di Rino Genovese
[Questo intervento è stato presentato al convegno Individuazione ed emancipazione. Filosofia sociale e diagnosi del presente (Parma, 14-15 ottobre 2013)]
La prima cosa da notare, in questo incontro seminariale, è l’uso di “individuazione”. Perché questo termine e non uno di quelli che sarebbero forse più scontati, cioè “individualismo” o “individualizzazione”?
Il primo si riferisce a ciò che, in un certo senso, sta alla radice della cultura moderna e dei suoi miti. Occidente moderno significa infatti due cose, in tensione tra loro: universalismo – non in un senso ristretto, come quando si parla di universalismo giuridico, per esempio, ma ampio – e appunto individualismo, nel senso di una centralità del concreto, empirico essere umano nei confronti di istituzioni universali di tipo medievale e sovrastorico come la chiesa o l’impero. Sono le possibilità già insite nell’illuminismo settecentesco: universalismo in quanto eguaglianza e livellamento delle differenze individuali, oppure in quanto generalizzabilità dell’attribuzione all’individuo di caratteristiche intese come differenze irriducibili. In un senso pregnante, ognuno può essere inteso come un individuo al pari di ciascun altro (a parte le eccezioni vòlte a giustificare, per un lungo periodo, l’inferiorità della donna o la schiavitù e il colonialismo). È la prospettiva aperta dalla punta illuministica della cultura moderna: quella di un universalismo individualistico. Proprio su questo aspetto paradossale e sradicante l’individuo dalla sua terra – o da universali presunti concreti quali la nazione, la comunità etnica, la razza – si appunterà buona parte delle critiche antilluministiche. Sarebbe sbagliato (anche se spesso lo si fa) vedere in queste critiche una mera riaffermazione del particolarismo olistico di tipo arcaico-tradizionale, nel senso delle culture premoderne e non occidentali; al contrario, è in nome di un’altra idea di universale, in cui l’individuo è sostanzialmente inghiottito, che si fanno avanti le alternative – fino all’ “ordine nuovo” immaginato da Hitler come dominio sull’Europa e sul mondo. Insomma l’antilluminismo è anch’esso un universalismo ma privato del suo momento individualistico.
Il secondo termine, “individualizzazione”, si riferisce per lo più a un processo di modernizzazione e di progressiva perdita di rapporti collettivi consolidati come quelli che, per una lunga fase storica tra Otto e Novecento, sono stati i rapporti tra le classi e all’interno di queste. Noto di passaggio che – prescindendo da ciò che fu detto il socialismo reale – “classe” non ha mai significato soppressione dell’individuo: una certa versione dell’individualismo moderno era implicita in concetti come “coscienza di classe” e simili. Ma adoperato nel significato di un crescente rafforzamento di un individualismo atomistico di tipo liberale (o, più precisamente, neoliberista), il termine “individualizzazione” assume facilmente una connotazione peggiorativa. Ed è forse la ragione per cui si è ritenuto di scartarlo nell’organizzazione di questo seminario.
Arrivo allora alla nozione di “individuazione”. Che cosa indica questo termine? Diversamente da “individualizzazione”, sostanzialmente sociologico, “individuazione” ha piuttosto un contenuto filosofico. Indica il farsi individuo, o soggettività autonoma nel senso dell’autonomia kantiana, di ciò che altrimenti resterebbe confuso nell’indistinto. Il termine, come si sa, afferisce primieramente a una costellazione ontologico-metafisica, come quella di Schopenhauer. Ma, nella prospettiva che c’interessa, l’individuazione è stretta in una endiadi (quanto indissolubile?) con il concetto di emancipazione. Suppongo che si vorrebbe quasi suggerire che emancipazione è individuazione, cioè l’uscita del cittadino (a questo punto la parola viene spontaneamente alle labbra) da una condizione di minorità in cui l’indistinzione in una folla anonima sarebbe un grave impedimento alla partecipazione attiva alla vita sociale e politica. Rimuovere gli ostacoli che impediscono la partecipazione di tutti i cittadini – sto riecheggiando un passaggio della Costituzione della Repubblica italiana – diventa la posta in gioco fondamentale della emancipazione in quanto inclusione democratica.
