di Raffaele Donnarumma
[E’ da poco trascorso il cinquantesimo anniversario del convegno di Palermo che sancì la nascita del Gruppo 63. Nella nuova serie della collana fuoriformato, pubblicata dalla casa editrice L’orma, sta uscendo la ristampa del volume Gruppo 63. Il romanzo sperimentale. Contiene gli atti del terzo convegno del Gruppo (Palermo, settembre 1965); la prima edizione fu pubblicata da Feltrinelli nel 1966, a cura di Nanni Balestrini. Nella ristampa 2013 è compresa un’ampia sezione intitolata Col senno di poi, nella quale Andrea Cortellessa ha raccolto contributi dei partecipanti al convegno e di alcuni scrittori e critici del nostro tempo. Ne fa parte l’intervento di Raffaele Donnarumma che oggi presentiamo. Nelle settimane scorse abbiamo pubblicato quelli di Andrea Cortellessa, Gianluigi Simonetti e Emanuele Trevi. L’intervento di Nicola Lagioia è uscito su «Minimaetmoralia»]
Forse non eravamo troppo alla moda, ma quando ero studente universitario a Pisa, tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta, prendevamo la neoavanguardia sul serio. Il terreno era favorevole. Walter Siti aveva lasciato il segno con Il realismo dell’avanguardia; Piero Cudini invitava spesso Sanguineti alla Scuola Normale; Carla Benedetti, che sull’avanguardia in genere ha riflettuto a lungo, si è formata appunto a Pisa, dove ha poi insegnato. Il Gruppo 63 godeva di un riconoscimento preventivo: aveva l’appeal della difficoltà e della teoria. Eppure, se la poesia si guadagnava ammiratori o difensori, sulla narrativa l’insoddisfazione era dichiarata. Per quanto fosse d’uso ironizzare sui Bassani e i Cassola che i neoavanguardisti avevano lializzato (ci sarebbero voluti anni per riscattarli), nessuno avrebbe contrapposto loro Capriccio italiano, che aveva fama di essere, più che illeggibile, noioso. Quanto a Di Marco o Filippini o Vasio o persino Balestrini, erano fuori dalle letture d’obbligo. Era il luogo comune che, soprattutto per la narrativa, diceva la prassi della neoavanguardia non all’altezza della teoria, velleitaria e intellettualista. Per quanto insopportabile possa essere l’ultima qualifica, bisogna riconoscere al verdetto una qualche verità; come anche affrettarsi a correggerlo se, rileggendo Il romanzo sperimentale, alcune teorizzazioni appaiono fragili e color del tempo; e se alcuni di quei libri sopravvivono meritatamente.
Dopo le relazioni di Guglielmi e Barilli, la discussione è così serrata da sconsigliare di riprenderla quasi cinquant’anni dopo. Eppure, conviene chiedersi quanto la teoria sia congruente alla pratica (congruente, non all’altezza), e se essa trascuri qualcosa di rivelatore. L’incontro esalta la differenza di posizioni; non copre, però, l’intera varietà di quanto si stava facendo dentro e intorno al Gruppo 63. Degli eccentrici, cioè di chi arriva con una storia sua e conserva una sua irriducibilità, si segnala solo Arbasino, troppo compiaciuto nel farsi il verso per incidere davvero sulla discussione; Manganelli non è presente, anche se invia due paginette di zolfo; Malerba è assente del tutto. E tuttavia, all’inizio il discorso è troppo inclusivo; così che il dibattito sarà dominato dalla reazione del più tenace nei distinguo: Sanguineti. La categoria di sperimentalismo, lamenta, è sfocata; e Barilli, anche quando si impegna a distinguere una fase di primo Novecento dalla seconda, contemporanea, non fa troppa chiarezza. Certo, le idee di abbassamento e normalizzazione servono perché non si limitano a mettere a fuoco la differenza tra nuova avanguardia e avanguardie storiche (ma anche qui, l’egemonia dell’etichetta conguaglia autori che non erano avanguardisti per nulla, e che semmai vanno detti modernisti – da Joyce a Kafka a Svevo a Gadda). Con grande precocità viene avvertito un mutamento di clima culturale più vasto, di cui anche Eco coglie alcuni aspetti. È appena il 1965: mentre una parte del Gruppo è il sussulto di una modernità che si sa in consunzione, un’altra presagisce e prepara quello che avremmo chiamato postmoderno.
