Web e che, almeno in qualche caso, sono riusciti a farsi notare e a sostenere le loro opere, con un sistema del tutto analogo a quello delle avanguardie storiche, sia pure con altri mezzi. Tuttavia a nessuno può sfuggire che questa potenzialità funziona bene e a volte anche meglio in altre direzioni (alcuni dei bestseller degli ultimi anni sono appunto usciti dalla rete), e comunque tende ad azzerare il sistema di autorità che era stato creato negli ultimi due secoli, sulla scorta di alcuni grandi precetti umanistici: la competenza del critico di professione e quella storica dello studioso sono sostituite dall’assiduità della presenza in rete, per proporre e spesso imporre le proprie posizioni, a volte dopo dibattiti accesi, sebbene, numericamente, piuttosto ristretti. A questo livello la rete può segnalare o addirittura generare fenomeni significativi, che però diventano davvero tali se ottengono un consenso nell’effettivo sistema editoriale, in primo luogo grazie alle vendite, che di per sé costituiscono in questo momento un accertamento provvisorio di valore quanto meno sociale.

Ma al di là delle analisi dei meccanismi di produzione e diffusione, che cosa rappresenta, a livello di capitale simbolico, la letteratura attuale? Da questo punto di vista, non si può non considerare un altro macrofattore, e cioè la sempre più forte prevalenza, nella Bildung, della cultura visuale rispetto a quella scritta. È ovvio che, per ora, solo con la scrittura riescono a essere veicolati concetti e paradigmi interpretativi complessi, e non si può prevedere in tempi rapidi una sua completa sostituzione. Tuttavia, nell’immaginario collettivo la nostra storia recente rientra molto più sotto la categoria del visto che non sotto quella del letto: grandi romanzi sulla Seconda guerra mondiale, come Vita e destino di Vassilj Grossman, ma anche La battaglia di Farsalo di Claude Simon o L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, non costituiscono certo, per la collettività internazionale, degli equivalenti di Guerra e pace, mentre ciascuno di noi associa la lotta contro le forze dell’Asse alle immagini di Auschwitz o di Hiroschima oppure a capolavori cinematografici come La sottile linea rossa di Terrence Malick. Non si tratta certo, come banalmente si è ripetuto molte volte, di mera inesperienza: noi esperiamo moltissimo anche con la sola visione, anzi, gran parte delle nostre conoscenze derivano proprio dalla capacità di decodificare e imitare quanto abbiamo visto. Si tratta quindi di una modalità diversa di esperienza, che non sollecita solo la capacità di immaginare mondi possibili, ma pure quella di riviverli a livello corporeo. In questa prospettiva, la letteratura risulta ora molto più astratta di quanto non fosse considerata, per esempio, all’inizio del Novecento, e di conseguenza molte delle sue raffinate elaborazioni vengono stimate troppo sottili se non inutili.

Ecco, il discorso diffuso sull’utilità della letteratura attuale mi sembra rappresentativo della sua intera condizione: da un lato, se la letteratura non vuole essere intrattenimento, magari un po’ più nobile di altri, deve dimostrare il suo ruolo attivo, anche attraverso l’impegno o comunque attraverso le sue materie del contenuto; d’altro lato, settori della cultura adesso ben più largamente ritenuti importanti, come quelli delle scienze esatte, segnalano l’efficacia delle forme narrative e di quelle saggistiche (più raramente di quelle poetiche) per riuscire a veicolare ricostruzioni complessive delle ricerche in corso. Sono quindi esaltate due delle molte potenzialità del discorso letterario: quella demistificatoria, usata contro pratiche e comportamenti accettati e però falsi; quella mitopoietica, in apparenza opposta alla precedente ma utile quando si vuole, magari partendo da dati ricavati da ricerche rigorose, costruire un mondo possibile e non descriverne uno esistente. In questi ambiti, la costruzione letteraria si rivela tuttora più efficace di altre forme di modellizzazione del mondo, anche se non è prevedibile per quanto ciò potrà durare. La linea di tendenza nell’espansione del Web sembra quella di integrare sempre più le informazioni evenemenziali (dalle notizie del giorno a quelle relative a se stessi e ai propri social networks), e questo spinge a selezionare i bisogni del singolo sulla base di quanto è ricorrente e condivisibile. La particolarità delle opere letterarie diventa così un parametro accessorio, còlto da un ristretto manipolo di lettori, trascurabili a livello statistico o comunque da considerare residuali nei vari macroambiti.

