di Claudio Giunta
[Questo articolo è uscito su www.internazionale.it].
“La commissione per le riforme del sistema scolastico tedesco dal quale nacque anche l’Università di Berlino”, scrive Fritz Blaettner nella sua Storia della pedagogia, “era presieduta da F.D.E. Schleiermacher, al quale W. von Humboldt assegnò vasti compiti. Durante il periodo in cui fu ministro, W. von Humboldt emanò un solo editto: per una seria selezione degli insegnanti”.
Naturalmente era tutto più facile al tempo di Schleiermacher e di Humboldt (forse anche perché c’erano Schleiermacher e Humboldt) ma non sembra che questa raccomandazione –prima e unica cosa da fare per la scuola: selezionare bene gli insegnanti – abbia trovato e trovi molto ascolto nella scuola italiana. L’idea stessa di “selezionare”, applicata al personale docente, suona cupamente reazionaria: uno pensa subito ai campi di concentramento.
Nessuno eccepisce all’idea che in sala operatoria debbano entrare i migliori chirurghi. E nessuno direbbe seriamente: “Ok, non so operare, ma mi piace tanto, e poi non so che altro fare: posso?”. Ma quando si parla dell’insegnamento le maniche si allargano, e la severità lascia il posto all’indulgenza: un po’ perché è chiaro che ci vogliono molti più insegnanti che chirurghi, e che gli insegnanti sono pagati molto di meno, e perciò non si può andare tanto per il sottile; e un po’ perché dire a qualcuno “no, tu proprio non puoi e non devi insegnare” viene percepito come una piccola violenza, la negazione di un diritto, quasi un giudizio sulla persona. Del resto, è tutto abbastanza immateriale, perché “insegnare bene” vuol dire mettere insieme tantissime cose (competenza, tecnica pedagogica, amore per i ragazzi eccetera) molto difficili da misurare. Ma misurare bisogna.
Per selezionare gli insegnanti, il ministero ha tentato, nei decenni, strade diverse. L’ultima, l’anno scorso, è stata il concorso per il Tfa (Tirocinio formativo attivo): un esame scritto con domande (almeno in parte) piuttosto assurde + un esame orale al termine del quale i pochi vincitori hanno potuto accedere a un corso annuale (il Tfa, appunto) a pagamento (dai 2.000 ai 3.000 euro) durante il quale hanno seguito lezioni sulle discipline d’elezione e sulla pedagogia e hanno svolto un tirocinio in classe. Finito il Tfa hanno sostenuto un esame. Chi ha superato l’esame (quasi tutti) ha ricevuto l’abilitazione all’insegnamento.
A essere onesti, ce n’è abbastanza per dissuadere anche l’essere umano più serio, zelante, motivato e dedito alla causa dall’intraprendere la carriera di insegnante. Ma non è tutto, perché la fatica di questo slalom è aggravata, ora, da una decisione del ministero che a me pare sconcertante.
Lo stesso giorno in cui le università varavano tra mille difficoltà, dopo quattro anni d’attesa, i Tfa, il ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) ha infatti decretato l’attivazione dei cosiddetti Pas (Percorsi abilitanti speciali), corsi abilitanti “speciali”, appunto, rivolti a chi ha lavorato nella scuola per un totale di almeno tre anni anche non consecutivi nell’amplissimo, spropositato arco di tempo che va dal 1999 al 2013: corsi ai quali – qui l’aggravante nell’aggravante – si può accedere senza concorso. Dunque conta solo l’anzianità. Questa anzianità – aggravante nell’aggravante nell’aggravante – può essere stata ottenuta non in una ma in più classi di concorso, e non solo nelle scuole statali ma anche nei centri di formazione professionale e nelle scuole paritarie (le quali ultime sono spesso diplomifici di scarsissima qualità, e nei quali si accetta di lavorare proprio allo scopo di “fare punteggio”), nonché nel sostegno (Ddg n. 58 del 25 luglio 2013).
Questo significa che ci potranno essere casi di persone che, senza selezione, entreranno nei Pas di, poniamo, materie letterarie per le superiori avendo insegnato, poniamo, per un anno italiano in una scuola paritaria, per un anno sostegno e per un anno filosofia in una scuola statale, o materie umanistiche in una professionale. Un anno, cioè 180 giorni di insegnamento in una classe specifica permettono di accedere a quei corsi abilitanti che i candidati al Tfa, lo scorso anno, si sono guadagnati superando un esame severissimo.
E l’accesso, lo dico per esperienza diretta, significa quasi sempre, al termine del corso, promozione, abilitazione. “Nei corsi speciali che ho coordinato e seguìto nell’anno accademico 2006-2007″, mi dice un collega, “su quasi 400 iscritti tra primaria e secondarie ne abbiamo bocciati due (una di inglese che non sapeva assolutamente l’inglese e una guardia giurata pazza che voleva insegnare alle elementari). Risultato: ricorsi e controricorsi, un sacco di mie visite all’avvocatura dello stato eccetera eccetera. Siamo messi così, purtroppo”.