Quanto a Guglielmi, sfuma la propria mappa totale sottolineando l’estremismo della neoavanguardia italiana e individuando eccezioni; anche se, quando deve emettere un giudizio su testi che hanno «un’aria di esercizio portato a termine», non se la cava neppure con la formula del «valore di poetica» che «si pone tout court come valore poetico». È invece sull’ideologia che si apre il dissidio con Sanguineti: e non lo si può sanare. Proprio qui, infatti, si intuiscono le due aree diverse della neoavanguardia: quella aideologica, astorica e disimpegnata (insomma, i prodromi del postmoderno); e quella di chi è fedele alla modernità, sebbene la veda inceppata. Ma a dispetto del dissidio, circolano idee comuni. Spetta a Balestrini asserire che il romanzo è «un meccanismo puramente verbale»: «i fili spezzati con la realtà», sentenzia, «non si riannodano più e basta, non ce n’è più bisogno». Il suo massimalismo svela una arrière pensée condivisa, sebbene pochi la enuncino con lo stesso coraggio. Solo Manganelli (e con lui Filippini) proclama apertamente «ripugnanza» per il romanzo, con la sua stolta pretesa di dire verità rinunciando ai fasti della letteratura come artificio e menzogna; e solo Manganelli, con Hilarotragedia, aveva buttato alle ortiche il romanzo in favore del trattato. Eppure, tutti respingono il carattere mimetico della narrazione: l’avversione è così radicata, che alla parola mimesis si preferisce l’etichetta deprecativa di «naturalistico». È anche il portato della guerra al neorealismo e ai suoi epigoni. Schiacciata dalla polemica, l’immagine del romanzo classico o borghese o ottocentesco ne risulta parodiata e svilita, come protestano alcuni: l’idolo «romanzo sperimentale» (versione militante di quello che altrimenti si chiamava «romanzo del Novecento», al di là del genio di Debenedetti) ne è l’altra faccia. Viene il sospetto che sia la forma romanzo in sé a creare imbarazzo, anche quando la si riconosce capace di dare un’educazione sentimentale: di qui, il partito preso per cui le si nega un significato di conoscenza; e di qui il tentativo di trarsi d’impaccio con una «“sospensione” del problema dei “generi”» (Di Marco).
Per la neoavanguardia italiana, ancora più che per le avanguardie storiche o per le nuove avanguardie europee coeve, narrare è un problema. L’eccesso di teoria cerca di compensare la fatica di un atto che ha perso non solo verginità e naturalezza (se mai le ha avute), ma legittimità. Insieme alla mimesis, sono respinti sia la serietà del quotidiano, sia quella trasparenza di stile che i realisti ottocenteschi inseguivano come un ideale regolativo da non raggiungere mai. Più radicalmente, il problema del che cosa narrare, bollato di contenutismo grezzo, viene eluso: proclamata l’autonomia della forma, giudicata irrilevante la materia, il romanzo neoavanguardista si condanna così da solo alla marginalità. Sanguineti cerca di uscire dall’impasse proponendo, con la mitopoiesi, una sua versione del metodo mitico; ma con alcune strutture del racconto, al pari degli altri di Palermo, non sembra proprio voler fare i conti. Così, la trama viene ammessa solo se autre, come fa Barilli per arginare le estasi materiali, le epifanie abbassate e il tedio dell’inazione: più un rimedio coatto, che un vero interesse su come si costruisca un racconto. Nessuno, poi, spende energie per il personaggio, la nozione più squalificata in questi anni. Il soggetto ha una cattiva stampa; la psicologia è estromessa; la psicoanalisi è consentita solo come repertorio mitico. Ma senza una trama che eserciti i suoi diritti, senza personaggi, senza avere a che fare con un mondo esterno che le resista, senza insomma il suo carattere antropomorfo, come può esserci romanzo? è ancora pensabile una narrazione?
«Romanzo sperimentale» è forse il nome di un odio per il romanzo che non si pronuncia sino in fondo. Anche se respingono il problema come superato, non so quanti dei convenuti abbandonino davvero l’idolo dell’anti-romanzo, o non pensino il romanzo come un emissario sporco e scaduto del filisteismo borghese e del neocapitalismo-leviatano. Peggio della vergogna della poesia (che poi era insofferenza per il lirismo e il poetese, e ha fatto cose buone) è stata l’onta della narrazione (che non si dava questo nome, e si infilava da sé nei suoi vicoli ciechi). Certo, lo sdegno antiromanzesco è stato meno avvilente del romanzo manierato o di secondo grado del pieno postmoderno; ma altrettanto equivoco. La storia, poi, si è presa le sue vendette da feuilleton. Il romanzo gode oggi di una salute di ferro, è oggetto di intelligenza teorica, si produce in libri memorabili. Riletto da questa posizione, il dibattito del 1965 dà l’impressione di essere in latino: una lingua gloriosa, ancora nota ai dotti; ma che bisogna fare sforzi per capire, che non smette di suonare strana soprattutto nelle forme più vicine alle nostre e che, alla fin fine, è morta.