Ricostruito lo sfondo e posti in evidenza i fenomeni che appaiono attualmente dominanti, possiamo adesso chiederci se tutto ciò ha a che fare con la supercategoria che attraversa il nostro presente, ovvero quella di globalizzazione, e se si possono individuare aspetti specifici della situazione italiana. Le risposte, ancora una volta, non possono che risultare sfaccettate. Certo, l’interconnessione dei paradigmi economici e sociali sta diventando fortissima, benché a mio avviso non si sia ancora generata la necessità di rifondare interamente l’idea che la letteratura rispecchi in primis una cultura specifica, nazionale o locale: ma senz’altro questa idea va costantemente rimotivata. In un mio contributo recente (Casadei c.s., cui mi permetto di rinviare per la bibliografia), ho fra l’altro sostenuto che non è più possibile rivendicare orgogli nazionalistici, per esempio legando l’identità italiana attuale (che è diversa da quella pre-unitaria ma anche, su un altro piano, da quella pre-massmediatica) al semplice usus linguistico. Ciò era giusto quando si doveva immaginare un’unificazione, e non a caso quello della comunanza linguistica è stato uno dei fattori identitari menzionati più di frequente da numerosi scrittori e intellettuali italiani nelle risposte a un questionario di recente (2010) proposto sulla rivista “Nuovi Argomenti”; tuttavia è facile pensare che queste siano posizioni destinate a essere superate dalle tendenze transnazionali e globalizzanti dei flussi economici, sociali e culturali. Si tratta allora di riconoscere con forza che, al momento, un’attenta lettura critica non può ancora prescindere da quegli organismi di maggiore o minore anzianità, di più o meno forte tradizione letteraria, ma comunque riconoscibili che sono le nazioni: semmai, la prospettiva comune, intanto europea, sarebbe quella di valorizzare insieme le differenze, come ha ricordato più volte Zygmunt Bauman. Perciò gli studiosi delle letterature nazionali non potranno non avere uno sguardo strabico e non potranno non rimettere in discussione addirittura i valori da tempo acquisiti: per fare un esempio macroscopico, la specificità concretissima e storicamente nostra (sebbene pre-italiana) di Dante risponde adesso molto meglio alla varietà del reale dell’intero mondo post-Shoah, rispetto all’astrazione di Petrarca, nonostante che per molti secoli sia stato vero il contrario.

Ciò detto per delineare almeno uno degli aspetti attualmente in gioco, tra buona e cattiva globalizzazione, è chiaro che i consueti ritardi o provincialismi di cui accusiamo i nostri autori dipendono ora più che mai dall’incapacità di affermare modelli significativi in campo internazionale, come era successo nei primi anni Ottanta soprattutto con Calvino e Eco, non a caso ben traducibili ed esportabili. Ma lo scarso successo interno di scrittori di notevole valore deriva dalla mancanza di un pubblico capace di sostenerli adeguatamente e questo indebolisce poi la possibilità di proporli con efficacia (magari quella delle vendite qualitativamente significative) al di fuori del territorio italiano. In questo momento, la nostra cultura nel suo insieme non produce strutture artistico-simboliche (discorso a parte è quello del design) in grado di interessare un pubblico mondiale, che pure è disposto a leggere opere di qualunque tipo e su qualunque argomento. Non si tratta solo di aspetti linguistici, come ossessivamente ripetono cultori fuori tempo massimo di modelli avanguardistici obsoleti, bensì di una sostanziale passività nella lettura del presente: forse, a livello letterario, risulta negativamente decisivo il fatto di non riuscire a introdurre nelle scuole secondarie l’interpretazione almeno della fase iniziata con gli anni Sessanta, ossia i prodromi postmodernisti dell’attuale società liquida, per rifarci a una terminologia largamente provvisoria.