Già siamo messi così, noi. Quanto a loro, a quelli che – studiando, facendo esami e, non va dimenticato, pagando – hanno superato il Tfa, costoro non avranno la cattedra per la quale sono abilitati. Infatti, come si legge in una lettera al ministro firmata da una cinquantina di docenti universitari,
avendo ottenuto l’abilitazione, i tieffini avrebbero avuto diritto a presentare domanda di iscrizione nelle graduatorie di istituto per la II fascia, quella riservata ai docenti abilitati; e invece no, le graduatorie di istituto non sono state riaperte quest’anno, così i tieffini sono rimasti in III fascia, quella riservata ai non abilitati, e si vedranno passare avanti gli iscritti in graduatoria che hanno più anzianità e dunque più punteggio, ma che NON hanno superato né il concorso per il Tfa né il relativo corso. L’anno prossimo, poi, quando le graduatorie verranno riaperte, si potranno iscrivere alla fascia degli abilitati sia i tieffini sia gli abilitati coi Pas, che avendo maggiore anzianità di servizio avranno comunque la precedenza nell’assegnazione delle supplenze.
Assegnare le ragioni e i torti, nelle faccende che riguardano la scuola, è proprio impossibile. Perché il passato è un tale cumulo di errori e ritardi e inadempienze che si ha l’impressione che mettervi mano, qualsiasi cosa si faccia, voglia dire complicarli. E perché probabilmente c’è nell’intera gigantesca macchina scolastica qualcosa di immedicabile: amministrare un numero di dipendenti che sfiora il milione (tanti sono gli insegnanti in Italia) non è difficile, è inutile.
Ma ci sono due princìpi a cui sembra davvero suicida voler rinunciare. Il primo è che chi va a insegnare a scuola deve superare un esame severo all’ingresso del percorso abilitante (com’è stato nel caso del Tfa). Il secondo è che dobbiamo fare di tutto perché le porte della scuola si aprano soprattutto a insegnanti giovani, perché l’età media degli insegnanti italiani è – nel paragone con gli altri paesi Ocse – altissima, e questo è, tra tanti, il guaio più grave della scuola italiana.
I Pas contraddicono sia l’uno sia l’altro principio. Ovviamente hanno, per esistere, delle ragioni, che ad alcuni (e per esempio a una parte consistente del sindacato) potranno sembrare valide. A me non pare che lo siano. È stato un errore, che produrrà altri errori, a catena. Ed è, per chi lavora o vuole lavorare nella scuola, l’ennesima pillola di demoralizzazione. Quanto a me, da docente universitario non ho più il coraggio di consigliare ai miei studenti la strada dell’insegnamento.
[Immagine: Christian Beirle González, Orange Chairs Among Green Chairs (gm)].
Nell’amministrazione dello Stato, e in particolare nella scuola, si deve entrare solo ed esclusivamente per concorso, e per concorso pubblico per titoli ed esami, possibilmente serio e difficile. Chi ci è entrato con i corsi abilitanti e le infinite gabole inventate da sindacati e politici per garantirsi la pensione deve uscire, meglio pensionare a vita anche loro che tenerseli.
Queste iniziative del MIUR sono consapevolmente rivolte a distruggere la scuola pubblica, come d’altronde le tragicomiche riforme da Berlinguer in poi (quando sentite la parola “riforma”, vi corra la mano alla pistola).
Scopo dell’operazione: preparare un quadro di tipo anglosassone, con le scuole pubbliche con il metal detector all’ingresso e le scuole private che costano care (e insegnano anche male).
Dixi, e se non ho salvato l’anima mia almeno ho evitato che la pressione mi salisse a duecento.
«L’educazione dipende dai Lumi che a loro volta dipendono dall’educazione» (Immanuel Kant).
