cropped-Fahrenheit-451-300-PI-1.jpgdi Angelo Ferracuti

[Questo articolo è già uscito sul «manifesto»].

Che in Italia in questo venticinquennio non ci sia stato un blocco culturale capace di avversare la cultura neoliberista e lo scempio berlusconiano è fuori di dubbio. Ma non per sua debolezza strutturale, per mancanza di strumenti, bensì perché non c’era nella realtà, mancava di protagonisti coraggiosi, di uomini liberi, veramente indignati, pronti a dare battaglia, fare opposizione nei luoghi che contano dove si produce senso e consenso (editoria, radio, televisione, cinema). Anzi, dell’antiberlusconismo in alcuni casi molti di loro hanno fatto persino un mercato. L’ho sempre pensato, lo pensano in molti, ma ieri Andrea Bajani ha avuto il coraggio di scriverlo in modo molto chiaro sul quotidiano “La Repubblica” a proposito del mondo dei libri. Quale è la tesi di Bajani, scrittore di punta dell’Einaudi e uno dei nostri migliori in assoluto, che fa questa riflessione partendo da un libro di Giuseppe Culicchia fresco di stampa rivolto a un giovane autore (E così vorresti fare lo scrittore, Laterza)? La scelta di quell’editoria che nasce di fatto negli anni ’80 dalle macerie delle ideologie, cresce insieme con tutti gli altri mercati che vanno verso la globalizzazione, ha aumentato in maniera esponenziale la produzione di merci, cioè tonnellate di libri a volte inutili, senza nessuna urgenza, formale e morale, scadenti letterariamente, in questo quarto di secolo cosa ha fatto per costruire davvero un progetto culturale alternativo? Niente. Infatti, questa è la risposta che si dà: chi legge male, elegge male. Parafrasando il Nanni Moretti di chi parla male, pensa male. Altro che le televisioni di Silvio Berlusconi! Quelle sono solo un alibi che bisogna abbandonare, non è utile.

Ha ragione da vendere, e richiama a una responsabilità civile non solo coloro che in questo paese si occupano di libri, ma chi di fatto è un intellettuale organico al sistema, prestato al mondo dell’informazione, della comunicazione, della cultura, e registra semplicemente quello che è accaduto e continua ad accadere senza nessuno scandalo, in un teatrino dove quasi tutti gli intellettuali partecipano attivamente con narcisistiche e imbarazzanti saghe dell’autopromozione, stucchevoli e mondane serate ai premi letterari, truffaldini quanto la torbida, putrescente politica italiana. Un mondo consociativo che non ha più limiti e steccati, ma che riguarda, a parte qualche eccezione, anche giornalisti, conduttori televisivi, politici, e che in questo ventennio non ha risparmiato neanche i redattori delle case editrici, piegati all’ossessione dei budget, strozzati dalla violenta, frenetica macchina industriale obbligata a produrre successi, e a vendere a tutti i costi libri che molti di loro persino detestano: la favoletta del cantante rock, l’omelia del Cardinale, il sermone del mistico, il romanzo storico ultra-colto e a trama sofisticata del noto intellettuale (che a volte è proprio quello che nel ‘63 stanava le Liale), il diario della minorenne adultera. Libri di cui non sentivamo il più delle volte il bisogno, ma “che funzionano”, “si fanno leggere”, sono “belle storie”, “attraggono”, tutti con l’ossessione della trama, ideologia di un pensiero autoritario della lettura, scritti e già pronti per diventare film, quindi moltiplicare (si spera) i profitti. Libri leggeri di intrattenimento spesso addomesticati, vampirizzati da abili editor, scritti da autori che mirano solo al successo economico e personale, in una idea tutta manageriale della letteratura commerciale di consumo. Libri che scalzano quelli veri, sommergono i più sorprendenti, i più feroci, i più torbidi, quelli dove c’è ancora una componente molto alta di letterarietà, di visione, di cattiveria, tutti ottimi anticorpi per lettori desiderosi di nutrimenti. E’ la chiara rappresentazione di un mondo dove le merci hanno umiliato la cultura, uno stato di cose tale che, se così perdurasse, non farebbe intravedere nessuna possibilità di catarsi, ma solo ulteriori imbarbarimenti, estetici e sociali.