Come si vede, da queste considerazioni si possono evincere alcuni elementi che di solito non vengono connessi direttamente alle analisi sul campo letterario attuale. Il primo è quello relativo alla rimodulazione degli accenti fondamentali della creatività e del fare letteratura: se per esempio sembrano sempre meno condivisibili paradigmi eccessivamente complessi, citazionismi autoreferenziali, snobismi di ogni ordine e grado, ovvero molti degli aspetti fondativi del tardo modernismo e del postmodernismo, è altrettanto vero che la capacità demistificatoria e quella mitopoietica della letteratura possono essere impiegate a nuovi fini, quasi sempre in testi diversamente orientati, ma a volte, come nel caso di Don DeLillo, nello stesso testo. Se vengono a esaurirsi, perché ormai storicamente iper-sondate, molte delle possibili fonti di scrittura del Novecento (l’inconscio psicoanalitico e i suoi traumi; il disagio della civiltà; l’esistenzialismo nelle sue varie accezioni; ecc.), se ne aprono altre, legate per esempio all’analisi della vita come pura vita, ovvero dell’essere situati nel proprio tempo senza nemmeno pensare allo zenit e al nadir della cultura dell’Occidente sino a pochi decenni fa, l’origine e la fine. Persino categorie come quelle di realismo e di antirealismo o quelle di comico e di tragico, applicabili con diverse declinazioni e fin dall’antichità alle letterature europee e poi addirittura a quelle mondiali, vanno adesso profondamente ripensate, per tornare a essere produttive.

Personalmente credo che, se si riporta la letteratura ai suoi fondamenti cognitivi, possano emergere le modalità per trovare sue nuove funzioni, che non siano subordinate ma interagenti rispetto ai modelli socio-culturali ora più forti. Un ambito di riflessione molto importante sarà quello del rapporto fra inventio e stile, non più intesi come fase oscura e insondabile della creazione e come scarto rispetto a una norma, bensì come tensione a realizzare una rappresentazione del mondo che sia individuale e insieme condivisibile: gli stili sarebbero quindi delle interfacce tra il microcosmo inconscio e conscio dell’io e il macrocosmo degli altri, interfacce in grado di attribuire una forma originale agli aspetti del reale ‘normalmente’ organizzati in altro modo (per una discussione analitica, cfr. Casadei 2011). In questa prospettiva, non importa più che il medium del ‘letterario’ sia unicamente la scrittura: anzi, le sperimentazioni dovrebbero andare verso l’integrazione intermediale, non secondo il modello sin troppo semplice degli ipertesti, bensì secondo quelli più tipici delle scienze cognitive, graduali e arricchiti, che possono creare sinapsi significative tra arti sinora separate senza perdere il primum del letterario, ossia l’elaborazione di un’immagine del mondo culturalmente spessa. Solo in questo modo la tendenza all’espansione illimitata dell’informazione e dell’informatizzabile, paradigma del campo di forze culturale attuale, potrà recuperare alcuni aspetti di fondo che hanno caratterizzato l’evoluzione della letteratura, in particolare quella dell’assegnare un valore alle modellizzazioni del reale non scontate a livello stilistico e gnoseologico, tipiche delle grandi opere di tutti i tempi.

Bibliografia di riferimento

Auerbach E., Philologie der Weltliteratur – Filologia della letteratura mondiale, testo orig. (1952) e trad. it. Book editore, Castelmaggiore (Bologna) 2006

Beck U., Lo sguardo cosmopolita (2004)trad. it. Carocci, Roma 2005

Benvenuti G.-Ceserani R., La letteratura nell’età globale, il Mulino, Bologna 2012

Carabba C. (a cura di), Là dove il sì suona. 98 scrittori e 10 domande sull’essere italiani, fasc. monogr. di “Nuovi Argomenti”, 53, genn.-mar. 2010

Casadei A., Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2007

Id., Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, B. Mondadori, Milano 2011

Id., Stati instabili, non caotici: sui rapporti attuali fra letteratura e nazionalità, c.s.