Premesso che anch’io ritengo che il dovere dello Stato sia quello di garantirsi, attraverso meccanismi rigorosi di selezione, quindi attraverso concorsi pubblici, i docenti più preparati e più qualificati, desidero ribadire che è vero che negli ultimi duecento anni di storia dell’Occidente l’alta cultura si è sempre occupata delle questioni concernenti le riforme scolastiche in tutti i loro aspetti (forme e contenuti dell’apprendimento, sistemi di valutazione, procedure di reclutamento ecc.). Negli ultimi vent’anni si è invece assistito ad una catastrofica inversione di tendenza, in virtù della quale il destino della scuola è finito nelle mani di una variopinta schiera di politici di professione, esperti del mercato del lavoro, manager, docenti distaccati dall’insegnamento, nonché pedagogisti culturalmente deprivati. Si tratta di un evento catastrofico che ha investito e corroso l’identità culturale del Paese e che, in quanto evento politico, è di gran lunga più importante del governo Letta, del berlusconismo, del grillismo e delle altre pagliacciate della ‘politica-spettacolo’. Ancora una volta occorre ripetere a chi lo avesse dimenticato che la questione scolastica è, in realtà, lo specchio ed il riflesso della più ampia questione dell’identità nazionale in un pianeta che si presenta fenomenicamente come globalizzato, ma che è strutturalmente sottoposto ad un processo violento di rimondializzazione in senso capitalistico ed imperialistico, definibile sinteticamente come americanizzazione. Per capire quanto sta avvenendo è allora necessario cogliere l’essenziale. In breve, quanto sta accadendo è un evento di portata epocale: la destrutturazione, operata dall’alto, della scuola nata circa duecento anni fa nel periodo storico che va dall’illuminismo al romanticismo. Questa destrutturazione è promossa e condotta dai poteri economico-finanziari che semplicemente, non avendone più bisogno, non vogliono e non desiderano più un sistema scolastico che si è formato nell’epoca della cultura grande-borghese e dello Stato nazionale. Nessuno può naturalmente negare che quel modello scolastico, incardinato sul liceo sorto fra il 1790 ed il 1820 nella Germania hegeliana e nella Francia napoleonica, avesse un chiaro carattere di classe. Esso era chiaramente una scuola di classe, ma nasceva dall’iniziativa della borghesia ottocentesca la quale, come tutte le classi che aspirano all’egemonia, pensava la propria direzione della società in base a categorie universali. Questa borghesia, che si proponeva di togliere alle chiese cristiane (non importa se cattoliche, protestanti od ortodosse) il monopolio dell’istruzione secondaria, fondò pertanto il liceo coniugando gli aspetti migliori della cultura illuministica (con la sua esaltazione della storia e delle scienze matematiche e naturali) e della cultura romantica (con la sua esaltazione della classicità e della letteratura). Le attuali classi dominanti europee cercano invece di legittimare la loro politica di destrutturazione pianificata del liceo con una retorica ultraeconomicistica al centro della quale vi è l’Europa monetaria dell’euro, oggi, peraltro, in corso di sfaldamento. La pedagogia, che è da sempre il ‘ventre molle’ delle scienze umane e della filosofia, ha anch’essa contribuito a legittimare le politiche scolastiche neoliberiste, disarmando gli insegnanti normali e particolarmente i buoni insegnanti che hanno sostenuto e fatto funzionare il liceo negli ultimi duecento anni e che, di conseguenza, sono i grandi assenti delle ‘riforme’ che si sono susseguite in questi due decenni. Orbene, i buoni insegnanti si distinguono, come è stato giustamente rilevato, per due vocazioni, a volte compresenti e a volte separate: la vocazione all’insegnamento e la vocazione allo studio e alla ricerca. Entrambe queste vocazioni sono inconciliabili con i ruoli subalterni di ‘ripetitori di libri di testo’, ‘formatori delle competenze’ e ‘somministratori di prove oggettive’, ruoli assegnati loro dalle politiche di destrutturazione dello Stato nazionale e dei suoi apparati, che il neoliberismo elabora e persegue. Va detto poi che è del tutto fuorviante la vecchia polemica contro il liceo ripresa dai promotori e fautori di quelle politiche, a detta dei quali una scuola esclusivamente classica, letteraria ed umanistica è, per la sua stessa natura, incapace di riconoscere il valore della cultura scientifica. Si tratta di un pregiudizio infondato che può essere avallato soltanto da chi ignora che, in realtà, il liceo è nato in Germania come liceo prevalentemente classico e nella Francia napoleonica come liceo prevalentemente scientifico. L’asse culturale originario del liceo, infatti, esclude nettamente il dilemma relativo alla superiorità della cultura umanistica o di quella scientifica e punta semmai ad affermare la natura critica dell’apprendimento di tutte le discipline. Basti ricordare, a questo proposito, che nei suoi scritti di pedagogia il grande filosofo dell’idealismo assoluto, Hegel, fa notare, ad esempio, che lo sviluppo delle capacità intellettuali avviene sia sul terreno della matematica sia sul terreno della traduzione È opportuno sottolineare, inoltre, che uno studioso di scienze naturali come Luca Cavalli Sforza ha osservato a suo tempo quanto segue: «…fra tutte le mie esperienze scolastiche, la traduzione dal latino è stata l’attività più vicina alla ricerca scientifica, cioè alla comprensione di ciò che è sconosciuto».