Con qualche eccezione anche molto significativa. Perché se ancora si stampano autori come Michele Mari, Antonio Moresco, Franco Arminio, tanto per citarne alcuni, e qualcuno pensa addirittura di fare un libro di 800 pagine raccogliendo le prose migliori di Luigi Di Ruscio, un autore assolutamente elitario, commercialmente sconveniente, è segno che anche dentro le case editrici maggiori è in atto un conflitto tra chi ragiona solo con le cifre, e chi intende coniugare i numeri con la qualità, e magari progettare anche un catalogo, come si faceva ai tempi di Vittorini e Calvino all’Einaudi, Bianciardi e Bassani da Feltrinelli, Vittorio Sereni da Mondadori. Forse sarebbe il momento, come ben ha fatto Bajani, di ricominciare a interrogarsi, a sviluppare pensiero critico, e a far sì che questo conflitto si manifesti in modo più eclatante in termini di dibattito pubblico.

Comunque sia sulle questioni da lui evocate aveva già scritto in presa diretta sui tempi già Paolo Volponi nel 1989, inascoltato, in quel capolavoro che è Le mosche del capitale: “Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà raccontare mai niente di me!” Sentenziava in quel libro profetico Bruto Saraccini, quel Don Chisciotte alter ego dello scrittore. Il resto è una normale, quanto prevedibile, conseguenza.

Tutto questo ha a che fare con una mutazione profonda, per molti dovuta allo stato del capitalismo planetario di oggi che considerano invalicabile, eterno, in cui al massimo si può far crescere il peggio per conservare un po’ del meglio, questa è l’ideologia portante, contro cui Bajani ha il pregio di nominare e porre degli interrogativi, di indignarsi da cittadino di un paese che affonda nei suoi vizi antichi, e nella scarsa propensione civile dei suoi intellettuali, pavidi, terribilmente narcisi e carrieristi. Un paese dove la cultura non è più lo strumento del comunicare e del capire, quello che ha alimentato febbrilmente il nostro immaginario e le nostre passioni negli anni giovani, e saziato il senso critico, ma un ornamento, una foglia di fico. Un paese dove gli insegnanti non leggono più e non se ne vergognano, e gli amministratori dei tanti comuni, delle molte città, dovrebbero chiamarsi solo Assessori allo Spettacolo, perché anche loro sono stati avvelenati dal reality e cercano l’audience, il nome di richiamo, l’evento, per paura di essere impopolari. Tutto il resto, quello che fa pensare, si sa, è “difficile”, “noioso”, “impegnativo”, meglio restare in una apatica superficialità a-conflittuale. Viviamo in un paese senza, per l’appunto, dove si produce solo cinismo di massa, pieno di tutte quelle culture nefaste che non hanno più un avversario sul campo della dialettica sociale, e che potentemente producono senso e consenso, avvelenandoci la vita.

Quando è uscito il mio ultimo libro, durato anni di fatiche, ho pensato davvero quello che scrive Bajani, cioè che era diventato un periodico. Vive tre mesi, poco più, oggi un’opera di letteratura, come un qualsiasi prodotto da banco che si affida al mercato, poi scade per sempre. Escono le recensioni, vieni invitato a parlarne alla radio, fai qualche presentazione in pubblico, poi il ciclo si interrompe, non c’è più tempo, c’è già un altro autore che cerca il suo mercato, a meno che non lo tieni in vita il tuo libro, come sto facendo, girando come un pazzo per l’Italia. Ma è un mercato sempre più al ribasso, dove in cima alle classifiche ci sono libri che mi vergognerei di aver scritto. Senza lingua, senza letteratura. Libri a perdere, che una volta letti si possono buttare nel cassonetto come le lattine di coca cola. Libri di non editori scritti per non lettori, come direbbe un narratore che amo, Claudio Piersanti, da sempre lontano da questo teatrino, il quale disse una volta che l’unica cosa che manca drammaticamente in questo paese sono gli autori, cioè quegli scrittori capaci di visione, di sguardo, quelli che hanno un’idea forte del mondo. Tra i tanti falsificatori, manipolatori di trame, insegnanti di scuole di scrittura creative, non se ne vedono molti all’orizzonte.

[Imamgine: François Truffaut, Fahrenheit 451 (gm)].