Compagnon A., Il demone della teoria (1998)trad. it. Einaudi, Torino 2000

Damrosh D., What is Global Literature?, Princeton U.P., Princeton 2003

Marx W., L’adieu à la littérature, Minuit, Paris 2005

Id., Vie du lettré, ivi 2009

Mazzoni G., Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005

Id., Teoria del romanzo, ivi 2011

Mirzoeff N., Introduzione alla cultura visuale (1999), trad. it. Meltemi, Roma 2005

Patriarca S., Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Roma-Bari, Laterza 2010

Reiss T.J., The Meaning of Literature, Cornell U.P., Ithaca (New York) 1992

Said E.W. Cultura e imperialismo (1993), trad. it. Gamberetti, Roma 1998

Segre C., Notizie dalla crisi, Einaudi, Torino 1993

Id., Ritorno alla critica, ivi 2001

Settis S., Futuro del ‘classico’, Einaudi, Torino 2004

Todorov T., La littérature en péril, Flammarion, Paris 2007

Id., La bellezza salverà il mondo, trad. it. Garzanti, Milano 2010

[Immagine: Candida Höfer, Sala conferenze (gm)].

 

8 thoughts on “Sul futuro della letteratura/2. La letteratura non depotenziata

  1. E’ curioso che in una riflessione sulla letteratura come quella che delinea Alberto Casadei non vi sia alcun riferimento a Francesco De Sanctis, che pure è una personalità fondamentale sia nella costruzione della nostra identità nazionale sia nella definizione dell’idea di letteratura. Proverò allora a colmare la lacuna tracciando un breve profilo del grande storico e critico letterario sottolineando due aspetti fondamentali che conferiscono una straordinaria attualità alla sua lezione.
    In primo luogo, per De Sanctis la realtà storica è concreta soltanto se include in sé il momento ideale. Il critico irpino si riallaccia, in tal senso, a una tradizione italiana che va da Machiavelli fino a Manzoni. Non è vero realismo quello che non contempla il momento attivo, ideale, etico, che innerva anche la stessa azione politica. Il secondo aspetto per cui l’opera di De Sanctis è cruciale per l’identità italiana è ovviamente connesso alla sua opera di storico e di critico della letteratura italiana. Con De Sanctis abbiamo, infatti, la costruzione del paradigma della letteratura italiana, l’‘invenzione’, se così si può dire, della letteratura italiana, che prima di lui non esisteva. Egli compie questa operazione con una consapevolezza molto forte, sostenuta dai suoi stretti legami con il pensiero tedesco, comuni, peraltro, a larga parte della cultura napoletana dell’800. De Sanctis sapeva che Italia e Germania erano, e sono, delle ‘nazioni tardive’, ma erano, al tempo stesso, le prime nazioni d’Europa dal punto di vista dell’unificazione linguistica. Anzi, l’Italia precede la Germania grazie all’opera di Dante, che ha fatto del volgare toscano il modello della lingua nazionale del ‘Bel Paese’. Col volgare si cominciano, così, a trattare le questioni alte, che coinvolgono i valori supremi, e non solo i temi della vita quotidiana. La Germania arriverà più tardi all’unificazione linguistica con la traduzione della Bibbia fatta da Lutero in tedesco (anche qui l’unificazione linguistica precede la formazione della nazione politica). L’Italia e la Germania sono, pertanto, agli antipodi del modello francese dove l’unificazione linguistica avviene attraverso l’intervento del potere statale, che dall’alto provvede a introdurre la lingua nazionale all’interno della società. Da Machiavelli a Manzoni, passando attraverso Giambattista Vico, si ritrova in De Sanctis l’idea di una riforma intellettuale e morale e, organicamente connessa alla prima, l’idea dello Stato non come mero ‘guardiano notturno’, ma come promotore del mi-glioramento delle condizioni sociali e culturali della nazione (è evidente la matrice hegeliana del pensiero desanctisiano: il ruolo centrale che devono svolgere le forze intellettuali e la crucialità della scuola e dell’istruzione pubblica per la formazione della nazione, per la costruzione dello ‘spirito nazionale’). I valori della patria che De Sanctis sviluppa sono così strettamente collegati ai valori della libertà, che non è difficile cogliere il nesso che unisce De Sanctis al razionalismo laico e alla tematica europea. Orbene, la cultura laica europea di De Sanctis si forma attraverso la presa di distanza dal purismo di Basilio Puoti e attraverso la lettura dei testi dell’illuminismo fran-cese e italiano. La connotazione precipua della cultura laica concepita e realizzata da De Sanctis consiste nell’essere una sorta di ‘religione civile’, all’interno della quale sia i laici che i credenti devono potersi ritrovare. De Sanctis era convinto che la battaglia da condurre era quella contro il ‘particulare’ di Guicciardini, per una rivalutazione di Machiavelli come precursore dei tempi moderni dell’Europa e come il primo grande intellettuale europeo che scopre una politica la cui anima è la ‘religione civile’. Sotto questo profilo, è lecito osservare che l’Italia non è stata la patria di Machiavelli, ossia dell’autore che aveva provato a inventare l’idea di una ‘religione civile’ repubblicana, bensì la patria dei Guicciardini o dei Savonarola, che è quanto dire del ‘particulare’ o della ‘Gerusalemme celeste’. Ecco perché la prospettiva etico-politica e scientifico-culturale di De Sanctis si colloca in maniera profonda all’interno della storia italiana e fa del critico irpino un au-tore profondamente italiano e per questo profondamente europeo ed internazionale. Dopo De Sanctis non possiamo più pensare la cultura italiana, la letteratura italiana, ma anche la politica e il pensiero italiani, così come erano pensati prima. De Sanctis è un punto di svolta fondamentale, che è necessario conoscere e approfondire per proiettare il patrimonio culturale della nazione su scala europea. Giacché, ancora una volta, il nostro essere europei o è legato profondamente alla tradizione nazionale o non è.