In conclusione, non credo che la resistenza attuale, impotente e confusa, alla destrutturazione del liceo europeo possa impedire la prosecuzione di questo processo. Sono convinto, tuttavia, che la resistenza che ora e nel prossimo futuro non mancherà di verificarsi, lungi dall’essere un’inutile testimonianza alla memoria, sarà uno dei primi fattori propulsivi di una futura contestazione del profilo complessivo della ‘cultura’ della globalizzazione capitalistica. La questione scolastica è dunque parte integrante della questione dell’indipendenza nazionale. Il modello di ‘scuola-azienda’ che le ‘riforme’ (da Berlinguer alla Carrozza) hanno teso ad instaurare è diretto proprio contro la tradizione del liceo, che ho cercato di definire. Si tratta di un modello deterritorializzato, del tutto funzionale ai processi di americanizzazione visti come frontiera avanzata della modernità. Ma questo modello è la negazione di tutte le grandi conquiste della modernità illuministica e romantica, e opera nella direzione di un inedito oscurantismo tecnologico e della disemancipazione socio-politica resa possibile dall’annientamento del pensiero critico. Sono questi i pilastri, il primo poderoso e gli altri due fragili, su cui le classi dominanti europee stanno cercando di edificare la ‘dittatura dell’ignoranza’.
il tfa non svolgeva alcun tipo di selezione qualitativa, era solo un dispositivo atto a scoraggiare l’intrapresa dell’attività di insegnante ai giovani laureati, nonchè a creare una selezione quantitativa stile migrazione delle anguille. e basta. perchè l’orientamento dei governi è quello secondo cui l’istruzione pubblica di massa è un lusso che non potremo permetterci ancora a lungo. e basta.
l’idea che debba esservi una forte selezione all’ingresso per l’insegnamento di base e medio è penosa, come penosa è la bolla formativa che è stata creata dalla legislazione intorno alla professione di insegnante. è ridicolo che per insegnare alle scuole medie non basti nemmeno una laurea magistrale, laddove gli insegnanti che ho avuto io (non poi così tanti anni fa) erano perlopiù solo diplomati, e perfettamente in grado di svolgere il loro mestiere (meglio assai di gran parte dei professori universitari con cui ho avuto a che fare, peraltro).
un mestiere in cui la preparazione teorica non potrà mai e poi mai sostituire l’esperienza pratica nelle classi e in cui le nozioni insegnate non sono certo materia per pochi eletti. il sovraccarico formativo, specialmente sul fronte della teoria pedagogica, non produce necessariamente buoni insegnanti, e per saperlo basta andare a vedere chi (e soprattutto come, stendendo un velo pietoso sul cosa) insegna quelle teorie pedagogiche a livello accademico.
è la stessa faccenda delle discipline infermieristiche, dove una generazione di infermieri formati da medici accademici finisce con l’ereditare più spocchia che efficienza.
se dirottassimo la manata di fondi destinata a inutili e pleonastici corsi post-laurea per restituire dignità alla formazione di base e media, faremmo un atto non solo di giustizia, ma anche di buon senso.
la scuola media, inferiore e superiore, è un’istituzione che funziona grazie all’apporto di persone mediamente intelligenti ed istruite, in modo da istruire i giovani a quelle conoscenze considerate sufficienti per essere cittadini responsabili di sè; non servono pseudo-luminari frustrati da mansioni nettamente inferiori alla propria qualifica, a questo scopo, anzi.
una cosa da fare per restituire senso all’istruzione pubblica è sgonfiare la bolla informativa; restituire a decine di mansioni il livello di istruzione adeguato, laddove oggi si studia 100 per mansioni che richiedono 30 (di studio, poi l’esperienza è un’altra cosa).
il che vuole anche dire restituire dignità a decine di mansioni, perchè questi studenti che faticano come bestie ad arrivare al 100, con percorsi di selezione durissimi fondati su prove che non possono essere meritocratiche, in quanto servono a selezionare persone già sufficientemente preparate a svolgere la mansione in oggetto, frustrate nel limbo di quelli che non ce l’hanno fatta, nel frattempo lavorano gratis o quasi gratis per abbellire il curriculum e ritoccare i propri punteggi in vista dei concorsi.
questo è un paese in cui con la presa per il culo delle “necessarie severissime selezioni post-laurea”, zimbello per una corsa di levrieri che non finisce mai, si è riusciti a convincere un’intera generazione a svolgere pressochè qualsiasi mansione del terziario squalificato (la cui qualifica d’accesso sarebbe quella del diploma) gratuitamente.
un grazie agli amici accademici è doveroso, al riguardo, estensibile a tutti i detriti dell’élitarismo di massa dimentichi di quanto eguaglianza sia l’opposto di meritocrazia (e di quanto sia migliore una società in cui l’istruzione sia mediamente elevata, senza grandi picchi, rispetto a una società di ignoranti con alcuni picchi di eccellenza qua e là).
da qualche parte ho scritto “bolla informativa”, gosh, leggasi bolla formativa.
ah, e forse non l’ho detto chiaramente, meglio specificare:
responsabili della bolla formativa sono in primo luogo gli accademici, che hanno spinto e spingono in ogni maniera per sovraformare obbligatoriamente qualsiasi tipo di mansione, nonchè per incanalare qualsiasi percorso professionale verso corsi post-laurea, concorsi e, laddove possibile, ordini professionali, allo scopo di contingentare l’offerta, riaffermare il ruolo dell’accademia e, incidentalmente (oppure no) garantirsi un bell’esercito industriale di riserva.
gli apparati accademici si mostrano, in ciò, un esempio lampante di struttura che salvaguarda la propria rirpoduzione a scapito dell’ambiente esterno.