Da una ventina d’anni a questa parte, ci si è molto esercitati intorno alla “democrazia deliberativa”; io preferisco l’espressione “democrazia partecipativa” per evitare la possibilità di equivoci aperta dal significato diverso che in inglese e in italiano hanno i verbi to deliberate e deliberare; ma è comunque evidente di che cosa stiamo parlando: ci riferiamo a una discussione democratica aperta, priva dei vincoli supplementari introdotti dal potere e rispondente soltanto a quelli propri della razionalità comunicativa, intorno alle scelte e alle decisioni pubbliche. Stiamo parlando cioè delle condizioni ideali di una democrazia sempre in fieri che, costitutivamente (oltre che, nel caso italiano, costituzionalmente), ha a che fare con la rimozione degli ostacoli che impediscono la piena partecipazione dei cittadini. In passato poteva trattarsi del contadino o del bracciante che, dopo una dura giornata di lavoro nei campi, non aveva né il tempo né la condizione fisica per dedicarsi alla democrazia partecipativa – né nella sua forma diretta, per esempio prendendo parte a un comitato di lotta, né nella forma relativamente spuria costituita dall’iscrizione a un partito politico. Oggi può trattarsi invece di un lavoratore precario, costretto a periodi di disoccupazione e quindi di marginalizzazione, e poi d’isolamento per via di orari di lavoro interminabili. Sia il primo sia il secondo sono costretti a delegare ad altri (quando anche lo fanno e non si chiudono nella pura e semplice estraneità alla cosa pubblica), periodicamente con il voto, la dotazione che loro compete, in quanto individui, del frammento di sovranità popolare loro proprio. Sono quindi facilmente esposti alla manipolazione da parte di poteri che tendono a svuotare la democrazia dall’interno.
Si vede così in che senso l’emancipazione politica debba andare di pari passo con l’emancipazione sociale in senso ampio. Senza un’autentica individuazione del cittadino, senza la possibilità di essere a tutti gli effetti un soggetto autonomo, neppure potrebbe pensarsi un’autentica cittadinanza democratica. Una considerazione in fondo banale: l’emancipazione è un “bene” indivisibile, non si può dare in un settore della vita sociale e in un altro no. Ed è un processo che non può mai dirsi concluso, perché le condizioni della non emancipazione richiedono di essere modificate sempre di nuovo.
Quali i compiti di una teoria sociale critica sullo sfondo della questione dell’emancipazione come processo di progressiva individuazione? La teoria cerca anzitutto di descrivere adeguatamente le condizioni di blocco che impediscono la piena cittadinanza. In questo senso vale per essa l’antico slogan teologico “non ti farai alcuna immagine”: perciò non c’è una normatività sovraordinata al processo stesso da suggerire e da consigliare. Sostenere che le procedure democratiche siano queste e non altre potrebbe essere una grave limitazione alla inventività dei movimenti sociali, chiamati a dare nuova linfa e anche a reinventare la democrazia. Ciò vale in un senso come nell’altro: non si potrebbe, cioè, contrapporre in linea di principio la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa, al di fuori di un concreto contesto di lotte sociali, e anzi è il loro inestricabile intreccio a essere al centro del processo storico di emancipazione-individuazione. La stessa tematica del riconoscimento – oggi in voga in una determinata versione della teoria critica – è un po’ mettere il carro davanti ai buoi se è assunta come l’alfa e l’omega del conflitto sociale che, in realtà, può avvenire intorno al riconoscimento dei diritti per i gay, come intorno alla maniera in cui debba essere ripartito il peso fiscale, oppure intorno al mantenimento o alla creazione di un sistema sanitario pubblico, o alla difesa di un territorio dalla speculazione e dalla rapina… Non vi sono modalità o obiettivi politico-sociali di per sé privilegiati: soprattutto, questi non possono essere fissati preliminarmente attraverso i criteri della razionalità comunicativa. Vero è piuttosto il contrario: ossia che nel fuoco di un conflitto sociale si affermano procedure democratiche diverse nella direzione di una rottura dei poteri consolidati e in quella di una diffusione del potere.