  2. Come sempre molto stimolanti, le riflessioni di Casadei.
    Una bella scommessa quella di tentare la ricerca di un baricentro nell’integrazione tra le modalità di rappresentazione di vari media, lasciando però da parte l’ormai stucchevole e credo dannosissima retorica degli ipertesti: il punto oggi è proprio trovare un fattore aggregante di schemi interpretativi e informazioni, non compiacersi del caos e dell’anarchica liberazione prodotti dalla simultaneità e reticolarità rizomatica. Altrimenti corriamo sempre il rischio che qualche imbecille chiami “multitasking” quello che semplicemente è “perenne distrazione”, come notava non so più chi.

    Urge il bisogno di trovare quadri interpretativi nuovi dentro cui collocare il materiale letterario offerto nelle scuole. La “rifondazione cognitiva” (se posso chiamarla così) proposta da Casadei mi pare una via molto interessante.
    Una distinzione fondamentale della psicologia dell’apprendimento è quella tra apprendimento meccanico e a. significativo. Non dico né che ciò sia un bene né un male, né che sia un’evoluzione o un’involuzione, ma sta di fatto che alcuni concetti e categorie dell’umanesimo tradizionalmente ripetuti da noi insegnanti oggi possono essere appresi solo in forma meccanica, cioè appiccicati lì giusto per l’interrogazione o l’esame. Manca l’aggancio con la struttura cognitiva dello studente, che sola renderebbe possibile l’apprendimento significativo. Un esempio (qualsiasi). Spiegare che Poliziano costruiva le sue poesie come raffinatissimi centoni di poeti precedenti è quasi arabo, perché mancano l’esplicitazione di alcuni presupposti, che fondano un’affermazione così piena di impliciti culturali: l’idea che una forma tradizionale sia una modalità di espressione superiore alla “spontaneità” personale (fino a poche generazioni fa le preghiere insegnate ai bambini erano le litanie ripetitive standard – Ave Maria piena di grazia, ecc.. – e si studiava a memoria una poesia, oggi si enfatizza invece la preghiera “libera” e non si studiano poesie a memoria: la ripetizione di una forma costituita appare falsa); un modo di praticare la poesia entro cenacoli ristretti in cui la capacità allusiva e il gioco d’intarsio erano raffinatissimi piaceri intellettuali, che producevano una poesia di genere non effusivo e soggettivo, ma formale e imitativo (ragione per la quale è fondamentale sviscerare il nodo della rivoluzione romantica, della nascita della poesia come “espressione di sé”, dell’identificazione della poesia lirica con la poesia tout court: da quello si può poi tematizzare e comprendere più a fondo la poesia formalistica precedente, italiana, latina, …: per capire perché una volta tutti ripetevano l’Ave Maria e credevano di pregare così facendo, prima devo storicizzare e relativizzare – cioè comprendere, guardarlo da fuori – il “nostro” modo di pregare e leggere poesie); la comprensione del rapporto che, sempre, nella produzione linguistica, si stabilisce tra ripetizione di lacerti precostituiti e creazione idiolettica di nuove combinazioni, ma anche molto altro…