La questione del reclutamento dei docenti è un caos inestricabile. Tutti i gruppi citati in questo pezzo (e altri qui non citati) rivendicano dei diritti in sé giusti. Il problema è che dare ragione a un gruppo significa fare torto a un altro, senza eccezione. Hanno ragione i precari che da anni lavorano già nella scuola e che chiedono dei percorsi di abilitazione più brevi; ma hanno ragione quelli che hanno fatto percorsi più esigenti e con concorso. Ha ragione chi sta fuori dalle graduatorie a volerci entrare; ma ha ragione chi ci sta dentro a voler ottenere un posto. Ecc. E’ un inferno. E chiunque abbia avuto a che fare con queste persone, stressate, esasperate, insicure, sa quanto sia difficile affrontare questa situazione.
Ora è inutile stare a recriminare su aspetti come il Pas ecc. Secondo me tutti, dico TUTTI intendendo forze politiche, associazioni, esperti, docenti universitari, docenti delle scuole e i precari stessi, dovrebbero chiedere una sola cosa: un reclutamento fatto solo tramite concorsi regolari e frequenti, con numeri adeguati. Questa è l’unica soluzione.
Con i concorsi infatti:
– si farebbero entrare docenti giovani e motivati;
– si darebbe un’occasione a molti docenti già in graduatoria di entrare più velocemente in ruolo tramite concorso;
– data la legge che prevede assunzioni metà dal concorso e metà dalle graduatorie, farebbe entrare anche altri docenti dalle graduatorie.
Tutto questo permetterebbe di smuovere un po’ le acque.
La storia degli scioperi degli insegnanti, oltre ad essere istruttiva dal punto di vista della conoscenza dei livelli di mobilitazione sindacale nei servizi pubblici, può contribuire a gettare una viva luce su certe costanti che caratterizzano quell’universo vasto, articolato e complesso che è la scuola italiana. In questo senso, vale la pena di ricordare uno sciopero degli insegnanti che fu proclamato da alcuni sindacati di base e dalla Gilda contro il concorso che il ministro Berlinguer propose nell’ormai lontano 2000 al fine di riconoscere la preparazione professionale conseguita dai docenti con un’anzianità di servizio di almeno 10 anni e attribuire al 20% di loro una congrua maggiorazione retributiva. Tale sciopero, se dimostrò da un lato che la categoria degli insegnanti non era disposta ad essere trattata come un oggetto passivo del decisionismo riformatore di quel ministro, mise in luce dall’altro la profonda ambiguità del segno che contraddistinse la mobilitazione di una categoria talmente interclassista che in essa si trova di tutto (dalla moglie del libero professionista che con lo stipendio si paga la colf all’insegnante monoreddito che fatica a sostentare la sua famiglia). In effetti, sugli insegnanti, cloroformizzati (anche, ma non solo, a causa della politica concertativa dei sindacati confederali) da un lungo periodo di letargo sociale, la possibile attuazione di quel provvedimento generò un effetto non dissimile da quello che prova un bambino immerso in un bagno di acqua fredda. E simili agli strilli di un bambino che sia stato sottoposto da un padre un po’ spartano ad una prova non prevista furono le proteste di una categoria investita (con un grado di sofferenza sociale che l’opinione pubblica raramente riesce a cogliere) dalla crisi dei modelli di formazione scolastica, dalla degradazione burocratica del lavoro e dalla riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni. Eppure, era chiaro come il sole che la privatizzazione del rapporto di lavoro nel pubblico impiego, introdotta con il contratto del 1994 (privatizzazione contro la quale non vi fu, da parte della categoria e delle stesse forze che promossero la mobilitazione or ora menzionata, alcuna risposta degna di nota), costituiva il primo passo verso una più ampia privatizzazione della scuola. Non aveva dunque senso rifiutare quel provvedimento senza mettere in discussione il modello privatistico e aziendalistico verso cui stava andando la scuola italiana, modello che sarà completato con l’attuazione dell’autonomia. Così a chi come me era favorevole al principio della selezione meritocratica (ma non a tutte le modalità di attuazione dello stesso), toccò condividere, almeno in parte, la sorte di quel Paneroni che si aggirava per Milano con un secchio pieno d’acqua per dimostrare che, se veramente la terra ruotava su se stessa, l’acqua si sarebbe rovesciata. Ero tuttavia consapevole che avrei condiviso la sua sorte non in quanto difensore, come era lui, della concezione geocentrica (sotto questo riguardo ritenevo semmai che fossero assimilabili al buon Paneroni, per la loro mentalità tolemaica, proprio