 

14 thoughts on “Se questo è un libro

  1. “Vive tre mesi, poco più, oggi un’opera di letteratura […] poi il ciclo si interrompe, non c’è più tempo, c’è già un altro autore che cerca il suo mercato”

    Quindi se capisco bene il Suo problema è quello di dover condividere la fama e il palcoscenico con gli altri? Non le bastano i suoi quindici minuti di celebrità?
    Se questo è quello che incupisce così tanto gli scrittori di oggi che tre mesi sono anche troppi.

  2. Il discorso è ben più complesso, La Sua è una scorciatoia velenosa incomprensibile. Guardi, sinceramente Le risponderei ben volentieri se Lei avesse il buon gusto mostrare, come ho già fatto io sul quotidiano Manifesto e qui, il Suo nome e cognome, senza nascondersi come un pavido, quanto ridicolo, commentatore astioso, tal The Real Guy. Si manifesti ed esterni a nome e cognome scoperti per intero i suoi convincimenti, caro Signor Nessuno.

  3. “Tutto il resto,quello che fa pensare, si sa è difficile,noioso,impegnativo,meglio restare in un’apatica superficialitá a-conflittuale”

    Quanto sono vere queste parole! Quanto é più facile affrontare la vita senza viverla, lasciandosela indifferentemente scorrere accanto e prendendone solo quanto di più comodo e conveniente possiamo, immersi in problemi inesistenti, cercatori di quel brivido momentaneo e fulmineo che nulla potrebbe lasciare in noi se non un vago ricordo lontano, posseduti da una patetica e inumana “curiositas apuleiana” che ci rende vogliosi di tutto e niente. Nonostante la mia giovane età e la mia scarsa esperienza del mondo riscontro banalmente tutto ciò nelle relazioni ( soprattutto amorose) che vedo ” consumarsi” nei giorni nostri tra i miei coetanei( io in primis talvolta), e non solo. Questa squallida voglia di avere tutto e subito, porta anche ad una facilità di controllare i rapporti amorosi col rischio che si degradino; una libertà sessuale così esasperata tende a fare arraffare e promuovere amori fugaci che nella desertificazione del futuro che tanto ci terrorizza vogliono farci godere dell’ora,del qui, rendendoci (in)volontariamente incapaci di amare, soffrire, vivere.
    Purtroppo,(ma io preferisco per fortuna),la vita é il “piacevole qui”, lo “spensierato ora”, ma sono soprattutto la solitudine dell’oggi, la malinconia del domani e la sofferenza del poi a farci vivere un “grandioso qui”, un”indimenticabile ora” . Vivere superficialmente secondo l’inflazionato è travisato motto tramandatoci da Orazio “carpe diem”, non può che restituirci quanto ci promette: l’euforico orgasmo di un momento e lo schiacciante “niente”del futuro.

  4. Sottoscriverei ogni parola del suo intervento.
    C’è una responsabilità tetra e maleodorante che ci coinvolge tutti: lettori, autori, editori, librai, distributori…
    C’è una resa che ha anestetizzato questo paese. E parte dalla scuola.
    Concordo con Lei. Mi chiedo se resistere basti.

  5. Caro Ferracuti ( io non mi firmo, cmq lascio una mail, sono una persona qualunque ), io rimango sempre molto perplesso di fronte a questi articoli e in generale ogni volta che si parla di crisi editoriale, perché mi pare che non ci sia mai una vera e propria analisi, non dico scientifica ( Bajani è a conoscenza di uno studio sui tassi dei refusi o parla per impressioni? Non è una provocazione ), ma nemmeno accurata della situazione. Ti faccio un esempio: io non lavoro e non ho reddito, leggo molto e ho deciso di spendere di meno e di prendere più libri in prestito in biblioteca. Questo non ha nulla a che vedere con le scelte editoriali, ma viene registrato ugualmente come un calo dei profitti. Altro esempio: c’è una correlazione dimostrata tra il minor tempo di permanenza dei libri in libreria e le loro vendite, considerando i canali mediatici odierni? La libreria è ancora il luogo che determina le scelte dei lettori? Per me non è così, e invito i lettori di LPLC a esprimersi in merito. Si può anche fare una riflessione sulla quantità di tempo dedicata alla lettura a fronte di altri svaghi, come la tv e soprattutto internet. La parte degli esordienti: è possibile sapere la percentuale di esordienti pubblicati ogni anno in rapporto ai manoscritti degli esordienti arrivati e in rapporto alle pubblicazioni totali, quindi comprendenti anche scrittori già editi? Può qualcuno che lavora in case editrici parlare delle proprie esperienze e dire che non so, dieci anni fa un esordiente lo si bloccava di più in attesa di una seconda opera migliore? Perché è più desiderabile un libro che venda 100 piuttosto che 5 libri che vendono 20? Perché a fronte di una quota di lettori che per almeno una ventina di anni ( dico per dire ) non aumenterà significativamente è preferibile che non aumentino il numero di scrittori editi? Senza contare che non vedo come sia possibile pianificare una situazione del genere. Vorrei far notare inoltre che dagli anni Settanta a oggi il numero dei lettori è costantemente aumentato, in rapporto maggiore a quanto è aumentato rispetto ai paesi con un numero maggiore di lettori in rapporto alla popolazione, e che solo negli ultimi dieci anni c’è stata una stabilizzazione. Non è contraddittorio dire che è sbagliato pubblicare inseguendo il profitto se poi si considera un problema che i libri vendono di meno perché c’è troppa concorrenza? Non può essere che semplicemente vengono scritti molti più libri di anni fa e molti di più meritevoli di pubblicazione? Come si fa a partire dal presupposto che a questo paese sia successo qualcosa, come se ci fosse stato un prima migliore, senza oltretutto mostrare come era davvero fatto questo prima? Mi pare che l’esordio di Svevo fosse pubblicato a puntate su un quotidiano locale senza neanche curarsi che la stampa fosse interrotta alla fine di un periodo o di una frase.

