di Pietro Bianchi
[E’ uscito in questi giorni in Italia La vita d’Adele (La Vie d’Adèle), di Abdellatif Kechiche, Palma d’oro al Festival di Cannes].
Sarà capitato a tutti. Quando si è innamorati i contorni del mondo sfumano, lo sfondo perde d’importanza così come tutti gli elementi di contesto. ‘Sei innamorato?’ si chiede per prenderle in giro, alle persone disattente. In realtà l’attenzione in amore non viene meno, è solo ripartita diversamente. Quando siamo in un luogo pubblico e il nostro oggetto d’amore è presente, tutti i nostri sguardi, attenzioni ed energie sono focalizzate in quel punto. La nostra attenzione in realtà è spasmodica perché siamo in grado di cogliere anche il più minimo dei dettagli. È come se tutto lo spazio circostante collassasse in un solo elemento. È per quello che ne La Vie d’Adèle, chapitre 1 & 2 (Palma d’oro al Festival Cannes), il nuovo capolavoro di Abdellatif Kechiche, lo sguardo della macchina da presa è appiccicato alla protagonista Adèle, è solo ed esclusivamente per lei. Come quello di un innamorato. Nelle più di tre ore di film non la perdiamo mai di vista, guardiamo ogni dettaglio del suo corpo, del suo modo di atteggiarsi, di mangiare, di tirare su il naso (come tutti gli adolescenti, non ha il fazzoletto), di aggiustarsi i capelli. La vediamo mentre dorme, mentre accarezza e bacia la sua innamorata, mentre ha un orgasmo, mentre si lava, mentre piange e si dispera, mentre è a scuola e poi mentre lavora. Insomma la vedremo crescere lungo circa dieci anni della sua vita e da adolescente diventare donna. La nostra vita, ma soprattutto il nostro sguardo, per la lunghezza di tre ore nel buio di una sala cinematografica sarà quella di chi è innamorato di Adèle. Questo è il gioco a cui ci chiede di giocare Kechiche. Prendere o lasciare. Se saremo disposti a innamorarci – ovvero di assumere su di noi quello sguardo – dipenderà da noi.
La Vie d’Adèle è tutto incentrato su questo raddoppiamento: è il racconto di una storia d’amore e lo sguardo di un innamorato. Kechiche in effetti ci ha sempre abituato a una macchina da presa che sta dentro all’immanenza del mondo, ma qui non si tratta solo di una preferenza per i dettagli rispetto ai campi totali. Il punto di vista dell’innamorato è legato all’oggetto che sta guardando perché lo desidera. Lo sguardo è deviato dal desiderio. In una scena in cui vediamo Adèle dormire, la macchina da presa si sofferma sulla sua bocca, poi risale e quasi immediatamente ridiscende per riguardare nuovamente la bocca, come se a guardarla fosse qualcuno che quella bocca la sta desiderando. Raccontare una storia d’amore in questo modo vuol dire privilegiare la non-oggettività dell’amore: il fatto che non vi sia una buona norma (come vogliono i manuali di auto-aiuto) ma solo dei soggetti partecipi. Sta qui la distanza che separa La Vie d’Adèle da un’altra bellissima storia d’amore adolescenziale uscita nei cinema italiani l’anno scorso, Un amour de jeunesse di Mia Hansen-Løve, che invece prediligeva una narrazione onnisciente e distaccata. Ed è anche questo il motivo che rende le accuse che alcuni critici hanno mosso a Kechiche per il presunto voyeurismo delle molte scene di sesso presenti nel film assolutamente mal poste: la sessualità non può mai diventare un oggetto empirico, proprio perché, come insegna la psicoanalisi, non riguarda soltanto il momento del sesso propriamente detto, ma è già presente nello nostro stesso sguardo.
“Che cos’è il mondo quando lo sperimentiamo a partire dal due e non dall’uno? Che cos’è il mondo esaminato, praticato e vissuto a partire dalla differenza e non dall’unità?” si chiede Alain Badiou nel suo Éloge de l’amour. La Vie d’Adèle infatti non è solo un esercizio formale: è anche un racconto, di straordinaria intensità, del momento in cui questa differenza entra fragorosamente nel mondo di una persona e rende questo mondo irriconoscibile da come era prima. Definitivamente. “Cosa provate quando avete avuto per la prima volta un colpo di fulmine?” chiede il professore agli alunni della classe di Adèle mentre leggono La Vie de Marianne di Marivaux (ancora Marivaux, dopo L’Esquive!), “sentite che il cuore ha qualcosa in più o qualcosa in meno?”. Che sia in più o in meno, senz’altro il cuore di Adèle sarà da quel momento in dis-equilibrio, mai più pieno: o troppo o troppo poco. Ma se coi maschi della sua classe troverà al più il suo primo incontro sessuale, è solo con Emma, incrociata per la prima volta fugacemente in una strada di Lille, che il dis-equilibrio sarà vero, eccitante e irreparabile insieme. Kechiche ci accompagna in quel turbine dell’amore adolescenziale, dove la scoperta del corpo ma anche della cultura, dell’arte, della filosofia cresce come se fosse un tutto indistinto. E poco importa se l’alterità in questo caso avrà le fattezze di un corpo anatomicamente femminile e non maschile. Il film, pur senza ignorarla, non si sofferma sulla questione a cui la storie di amore omosessuale vengono sistematicamente condannate: ovvero il dramma della ricerca di legittimazione nello spazio pubblico (la società) e privato (la famiglia). La storia d’amore tra Emma e Adèle è in questo senso fino in fondo una storia universale di scoperta dell’alterità, e non della stessità. Come lo sono tutte le vere storie d’amore, indipendentemente dall’anatomia dei due che ne sono coinvolti.