gli egualitaristi di allora), ma in quanto avverso alla logica demagogica e populistica del ‘todos caballeros’: quella stessa logica che, grazie a immissioni selvagge ‘ope legis’ e grazie a corsi abilitanti speciali che sono stati in realtà sanatorie mascherate, già tanti danni ha prodotto nella scuola italiana e che, in occasione di quello sciopero, vide fra l’altro uno schieramento politico trasversale (che andava da Berlusconi e Fini a Cossutta e Bertinotti) manifestare piena solidarietà agli insegnanti che protestavano. Le ragioni per cui reputavo allora, e reputo oggi, che sia giusto, opportuno e necessario riconoscere (sulla base di criteri il più possibile oggettivi e concordati con le organizzazioni sindacali e professionali della categoria) la qualità del lavoro svolto dagli insegnanti maggiormente preparati e motivati sono da ricondurre, in primo luogo, all’istanza, questa sì tipicamente democratica e roussoviana, del riconoscimento sociale del merito individuale, a favore della quale si pronuncia esplicitamente l’art. 36 della Costituzione («Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»); in secondo luogo, alla tassativa esigenza di riportare l’asse della vita scolastica nel lavoro didattico d’aula (allora e ancor oggi criminosamente trascurato a vantaggio delle più improbabili e improprie attività extra-para-inter-anti-scolastiche); in terzo luogo, – e questa prospettiva è fondamentale per chiunque respinga le ingannevoli seduzioni del corporativismo (ancorché mascherate da una fraseologia scarlatta) e cerchi d’inserire le rivendicazioni sindacali degli insegnanti in una dimensione confederale, cioè generale e quindi saldamente connessa agli interessi complessivi del movimento dei lavoratori – alla nozione di valore-istruzione, che è una componente fondamentale del valore (definito da Marx “storico-morale”) della forza-lavoro, laddove la formazione e la riqualificazione professionale degli insegnanti sono fondamentali sia per contrastare i processi di svalorizzazione capitalistica della forza-lavoro sia per promuovere un diverso sviluppo qualitativo e quantitativo della massima risorsa di cui disponga la società, cioè il lavoro. La “demoralizzante” vicenda dei Tfa rappresenta un altro anello (a monte del processo di formazione e riqualificazione dei lavoratori della conoscenza, oltre che a valle, come nel caso dell’abortito concorso berlingueriano che ho qui ricordato) di quella catena che congiunge, attraverso le politiche neoliberiste nel campo dell’istruzione, i processi di privatizzazione del servizio scolastico ai processi di deprofessionalizzazione della categoria degl’insegnanti. Lo scopo è chiarissimo ed è, come ho affermato nell’intervento precedente, la deconcettualizzazione dell’insegnamento, la disemancipazione socio-politica e l’annientamento dello spirito critico quali vie per imporre, in tutti i gradi e in tutti gli ordini dell’istruzione, la “dittatura dell’ignoranza”.
Non voglio entrare nel merito dei massimi sistemi che nei commenti sono stati evocati, ma da abilitato TFA, nel mio piccolo, voglio solo far presente l’assurdità della nostra situazione, quella di chi, per farla breve:
1) si è affrettato a finire il corso entro luglio per usufruire dell’immediata spendibilità del titolo in quest’anno scolastico (come da nota ministeriale dell’aprile 2013) e poi non ha potuto usufruire di una riapertura immediata delle graduatorie d’istituto, trovandosi quindi a passare quest’anno scolastico come se l’abilitazione non fosse avvenuta.
2) alla riapertura delle graduatorie d’istituto in vista del prossimo anno scolastico si vedrà, allo stato dei fatti, nuovamente superato causa anzianità dai futuri PAS, ovvero coloro che sono stati bocciati alla stessa selezione del TFA (nonostante il vantaggio di punteggio garantito dal servizio) o hanno ritenuto di non parteciparvi in attesa del percorso speciale, facilitato e senza selezione, istituito su spinta dei sindacati.
Che poi molte cose dette dal “detrito di edificio scolastico inagibile” (nickname di sublime e subliminale benaltrismo) siano giuste non v’è dubbio, sebbene personalmente non comprenda le ragioni della sicurezza con la quale dichiara apoditticamente che “il tfa non svolgeva alcun tipo di selezione qualitativa, era solo un dispositivo atto a scoraggiare l’intrapresa dell’attività di insegnante ai giovani laureati, nonché a creare una selezione quantitativa stile migrazione delle anguille. e basta” (a dire il vero era l’unico strumento aperto dal 2007 a oggi per favorire l’ingresso dei giovani, e non giovani, all’insegnamento).