    In sostanza, se si vuole stampare un libro di 800 pagine di Di Ruscio si tirano fuori i soldi e lo si stampi, ma non vedo cosa c’entrino la società e il capitalismo.

  6. @Ferracuti

    Non vedo in cosa il nome e il cognome stampati sulla mia carta d’identità possano aiutarla a capire meglio quello che scrivo. Sono falsi anche loro, tanto quanto questo pseudonimo e attestano con pari forza il fatto che sono e resto, come lei dice, un Signor Nessuno. Come lei e tutti gli altri, del resto.

    Per tornare sulla questione, le ho solo comunicato l’impressione che la lettura priva di pregiudizi e molto simpatetica del suo saggio ha lasciato in me. Da quello che ha scritto, non apportando (come scrive giustamente @Dwf vs Jf) nessun dato numerico e nessuna reale prova di quello che scrive, ho avuto l’impressione che il solo problema fosse il fatto di dover condividere la visibilità in libreria con altre persone.

    Non capisco cosa c’entri il sistema di distribuzione e di vendita del libro con la qualità della letteratura prodotta. Il cinema adotta questo principio per la distribuzione e la vendita di film da anni eppure dire che non esistono bei film sarebbe ridicolo.

    D’altra parte la presunta decadenza del mercato editoriale, almeno in termini quantitativi non esiste. Un buon libro, un grande classico antico o contemporaneo resta un longseller, tanto che le grandi case editrici debbono assicurarsi una quota di longseller se vogliono restare a galla. E le comete che si spengono in un mese trainano gli altri. Le posso assicurare che Flaubert, Dostoevskij, Melville ma anche Roth, DeLillo, Houellebecq o Munro vendono moltissimo. E come ha scritto @Dwf vs Jf nel passato spesso le condizioni di distribuzione della letteratura erano molto più dure e peggiori di quelle attuali.

    Il resto, mi sembra, sono lamentele di chi non vuole arrendersi a un mondo che ha trovato altre, nuove forme, altrettanto interessanti e ricche di quelle di un passato (spesso tutto immaginario e mitizzato), di pensare, immaginare, costruire se stesso e la realtà circostante.

  7. Gentile Ferracuti, per quanto riguarda la scuola credo che occorra soprattutto questo: assumere come nostra inemendabile condizione storica la superficialità da lei denunciata. Le letture dei ragazzi, oggi, se ci sono, sono superficiali molto spesso. Ma io so che, preso ciascuno in sé e per sé, quei ragazzi sono molto meglio di come la mascherata sociale di cui si compiacciono li proietta nei nostri occhi.
    Partire dalla superficialità, anzi dal nostro bisogno di superficialità, dalla nostra paura fottuta della fatica e della responsabilità, dalla nostra assenza di futuro (guardi, la superficialità dei ragazzi ha molto a che fare con un’interpretazione se vuole molto parziale ma io credo non del tutto arbitraria del “carpe diem” e dell'”omnem crede diem tibi diluxisse supremum”. Anche io, un po’, ci credo, forse per influenza generazionale). E riguadagnare di complessità quanto ci riesce, non molto di più. Questo è il progetto che personalmente mi do. Quanto al riuscire a metterlo in pratica, ai posteri l’ardua sentenza. (E, per inciso, anche io a giorni alterni sbotto e maledico i miei tempi, esausto).