La diffusione del potere (molto più che la vecchia sovranità popolare) diventa l’idea guida della democratizzazione intesa come emancipazione-individuazione. Il suo concetto si lascia inscrivere nell’orizzonte assiologicamente aperto, e per questo utopico, di un individualismo sociale, che coincide in sostanza con la stessa nozione di conflitto sociale democratico. È una prospettiva a due facce, volutamente ossimorica. Si tratta di mettere in questione tutte le forme (per lo più arcaico-tradizionali) di dominio personale, come il patriarcato, la concezione del pater familias riguardo ai figli, in particolare alle figlie: e ciò ricade propriamente sotto la voce dispiegamento dell’individualismo moderno. Al tempo stesso, tuttavia, è la stessa dimensione del conflitto che spinge alla solidarietà, alla cooperazione, caratteristiche di qualsiasi lotta sociale collettiva. È questo lo slegante legame implicato da quelle lotte che abbiano l’individualismo sociale come orizzonte e che, affrancando dall’autoconsistenza del passato culturale di una determinata identità-noi, puntino a delineare una identità-noi di tipo elettivo.
Tutto ciò ha a che fare con un aspetto che, da un punto di vista puramente liberaldemocratico, può apparire anarchico. Resta vero che l’anarchia è altra cosa da una democrazia organizzata: tuttavia un aspetto del genere è ineliminabile dal processo di progressiva emancipazione-individuazione. Nel seguire lo svolgimento di un segmento di questo processo (oggi, per esempio, nei paesi arabo-musulmani) una teoria sociale critica, non pre-orientata in senso ritrettamente occidentale, può offrire un contributo di analisi; ed eventualmente, su questo o quel passaggio, giudizi di valore non determinati in maniera pregiudiziale.
[Immagine: Jenny Holzer, Souvenez-vous que vous avez toujours la liberté de choisir, Parigi 2009 (gm)].
LA “DIVINA COMMEDIA”, UN GRANDE POEMA SUL PROCESSO DI INDIVIDUAZIONE., INDIVIDUALE E COLLETTIVO. UN PROGRAMMA PER I POSTERI…
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Quali i compiti di una teoria sociale critica sullo sfondo della questione dell’emancipazione come processo di progressiva individuazione? La teoria cerca anzitutto di descrivere adeguatamente le condizioni di blocco che impediscono la piena cittadinanza. In questo senso vale per essa l’antico slogan teologico “non ti farai alcuna immagine”: perciò non c’è una normatività sovraordinata al processo stesso da suggerire e da consigliare. Sostenere che le procedure democratiche siano queste e non altre potrebbe essere una grave limitazione alla inventività dei movimenti sociali, chiamati a dare nuova linfa e anche a reinventare la democrazia. Ciò vale in un senso come nell’altro: non si potrebbe, cioè, contrapporre in linea di principio la democrazia diretta alla democrazia rappresentativa, al di fuori di un concreto contesto di lotte sociali, e anzi è il loro inestricabile intreccio a essere al centro del processo storico di emancipazione-individuazione. (Rino Genovese, “Individuazione ed emancipazione”, Le parole e le cose, 30 ottobre 2013 – sopra)
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“Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità»” (Alessandro D’Avenia,”La vita è una Commedia”, Corriere della Sera, 13 sett. 2021).
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OLTRE LO STATO DI MINORITÀ. Questa INDICAZIONE, a mio parere , è da intendere dalle stalle alle STELLE, e dalle stelle alle STALLE: il “fine generale dell’opera” è un progetto teologico-politico e antropologico, carico di MESSAGGIO EVANGELICO e COSTITUZIONE ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3211 ), è quello di aprire le porte del gran MANICOMIO COSMOTEANDRICO (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3085 ), uscire dall’ inferno (vedere LUCIFERO “con le gambe in sù”: Inf. XXXIV, 90), dall’orizzonte della TRAGEDIA e rendere praticabile a tutti e a tutte (individuare e individuazione) la via al purgatorio, al paradiso terrestre (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5726 ), e al paradiso celeste.
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DANTE2021 è una buona occasione per ricordare che l’orizzonte pedagogico-politico della Divina Commedia è “divinamente” carico non solo di conoscenze tecniche e scientifiche, ma anche e soprattutto di sapienza antropologica e teologica legata al decisivo processo di individuazione (di ogni individuo e di tutta l’umanità) e cha la sua “Commedia” è una FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI “DUE SOLI” ( http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2432 ), NON DI UNO SOLO (HEGEL).
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A SCUOLA DA DANTE (MA ANCHE DA ANTONIN ARTAUD: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5215#forum3166625) SI IMPARA A CHE SERVE AVERE MEMORIA “DELLA SCALA”. O NO?!
Federico La Sala