    Non so se Casadei pensi a qualcosa di simile, parlando di centralità dello snodo degli anni Sessanta, crogiolo di categorie che ci permetterebbero di comprendere ampie porzioni dell’attuale sistema della cultura.
    Questi snodi storici fondamentali, anche organizzati per opposizioni concettuali forti e manichee (appunto poesia soggettivistica VS poesia formalistica: si può complicare la faccenda dopo, scendendo nella concretezza storica, nello studio del singolo poeta o poesia: prima si deve costruire un quadro concettuale chiaro) mi paiono essenziali per ridare salienza a programmi di letteratura che rischiano sempre di più di perdere coerenza e cogenza. Forse in Italia, perso il modello storicistico desanctisiano, per la storia letteraria, e l’intuizionismo crociano, per la lettura dei testi, tutto quello che si è succeduto dopo (sociologismo marxista, formalismo strutturalista, …) non è mai riuscito a fare sistema, per diecimila ragioni di costruzione della professionalità degli insegnanti che non è il caso qui di indagare, creando piuttosto ibridi e ircocervi non sempre belli a vedersi, che durano tuttora.

    Altra chiosa didattica, sul realismo. Anche a me pare una categoria essenziale, su cui sarebbe necessario costruire un percorso tematico complessivo, ma anche storicamente dettagliato (Auerbach, Dante, romanzo dell’Ottocento – le discussioni su naturalismo e verismo acquisterebbero una evidenza concettuale tutta nuova, inserite in un discorso così articolato -, arte figurativa VS arte non più figurativa, dibattito attuale sull’autofiction etc…).
    Aneddoto. Un collega, anche fumettista, che lavora alle elementari, mi raccontava lo stupore completo dei bambini davanti a corti in bianco e nero (cartoni animati) con personaggi stilizzati e tendenti alla deformazione grottesca (teste che si allungano, bizzarre azioni inverosimili come il restare sospesi a mezz’aria per qualche minuto su un burrone prima di piombare giù sostituiti da una nuvoletta che nella realtà non è dato vedere – ricordare Will Coyote? -, …). In effetti, se ci pensiamo bene, oggi i cartoni con immagini computerizzare tendono all’iperrealismo, al particolare maniacalmente dettagliato, … Pixar & co. stanno modificando radicalmente l’immaginario delle future generazioni e il punto è poi sempre quello del rapporto tra realtà e sua rappresentazione. Sì, sarebbe il caso di rifletterci bene su.

    @ Casadei: non so se sono riuscito a spiegarmi. Mi rendo poi conto di avere davvero banalizzato le sue parole, mi voglia perdonare: è che per noi insegnanti di secondaria i problemi da risolvere sono di natura sempre piuttosto grossolana, molto molto pratici… Inoltre, è evidente che cose del genere, nella scuola, son tutte da costruire, perciò per ora temo che possiamo solo parlarne.