  8. Mi sembra che Ferracuti, pur non dicendo cose sbagliate, si sia fatto prendere la mano da un certo moralismo, da un’idea di “protagonisti coraggiosi”, di “uomini liberi”, che dovrebbero o avrebbero dovuto da soli opporsi alle magagne del mercato editoriale. Cosa sia questo mercato in Italia non lo dice. Si comincia dalla librerie che, grazie alle Feltrinelli e alle Messaggerie, hanno cambiato la loro natura: sono enormi grandi magazzini e quasi non hanno i libri! Una ventina di anni fa una libreria di livello, come la Seeber di Firenze (lo so per la stretta amicizia con il suo antico direttore, Paolo Milli) aveva settantamila titoli immediatamente disponibili in negozio: quasi mai capitava che si dovesse ordinare un titolo. Oggi, in spazi molto più grandi, c’è sì e no la metà dei titoli presenti. Da qui il “turn over” che fa sì che un titolo resti in libreria soltanto pochi mesi (e si consideri che la copia di un libro, già per il fatto di tenerla là, ha un costo per il libraio). Così imbattersi in un libro e acquistarlo e diventato evento rarissimo; più che altro bisogna già sapere che cosa si sta cercando e ordinarlo attraverso la libreria stessa o Internet. Questo ovviamente penalizza le case editrici più piccole, che hanno già in partenza maggiori problemi di distribuzione. Le librerie indipendenti, poi, sono sempre di meno, e per sopravvivere si stanno specializzando magari in letteratura per l’infanzia. Inoltre il mercato editoriale è dominato, come ognuno sa, da tre grandi gruppi: Mondadori, Rizzoli e Mauri-Spagnol. Quest’ultimo gruppo è, con le Messaggerie, anche il maggior distributore, dividendosi il mercato della distribuzione con la Pde che fa capo a Feltrinelli (la quale, a sua volta, pur molto distaccata, è la quarta casa editrice italiana per volume d’affari). Insomma, la chiusura in termini oligopolistici determina la situazione attuale: anche se “uomini liberi” e “protagonisti coraggiosi” potrebbero iniziare a opporsi a tutto questo diventando, quando possibile, anche editori, non restando a crogiolarsi nel mito romantico del grande autore.

  9. @Genovese

    Quello che descrive è vero, ma è anche vero che esiste Amazon, Ibs, gli infiniti siti di antiquariato. Bisognerebbe cominciare anche ad ammettere che la circolazione dei libri ha trovato altri canali da quelli delle librerie. E forse, invece di accusare gli oligopoli, bisognerebbe capire in che modo rovesciare questa situazione in vantaggio per gli scrittori e la letteratura

  10. Gentile Ferracuti,
    penso che la questione in questi termini sia mal posta. Il mercato editoriale non è che lo specchio di una situazione oggettiva e non ha a mio avviso nessuna “colpa” particolare. È sempre esistito chi sceglieva cosa pubblicare, quali autori inserire e quali autrici espungere dal canone, eppure abbiamo ben avuto i nostri grandi e a tratti immensi poeti e scrittori. Di tanti altri e soprattutto di tante altre si è perso anche il nome.
    La domanda a mio avviso non è: “Cosa è importante chiedere a un libro?” Perché chiunque è libero di pretendere svago, divertimento, storie facili. Perché no? Va benissimo. Ma non stiamo parlando di questo, bensì del senso della letteratura, del suo spazio di visibilità oggi, e della funzione, del ruolo dell’intellettuale nella promozione e diffusione della letteratura medesima.
    Personalmente ritengo che l’unica strada possibile e praticabile sia quella dell’educazione dei giovani alla lettura e alla complessità: non condivido l’idea che i ragazzi abbiano bisogno di superficialità e paura della responsabilità; sono invece, al contrario, fatalmente attratti dal complesso, basta proporglielo. Proporre il complesso è però operazione faticosa, perché richiede impegno e rischio: ogni volta che do in lettura un classico che amo follemente, dai Karamazov a Holden, mi attraversa un brivido perché sento che non potrei reggere una mancata empatia, una non lettura, una relazione scaricata da internet, un fallimento insomma. E ogni volta tiro un profondo respiro e vado, consapevole di mettere in gioco me stessa nella partita. Infine, chi ha pianto per la morte di Anna Karenina può entrare in libreria e lasciarsi suggestionare dalle classifiche? Vi assicuro di no: è una forma anch’essa di snobismo, se volete, ma la trovo migliore della superficialità di chi sceglie i libri basandosi sulla pubblicità e sulle apparizioni del suo autore-autrice in tv (i ragazzi non guardano più la tv da diverso tempo). Bisogna accettare questa sfida e vincerla.