Ma vogliamo anche riflettere sulla questione specifica TFA senza tirare sempre in ballo la guerra tra poveri, ognuno ha le sue ragioni, è a monte che bisogna andare (cit. ragionier Folagra) e sinistrismi vari?
Finisco col ringraziare Claudio Giunta per la chiarezza e l’interesse alla questione, nonché la redazione di LPLC per la riproposizione dell’articolo.
Mi riconosco nel tipo dell’”essere umano più serio, zelante, motivato e dedito alla causa” che, se non proprio “dissuaso dall’intraprendere la carriera di insegnante” – l’ho già intrapresa -, almeno può definirsi “mese dopo mese perdente per strada un pezzo di motivazione”.
Più praticamente, aggiungo qualche altro nodo.
1) Ha ragione Claudio Giunta: la logica dei “punti” con cui si procede per anzianità nelle graduatorie è ormai avvitata in una spirale perversa, perché non c’è un rapporto diretto tra punti e qualità professionale. Sono sistematiche le carriere fatte, ad esempio, nel sostegno, solo allo scopo di entrare di ruolo sulla propria materia. No, non indignatevi: certo, ci sono anche quelli per nulla bravi, ma conosco anche insegnanti BRAVISSIMI che fanno così solo perché così sono costretti a fare dal sistema. Se insegni musica, arte, filosofia, educazione fisica, rischieresti di morire dentro la graduatoria, di entrare in ruolo a 5 anni dalla pensione (cito casi a me noti), se sei un giovane insegnante di non lavorare. Si chiama scelta obbligata: farsi dieci anni di purgatorio, se basta, in un mestiere per il quale non hai la vocazione, sperando però poi di fare il gran salto. Impari a insegnare musica, arte, filosofia, ecc…? No, però magari all’università eri strepitoso intellettualmente e lo Stato così ti ha solo avvilito e sottoccupato (al di là del fatto che secondo me i docenti dovrebbero fare tutti un anno di tirocinio sul sostegno, dopo quello sulla materia, durante l’abilitazione: s’impara un sacco. Poi però ciascuno dovrebbe poter perseguire le proprie aspirazoni).
Per sciogliere il groviglio, non basta, come fece quel personaggio discutibilissimo che era il consigliere della Gelmini, Max Bruschi, sbottare con un “ma è una vergogna, adesso con le nuove norme non si potrà più usare il sostengo come passerella!” e prender decisioni muscolari. Perché di solito succede questo: prendi il ruolo sul sostegno e, se prima al secondo anno potevi chiedere il passaggio alla tua materia, ora, a ruolo preso, ti fai altri cinque anni di purgatorio. Lo scopo forse sarebbe quello di dissuadere dall’intraprendere la scalata chi non è motivato, in realtà è cattiveria. Si vuole far vedere che non siamo lassisti. Forse che il problema andrebbe risolto alle pendici, quando si inizia la scalata? Forse che gli insegnanti non son tutti esseri immorali che usano i poveri ragazzi con disabilità per farsi i loro sporchi punti, è solo che voglion lavorare e magari voglion fare proprio lavorare da insegnati? Affrontata come l’affrontava Bruschi e come molti affrontano i problemi della scuola assomiglia tanto al circolo vizioso: voglio far ripartire l’economia se no i consumi mi si deprimono, per farla ripartire ho bisogno di soldi, i soldi non li ho, alzo l’Iva, l’economia mi si deprime ancor di più.
2) Forse ci sono troppe persone che in Italia premono per fare gli insegnanti per la semplice ragione che specie con certe lauree in tasca, faticheresti a trovare un altro lavoro. Il problema però si sposta alle università: faranno test d’ingresso rigorosi e Lettere, Filosofia, Lingue, … per garantire che il percorso intrapreso, per quei pochi o tanti che lo intraprenderanno, sia produttivo? Possono permettersi le Università, con questi chiari di luna finanziari, di autolimitare i propri introiti, restringendo gli accessi? E’ il tema della bolla formativa individuato da “detrito”. Vale anche per la formazione post-laurea. Fossi un rettore, io non ci rinuncerei.
Ma anche: e se il problema del precariato, cioè dell’eccessivo numero di aspiranti all’insegnamento, dipendesse in ultima analisi da ragioni strutturali socio-economiche sulle quali non riusciamo a intervenire neanche ragionando sull’università?
Ma anche: e se il problema fosse che, in ultimissima analisi, investiamo una parte ridicola del nostro Pil in istruzione e se invece ne investissimo di più potremmo assorbire molti precari (bravi), raddoppiando il numero di docenti, così che un insegnante invece di avere una classe di 30 allievi ne avrebbe una di 15? Per inciso, sarebbe l’unico modo per fare questa fantomatica didattica laboratoriale in cui al centro si mette lo studente: credetemi, con 30 studenti, ma anche con 23, di certo non riesci a farla.