Non voglio affatto, con questo, mettermi in coda alla lunga fila nera dei becchini della neoavanguardia. Anzi: il luogo comune di una prassi non all’altezza delle teoria può anche essere rovesciato. Il dibattito è persino avvincente; ma quel che se ne salva vale meno di quanto si possa salvare dei libri scritti in quel clima. Sarà che il gergo critico invecchia prima – e le consonanze con Tel quel, cioè con il faro della theory internazionale di allora, sono molte; sarà che la rimozione dei problemi inaggirabili del racconto è, in tanta mostra di intelligenze, semplicista. Cadute le ricostruzioni storiche e sgretolatasi la teoria, restano dichiarazioni di poetica da antologia, prove d’ingegno da ammirare più per il virtuosismo dell’esecuzione che la solidità dei pezzi, e il bianco e nero di una foto di gruppo bella e sciupata, in cui forse neppure quelli che c’erano riconoscerebbero tutti i volti.
E così, alla fine, bisognerà pur verificare le poetiche sui risultati. Dell’ala più dura della neoavanguardia resta oggi in libreria pochissimo: le Smorfie di Sanguineti e Balestrini ripubblicato da DeriveApprodi. Un minimo confronto con la Francia è illuminante: oggi, non ci vuol nulla a procurarsi in originale Robbe-Grillet, Butor, Sarraute o Simon (le traduzioni italiane, invece, sono quasi tutte sparite). Ci sarebbe troppo da dire su due situazioni così dissimili: e non tutto andrebbe a lode dei francesi tra i quali, infatti, l’affezione alle idées reçues anni Sessanta può produrre i livori di un Millet, che allestisce un Inferno del romanzo pieno di polvere. Come che sia, un Simon o una Sarraute noi non ce li abbiamo avuti (e infatti, a Palermo si discute quasi solo di Robbe-Grillet, magari senza troppa simpatia). Tanto dibattere, dunque, per nulla? ha ragione il verdetto misero e opaco dell’editoria di oggi? Se molto del lavoro neoavanguardista sul romanzo sembra perduto, è perché guardava il romanzo con accecamenti, abbagli, miopie a cui la nobiltà di intenti fa giusto da attenuante (e fortuna che il reato è caduto in prescrizione). Una storia canonica del Novecento senza Capriccio italiano o Il giuoco dell’Oca sarebbe documentariamente inaccettabile: per altro, quei libri andrebbero messi accanto alle prove combinatorie di Calvino, per dar loro più spessore; e persino un accostamento alla Divina Mimesis o a Petrolio farebbe scoprire qualcosa che non è solo reazione. Ma se si è in cerca dei monumenti maggiori, il sacrificio sarebbe tollerabile. Invece, mi sarebbe difficile ammettere il silenzio su Fratelli d’Italia o Hilarotragoedia o Il serpente: cioè su libri che ingaggiano con la forma romanzo una lotta aperta, che va dal corpo a corpo all’abbandono irridente del campo per mettersi a fare un altro gioco. La conclusione storiografica da trarre è che in narrativa la neoavanguardia ha contato in quanto ha aperto la strada al postmoderno: che è come raccontare la storia di Troia dal punto di vista di Greci (e non dovrebbe essere una cattiva idea, a giudicare da Omero).
Ma gli eroi a Ilio non mancano, e almeno un vero narratore lo ha prodotto anche il Gruppo 63 più intransigente. Dopo Tristano, a partire da Vogliamo tutto, Balestrini ha sconfessato gli assiomi di Palermo scrivendo alcune dei migliori romanzi del secondo Novecento: e c’è da essergli grati che si sia tenuto fedele sino ad oggi ai suoi modi e al suo canone. A lui è riuscito smarcarsi tanto dai dogmi di poetica quanto dall’ingenuità. Quello che assicura la tenuta degl’Invisibili o di Sandokan non è il cosiddetto lavoro sul linguaggio: è la capacità di far parlare, piuttosto che di rappresentare, un pezzo di mondo. Senza il quale c’è poco da raccontare, e anche meno da leggere.
Che bella Jean Seberg, e che terribile, allegorico destino, il suo…