  11. Scriveva Fortini nel 1960 ( Verifica dei poteri ) : ” … i luoghi dell ‘ opinione e del gusto letterario sono stati sorpresi nel giro di pochi anni dall’insorgere ed estendersi di nuove forme , per noi nuove , dell ‘ industria della cultura ….. Alla motorizzazione la società letteraria ha resistito anche meno dei nostri centri storici urbani. ” Mutando il contesto , la stessa cosa succede oggi nel campo editoriale : l ‘ industria della macchina culturale pervade tutto , neutralizza ogni tentativo di resistenza , e allora come dice Zizek benvenuti nel deserto del reale : dove la logica della produzione commerciale tende ad imporsi sulla produzione ” artistico letteraria ” e la critica , le rubriche , i blog eccetera diventano guida all ‘ acquisto e orientamento del gusto . La situazione editoriale italiana , la polemica tra librerie di catena e librerie indipendenti sono significative del panorama piatto e acritico subito dagli attori più deboli di fronte alla progressiva concentrazione del processo editoriale e dell ‘ informazione. Il prodotto di questa fenomenologia è il libroide ( testo ibrido e spesso autobiografico di personaggi dello spettacolo ) , moneta cattiva che tende a cacciare dal mercato quella buona , portando alla ricerca ossessiva da parte dell ‘ editore di un “prodotto” per fare cassetto . P.P. Pasolini introdurrebbe a questo punto un corvo spiritoso , libero e indipendente che marxianamente insegni ai personaggi della storia ad essere al meglio di quello che sono ; un corvo saggio che non promette nulla se non la conservazione dell ‘ umanità e della poesia per come l ‘ abbiamo conosciuta ; un corvo che ammonisce : ” chi parla uguale consuma uguale , così tutti parlando uguale vestiranno uguale e tutto si potrà fare in serie ” … ” ho il dovere di dare sempre un giudizio senza compromessi , a costo di stare sempre sulla graticola “.

  12. Ferracuti non ha torto secondo me a puntare il dito contro questa editoria formato fast-food, però penso pure che si dovrebbe tornare a usare gli strumenti di una lucida critica letteraria e distinguere quali sono quelle opere che hanno veramente le gambe per andare verso il futuro e quelle che cascano il minuto dopo usciti dal magazzino e se vivono tre mesi fa prova…. Con ciò voglio dire che si dice sempre che l’editoria è cattiva ma gli scrittori… so’ boni?… Se penso solo a due-tre autori considerati di qualità oggi in Italia, mettiamo Paolo Nori, Aldo Busi e Walter Siti… gli ultimi romanzi che hanno pubblicato sono palesemente dei prodotti nati per essere fagocitati dal mercato editoriale (a onor del vero il romanzo di Siti molto meno di quelli di questa improvvisata triade). E allora come la mettiamo? “E baci” di Busi è un libro a durata o per durare? (Per altro trovo vergognoso che un libertario come lui abbia pubblicato col Fatto quotidiano). Il nuovo libro di Nori anti-M5s (ma che d’altronde sprigiona parecchia forza antipolitica), Mo mama, stranamente pubblicato da una casa editrice pro-M5s, non cancella nell’immaginario commerciale il suo romanzo precendente di qualche mese, La banda del formaggio? Mi pare di sì, o se non lo rimuove, gli si sovrappone vieppiù che La banda del formaggio mi è sembrato un romanzo di non grande valore letterario, elaborato in fretta, che si deve consumare con altrettanta immediatezza. Insomma, voglio dire, l’editoria cannibalizzerà un po’ tutto, buono e cattivo, ma mi pare che anche le nostre migliori menti narrative non si lascino troppo pregare a stare al gioco della produzione libraria da fast-food….

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