Ma la scoperta di questa differenza è anche la scoperta di una ferita, perché nessuna storia d’amore può fino in fondo rimarginare il fatto che l’incontro con l’altro e col proprio desiderio è anche fatto di una violenza inaudita. L’amore di Adèle non è un amore irenico. Come dice in un scena dopo aver fatto l’amore con Emma “ci metterò tutta metta stessa”. E lo farà con la vera fedeltà – che è sempre eterna – che si deve dare a un amore. E quanto più questa dimensione di rischio e di azzardo, viene vissuta da Adèle in modo radicale con un coraggio inaudito, quanto più la sofferenza sarà grande nel momento in cui l’alterità si tramuterà in incomprensione, distanza e infine separazione. La sequenze strazianti del vuoto successivo alla fine, incomprensibile come non può che essere la fine di un amore, non si soffermano solo sulla disperazione, i pianti, il momento in cui la drammaticità si palesa esplicitamente. Kechiche ci fa vedere il vuoto che si aggira nella quotidianità quando riprende il proprio cammino. Così come prima tutto era popolato da quell’amore, ora è il mondo intero a palesare un vuoto di fondo che è ovunque e da nessuna parte.
La Vie d’Adèle però non è un cantico dell’amore fusionale e adolescenziale, quando è l’immagine dell’ideale a coltivare l’illusione d’eternità. L’amore è sempre dentro alla storia, alla contingenza, alle condizioni nella quali si viene a trovare. Adèle e Emma cominciano a vivere la loro distanza a partire dalla loro provenienza sociale. Emma è una studentessa di Belle Arti, viene da una famiglia colta e benestante; i suoi genitori sanno che la figlia è lesbica e alla loro tavola si mangiano ostriche, si bene vino, si parla d’arte e di bellezza. Adèle invece viene da una famiglia popolare, a casa sua si mangia in silenzio con la televisione accesa; i suoi genitori non si immaginano nemmeno che quella strana amica più grande che “le dà ripetizioni di filosofia” possa essere la sua amante, e si rivolgono a Emma dando per scontato che abbia un ragazzo. Maschio. Semmai a tavola si parla concretamente di quale lavoro possa dare una sicurezza economica. Ma Kechiche, come se seguisse la lezione di Bourdieu, non ci fa vedere le differenze di classe come se rimanessero sullo sfondo mentre l’individuo persiste nella sua unicità e nel suo amore fuori dal tempo. Le differenze di classe si insinuano nel profondo dei nostri atteggiamenti, sono iscritte nei nostri corpi, nei nostri desideri. Adèle è esclusa dalle discussioni colte dall’ambiente artistico di Emma, mentre il suo desiderio sarà solo quello – modesto agli occhi di Emma – di diventare una maestra d’asilo. I mondi pian piano si separano perché l’amore è anche fatto di queste cose, della contingenza crudele delle differenze sociali. E del fatto che l’ideale sociale a cui la nostra classe ci dice di dover appartenere a volte semplicemente non si accorda col nostro desiderio inconscio.
La grande lezione di Adèle però rimane la fedeltà al proprio amore, struggente e bellissima che va oltre a tutte queste separazioni. Perché la fedeltà all’amore non è la fedeltà alla fusione dell’Uno, ma la fedeltà alla differenza apertasi per la prima volta, dopo la quale il mondo non sarà mai più come prima. Imparare a vivere dopo quella ferita, vuol dire semplicemente imparare a vivere. Senza mai smettere di crederci. Seguendo sempre il proprio desiderio. I will follow, come canta Adèle ballando malinconica sulle note di Lykke Li.
[Immagine: Abdellatif Kechiche, La Vie d’Adèle (gm)].
Sono d’accordo sul fatto che nel film l’unico ed eventuale amore – morboso, freddo, ossessivo – sia quello del regista per Adèle.
Ma allora perché non scrivere un’altra storia? Quello che ci aspetta è l’amore di Adèle per Emma, di Emma per Adèle, di cui non v’è traccia. Pur volendo accettare la regia innamorata di Kechiche, perché non mostrare “anche” (almeno!) l’amore tra le protagoniste?