  3. Solo una breve precisazione per sottolineare che il mio intervento era qui legato al tema “futuro della letteratura”. Dell’importanza di De Sanctis anche nel contesto attuale parlo nell’altro mio contributo in corso di stampa “Stati instabili, non caotici: sui rapporti attuali fra letteratura e nazionalità”, relazione a un convegno sul tema “Letteratura e nazionalità” che si è tenuto a Torino un anno fa.

  4. Francesco De Sanctis ha incarnato un modello ideal-tipico di intellettuale fondato sul nesso inscindibile tra politica e cultura: un modello che va recuperato e riproposto a tutti i livelli (e quindi a partire dal livello fondativo dell’insegnamento della letteratura italiana nella scuola superiore). Il grande critico irpino ha dato vita ad un’opera che si può considerare emblematica, in senso etico, politico e culturale, della rinascita nazionale italiana. Ma, oltre alla “Storia della letteratura italiana” considerata da René Wellek “un autentico capolavoro della storiografia letteraria”, la urticante attualità di De Sanctis può essere riconosciuta nel saggio “L’uomo del Guicciardini”, laddove Guicciardini è per il De Sanctis il prototipo dell’intellettuale italiano colto e raffinato, intelligente e sapiente, ma rivolto unicamente alla cura del proprio interesse personale, del proprio “particulare”, capace, sì, di individuare la via giusta, ma “impotente” a percorrerla. All’“uomo italiano” della decadenza si contrappone dunque l’“uomo italiano” del Risorgimento, che non esita a schierarsi e a combattere. Se poi si volge uno sguardo ai problemi tuttora aperti nel nostro Paese – unità e indipendenza nazionale, ceto politico mediocre e autoreferenziale, questione sociale riemergente, analfabetismo di ritorno, funzionamento delle istituzioni educative e formative, rilancio della ricerca scientifica e tecnologica, difesa dell’ambiente, sviluppo di una cultura moderna -, non è difficile rendersi conto che essi sono i problemi tipici di una “nazione incompiuta”, che ha un bisogno vitale di riconoscersi nella sua migliore tradizione democratica, recuperando e sviluppando la lezione di ‘intellettuali-politici’ come Francesco De Sanctis e di ‘politici-intellettuali’ come Antonio Gramsci.

  5. @Daniele Lo Vetere. Anzi, grazie per i tanti esempi concreti che, come di consueto, proponi! In poche parole. Io credo che la ricchezza cognitiva di un testo letterario si debba far scoprire gradualmente nelle scuole superiori. Si può partire da qualunque punto, un tema, un periodo, un genere, ma si deve arrivare poi a obiettivi che non siano quelli piattamente ministeriali, bensì la creazione di competenze individuali a vari livelli: dalla comprensione alla capacità interpretativa alla valutazione. Su questo stanno lavorando gruppi di docenti collegati all’ADI-Scuola e anch’io ho fornito qualche spunto, nel senso che indicavo. Uno di quelli che mi sembra più importante è legato alla difficoltà: se non si impara a far comprendere il valore aggiunto di testi letterari complessi, qualunque discorso sull’importanza della letteratura rischia di disperdersi nell’oceano della comunicazione di massa, dello storytelling, dell’ipertestualità (nel senso negativo del termine). Una scuola che non riesce almeno a provare a leggere, al termine di un percorso, “La primavera hitleriana” o “Il partigiano Johnny” non ha sviluppato tutte le sue potenzialità. Ovviamente, bisogna garantire a tutti capacità e competenze di base, ma anche la sfida di capire perché testi come quelli ‘dicono di più’ deve essere affrontata, soprattutto per combattere la deriva del pensiero facile, che è ormai totalmente pervasivo. L’interpretazione come riscrittura di wikipedia è spesso l’orizzonte in cui si muovono molti studenti: e gli esiti si cominciano a vedere a tanti livelli.
    Sul realismo non torno, sennò mi ripeto troppo. Diciamo che a me sembra che, nei dibattiti letterari, si sia spesso ancorati a presupposti ottocenteschi, anche se a parole abbiamo tutti introiettato i cambiamenti del XX e del XXI secolo.

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