di Raoul Bruni
[Quella che segue è la postfazione di Raoul Bruni a Personaggi precari di Vanni Santoni, che uscirà il 31 ottobre per Voland].
Cosa rimarrà della ipertrofica compagine di volumi sul precariato che si stanno accumulando ormai da oltre un ventennio? È indiscutibile che un tema, umanamente drammatico, come quello della precarizzazione del lavoro si sia trasformato, in ambito letterario, in una moda inconsistente, con esiti perlopiù ripetitivi e scarsamente incisivi. Si è venuto addirittura a creare uno stereotipo del giovane precario, abilmente sfruttato anche dal mercato pubblicitario televisivo e lo stesso vocabolo “precario”, a causa dell’abuso che se ne è fatto, ha finito per diventare un termine banale ed usurato, e quindi scarsamente significativo. Il punto è che quasi tutti i narratori (così come i giornalisti) che si sono accostati al tema della precarietà lo hanno declinato e sviluppato sotto un profilo squisitamente economicistico, come se la precarietà fosse soltanto una condizione lavorativa come un’altra.
Questo libro di Vanni Santoni si distingue nettamente da questa vulgata narrativa e giornalistica. Delle centinaia e centinaia di personaggi che si susseguono in queste pagine pochissimi sono, almeno stando alle indicazioni esplicite, giovani lavoratori precari. Non solo: anche in questi rari casi, non troviamo traccia di quel pietismo, di quella commiserazione consolatoria che improntano, con esiti decisamente discutibili, la nostra narrativa “precaria”. Basterà leggere lo spietato ritratto dell’ingegnera precaria Cristina, la quale, pur indignandosi «perché è un mondo dove contano più le borse dei libri; soffre perché anche lei, alla fine dei conti, preferisce le borse»; per non parlare di Claudio, che, mentre cerca un impiego a tempo indeterminato, sogna «la pena di morte su scala industriale»…
Per Vanni Santoni la precarietà è innanzitutto una categoria esistenziale e psicologica, che non può essere in alcun modo ridotta a dato angustamente economico-giuridico. Tra i personaggi “precari”, incontriamo infatti un pensionato (Genzio) e una signora sessantenne (Felicita), che lavoratori flessibili certamente non sono. Insomma: dal libro emerge un affresco globale e corale del mondo contemporaneo che va ben al di là del microcosmo giovanile. Molto variegata è anche la casistica dei personaggi: c’è il tossico o il borderline, così come il padre di famiglia; l’artista fallito e il potenziale omicida; il millantatore e il sociopatico; destini diversissimi, apparentemente estranei l’uno all’altro, ma tutti, in certo modo, esemplari.
Nelle pagine di Santoni la precarietà è una forma, molto più che un contenuto. La grande intuizione dell’autore è stata quella di comprendere che per raccontare adeguatamente una condizione come quella della precarietà occorreva optare per forme stilistiche non ordinarie, opportunamente sintonizzate con il tema trattato. Di qui, da un lato, la scelta della prosa frammentaria e della micro-narrazione, dall’altro, per quanto riguarda il piano generale dell’opera, il progetto di un organismo testuale in perenne divenire (come informa egli stesso nella premessa, egli non ha mai smesso di aggiungere nuovi tasselli ai sui Personaggi, dai tempi della prima versione del 2007 a oggi): tant’è che questa opera potrebbe essere potenzialmente interminabile, come una sorta di cantiere sempre aperto.
Nella letteratura italiana del secolo scorso non mancano esempi illustri di raccolte di micronarrazioni/microromanzi: dal Bontempelli di La vita intensa al Manganelli di Centuria, dal Pontiggia di Vite di uomini non illustri al sottovalutato Scerbanenco di Centodelitti. Ai quali occorre aggiungere almeno (tenuto conto della forma dialogica, talora quasi teatrale, di non pochi dei frammenti dei Personaggi precari, nonché del frequente tono ironico) l’Achille Campanile delle Tragedie di due battute. Tuttavia, al contrario di questi precedenti novecenteschi, in Personaggi precari le fisionomie stilistiche del frammento sono assai più cangianti e multiformi, essendo dettate, come vuole il titolo, dai personaggi di volta in volta raccontati: si passa dalla microstoria al dialogo (brevissimo o più articolato), dall’epigramma al ritratto narrativo; ma non mancano brani composti in forma di stringata scheda anagrafica o addirittura di elenco di sigle. Si direbbe che ogni personaggio comporti una sua particolare forma letteraria, una sua propria trasfigurazione stilistica. Quindi, al di là di possibili apparentamenti letterari e genealogie, non è esagerato sostenere che, con i suoi Personaggi precari, Vanni Santoni abbia inventato un nuovo genere letterario, in sintonia con i ritmi del mondo attuale.
Grande spazio, nel libro, hanno i silenzi e il non-detto, e spetterà al lettore esplicitare le allusioni o colmare le omissioni dei profili narrativi di questi personaggi. Se per questa funzione demiurgica assegnata al lettore le narrazioni di Santoni sembrano rinviare ai virtuosismi intellettualistici di un Queneau o di certo Calvino, per altri aspetti, invece, molti di questi personaggi appaiono come lontani nipoti della classica narrativa europea ottocentesca (l’autore stesso ha dichiarato in varie interviste di essersi formato letterariamente soprattutto sui grandi romanzi russi e francesi del diciannovesimo secolo). Questi personaggi, infatti, non sono quasi mai il frutto di un gioco puramente mentale, ma recano impresso il marchio autentico della commedia umana, esperita nella sua concretezza.