Invece, in pochi, brevi e luminosi frammenti assistiamo solo alla rappresentazione di momenti della relazione fra le due: l’incontro iniziale al pub, molto ben girato; o la scena della rottura al bar, in cui la splendida tensione dei due volti poco c’entra con la citazione del finale di Ultimo tango a Parigi: sono, finalmente, i volti di due persone che si sono amate, ma cos’hanno fatto nel resto del film?
Quello che si narra è un pezzo della vita di Adèle, che scopre l’omosessualità e si innamora; ma il film è immobile, non c’è evoluzione, si blocca al riconoscimento (dell’attrazione, della reciprocità). Dov’è la scoperta dell’alterità, se tutto quel che ci viene mostrato è un disagio per niente analizzato di Adèle nel mondo di Emma? E dove la scoperta dell’amore per l’arte o la filosofia, se Adèle è incredibilmente disinteressata e sorda a discorsi che pure incuriosirebbero la maggior parte degli adolescenti dotati di una qualche sensibilità?
Le due vanno a vivere insieme ed è una sequela di quadri figés: dall’insostenibile manicheismo con cui il regista dipinge le rispettive famiglie (cultura Vs concretezza piccolo-borghese, emancipazione Vs bigotteria, ostriche Vs spaghetti alla bolognese, per giunta francesi) alla stereotipia della festa branchée con i colleghi artisti di Emma, al termine della quale Emma si rifiuta di fare l’amore con una delle scuse più ovvie del mondo.
Il simbolo della mancata narrazione di un amore, di una narrazione che forse voleva esserci ma non c’è stata, sta nelle scene di sesso, intrise di una frenesia che non lascia alcuno spazio alla dolcezza – dolcezza che pure dovrebbe emergere tra due che si amano. Ma non c’è, ci sono invece gli schiaffi sulle natiche: gesto indubbiamente maschile, dell’uomo che nella foga dell’amplesso sente la donna quasi come una bestia da frustare e incitare.
Lo sanno senz’altro anche le due protagoniste, che restano in ogni caso straordinarie.
Complimenti a chi a scritto questa recensione, ma davvero, proprio tanti! Profonda, vera, priva di ogni tipo di banalità.
La recensione è veramente acuta ben centrata sul fatto che sin dall’inizio la relazione è asimmetrica, soprattutto per la diversa modalità di viverla e di portarla avanti: voglio dire che mentre Emma è capace di elaborarla “intellettualmente”, inserendola nel suo mondo mentale, facendo anche del corpo di Adèle la fonte principale della sua ispirazione artistica; Adèle, invece, separa la propria vita concreta da quella sentimentale-passionale-corporale con Emma, offrendo a quest’ultima (e ai suoi amici) cose soprattutto “materiali”: cibo buono, voglia di ballare e ritmo, insomma il corpo nelle sue espressioni più elementari ma anche più vitali (o vitalistiche). Alla fine – nel dialogo finale fra le due e al vernissage – i due mondi si divaricano fino a separarsi: non basta il bel vestito bluette (che richiama i capelli di Emma dei primi incontri) a ricreare una intesa ormai impossibile, anche perché il corpo di Adèle – trasfigurato – ormai ha esaurito la sua funzione per Emma e fa parte – “oggettivizzato” – dei prodotti della sua arte, e, in quanto tale, “intellettualizzato”. Non vi è dubbio che il tutto sa di utilizzazione di una vitalità-corporeità da parte di Emma, che alla fine è in grado di sacrificarla perché nel suo mondo mentale e sociale (e fortemente competitivo e aggressivo: vedi i rapporti sessuali fra le due) non c’è più spazio, se mai c’è stato. L’omosessualità di Emma – contrariamente alle apparenze – è più nevrotica, esibita, vorrei dire standard. Così, invece, non è per Adèle la cui genuina scoperta dell’alterità nell’affinità, viene da un livello più profondo, autentico e meno costruito, meno socialmente condivisibile perché non rientra nello stereotipo della “lesbicità”
grazie Pietro
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=488349154597423&set=a.464346096997729.1073741828.464343026998036&type=1&theater
Recensione davvero molto bella che invita a vedere il film e a rifletterci, lontana mille miglia dal linguaggio esoterico da iniziati dei cinefili di professione.
Grazie
A mio modestissimo avviso, il film è incentrato sull’inguaribile unicità della protagonista, sulla sua solitudine: una ferita che la relazione con Emma non fa che dilatare. Ne parlo in maniera più estesa qui: http://grulloparlante.wordpress.com/2013/11/03/la-vita-solitaria-di-adele/
Sono d’accordo con Ot. Dove la dolcezza ? Dove il vero incontro delle due innamorate, la tŕansformazione, la creazione dell una per l’altra ? Invece l’erotismo pesante, pesante !
Dove la leggerrezza ? Dove la dolce follia de l’amore ?