Lo stile di Santoni è tendenzialmente scabro e icastico, affidato ad un lingua punteggiata da alcuni toscanismi. D’altronde, alla Toscana, perlopiù provinciale (l’autore è nato a Montevarchi) rinviano anche vari toponimi (si ricordi che il secondo libro di Santoni, Gli interessi in comune [Feltrinelli, 2008] è ambientato in una Toscana di provincia). La provincia però non rappresenta, come spesso occorre nella nostra narrativa, un elemento di chiusura: diviene bensì un «campo d’osservazione di prim’ordine» (per citare un illustre corregionale di Santoni, Luciano Bianciardi), una specola privilegiata per osservare il mondo nella sua globalità. Tant’è che il libro, al di là del fatto che non pochi dei suoi protagonisti siano stranieri, rappresenta una realtà sociale e antropologica che travalica ampiamente i confini nazionali: lo dimostrano anche le traduzioni tratte dalla prima edizione, uscite in Inghilterra e in Francia (nelle rispettive traduzioni di Linh Dinh per “Poetry foundation, e di Cleo Schweyer per “Cafebabel”) . Da noi, invece, la critica, con pochissime eccezioni, ha ignorato la prima edizione del libro, che, del resto, era apparso per un piccolissimo editore, che ha ormai cessato la sua attività (RGB).
Questa nuova edizione, completamente rivista e notevolmente accresciuta, è a tutti gli effetti un libro completamente nuovo, in cui Vanni Santoni arricchisce e perfeziona il nucleo originale del suo esordio letterario avvantaggiandosi delle molteplici e feconde esperienze di scrittura compiute nel frattempo. Ne è scaturita un’opera che dovrebbe far ricredere chi pensa che la narrativa italiana sia condannata alla mediocrità e all’omologazione; un libro coerente pur nella sua frammentarietà, percorribile in più direzioni, che tiene costantemente avvinto il lettore in virtù della sua singolare ed intrinseca forza poetica.
[Immagine: Adam Magyar, Squares (gm)].
Premesso che sono un ammiratore del suddetto libro e del suddetto scrittore, mi chiedo però se non sia in fin dei conti un grosso limite far coincidere lo spirito di un’epoca con le forme della coscienza di chi ci vive dentro. A fronte della continua smilitarizzazione del pensiero cui siamo invogliati, non sarà proprio l’atomizzazione dell’esperienza che, nascondendo sotto un velo multicolore un solo tipo di infelicità fondamentale, esige a maggior ragione un’unica grande narrazione? (La risposta non ce l’ho.)
@ Roberto Gerace: la questione che Lei pone è molto interessante ma credo esuli dal caso specifico del libro di Santoni, il cui intento non mi pare quello di “far coincidere lo spirito di un’epoca con le forme della coscienza di chi ci vive dentro”, quanto piuttosto quello di raccontare il nostro tempo, e in modo particolare il mondo della “precarietà”, attraverso forme e procedure stilistiche che non riducano le problematiche antropologiche e sociali ad innocui stereotipi, come spesso è accaduto nella narrativa italiana recente.
ciao Roberto, Raoul mi anticipa sulla risposta “tecnica”, ma per il resto, sì, concordo con te e l’obiettivo di tutto il mio lavoro – obiettivo che so già essere al 99.9% irraggiungibile – è sviluppare strumenti atti, un giorno, a essere in grado di fare quello che dici.
Fermo restando però che le “uniche e grandi narrazioni” in grado di far ciò, molto hanno di scomposto e parcellizzato, basta pensare ai tre esempi più immediati e “facili”: GR, IJ e 2666.
@Raoul Bruni e @sarmizegetusa (ciao): grazie a entrambi e scusate il ritardo. Sicuramente il problema che pongo è al di sopra delle pretese del libro in oggetto e in questo senso, quindi, non è teso a sminuirne il valore. Sono forse uscito un poco dai binari, ma per investire un interesse mio e (se ricordo bene uno scambio privato) dello scrittore: ed è il problema della coralità (nel senso di GR, IJ e 2666 e non di Spitzer su Verga; altri direbbe la polifonia). Senza voler qui aprire un dibattito che deborderebbe dai confini dell’occasione, mi limito a ribadire i miei dubbi. La forma corale persegue il rispecchiamento della complessità sociale. Io però credo che la letteratura, per ritenersi veramente grande, possa e debba travalicare questo sia pure importante obiettivo e porsi il compito di ricondurre questa complessità a una matrice unica (storica? politica?). Credo cioè nelle interpretazioni forti, anche e soprattutto in letteratura, perché scongiuro il rischio di un nuovo barocco (che è a mio modesto avviso sempre controriformistico). Spero di poterne scrivere umanamente un giorno o l’altro. Intanto, buon lavoro e buona fortuna.