Ma sto sognando: guardavo un film finlandese. Torno in Italia).
3) I poveri abilitati al Tfa non vengono fatti entrare nelle graduatorie, perché quelle sono ancora sovraffollate da noi sissini. Forse non avrebbe cambiato granché dal punto di vista quantitativo, ma se Profumo, invece di inventarsi un concorso in cui ha rimesso in gioco persone che mai avrebbero pensato di fare gli insegnanti o che comunque mai si erano abilitate per farlo (l’ha fatto “per meritocrazia”: si sa che noi sissini l’abilitazione l’abbiamo trovata per terra passeggiando in campagna), almeno avrebbe sfrondato un po’ le graduatorie, garantendo la liberazione di qualche posto per i nuovi arrivi.
Cioè, sto dicendo che sono d’accordo: lo scorrimento ordinato fondato su selezioni a cadenza fissa è l’unico modo per dare un po’ di tranquillità e certezza ai futuri docenti. Ma dico anche questo: attenzione alle parole. Se uno (Profumo) si mette in testa che lo scorrimento ordinato deve per forza chiamarsi “concorso”, finisce per indirne davvero uno e per duplicare il percorso, perché uno già esiteva (Sis + inserimento in graduatoria), anzi per sovrapporsi allo scorrimento ordinato di quel primo percorso, di fatto inceppandolo (se si potesse parlare di inceppamento per un meccanismo che già abbastanza inceppato era di suo, e non per colpa di Profumo).
(Sembrerà che sia troppo interessato personalmente in tutto questo. No, anche se ancora non so se arriverò in fondo, sto facendo il concorso – sì, in alcune regioni ancora non si è concluso, ma non è colpa dei commissari che correggono – e ho già superato le prime due prove. Dunque potrebbe essere davvero la mia via d’accesso al ruolo. Ne parlo male solo perché qui non è la mia salvezza personale che conta, ma quella del sistema. Se entrerò di ruolo sarà come una specie di manna dal cielo. Va bene che siamo un paese cattolico, ma i miracoli non mi sembrano sistemi sensati di selezione del personale docente… poi sarei costretto a ringraziare Profumo, che sarebbe un bel contrappasso… sic).
La proposta di anticipare il disegno di legge Aprea in Lombardia, avanzata a suo tempo dal governatore Formigoni, ha trovato attuazione, sia pure a titolo sperimentale, pochi mesi dopo che era stato indetto dal ministro Profumo il concorso nazionale che si sta ora concludendo. Così nella lombarda Vandea berlusconiano-leghista si è dato il via alla chiamata diretta dei presidi, fornendo un esempio quanto mai istruttivo per chiunque voglia comprendere quale sia la politica scolastica che si va delineando. Il principio fondamentale che caratterizza il modello di scuola proposto dal Pdl e dalla Lega Nord (con significative assonanze e riprese più o meno temperate anche nel campo del centrosinistra) è infatti la distruzione non solo del diritto allo studio inteso come bene realmente pubblico in quanto universale e indivisibile, ma anche della stessa libertà di insegnamento dei docenti intesa come garanzia della loro responsabilità verso la Repubblica: diritto e libertà che vengono sostituiti da una concezione dell’istruzione privatistica e mercantile, familistica e localistica, in apparenza meritocratica e in realtà clientelare. Tale concezione, i cui germi erano già presenti all’interno della legge sull’autonomia scolastica, emerge con chiarezza dalla lettura del disegno di legge Aprea: così, dall’esaltazione dell’«autonomia degli individui rispetto alle proprie scelte e alla propria vita» (autonomia che, come risulta dagli altri articoli, costituisce il presupposto ideologico della coincidenza economica, che «la competizione fra una pluralità di offerte» dovrà assicurare, fra quantità e qualità del ‘diritto allo studio’ e quantità e qualità della domanda solvibile rappresentata da tali individui) discendono due corollari che colpiscono al cuore l’attuale sistema dell’istruzione pubblica, cioè il delicato equilibrio fra tre diritti costituzionali equipollenti (il diritto ad apprendere degli alunni, la libertà di insegnamento dei docenti e la libertà di scelta delle famiglie). Per rilanciare la scuola occorrerebbe, secondo la suddetta concezione, manovrare tre leve: “valorizzazione del merito e piena applicazione del principio di autonomia scolastica”, “valorizzazione del merito degli studenti” e, infine, “valorizzazione del merito dei docenti”. Come? ‘In primis’, passando per il “rafforzamento dei poteri organizzativi e disciplinari dei dirigenti scolastici con compiti di gestione amministrativa e di reclutamento del corpo docente” (il principio è, in questo caso, il seguente: “tutto il potere ai presidi”). Proseguendo, poi, per “la promozione di una piena concorrenza tra le istituzioni scolastiche, mediante l’adozione di meccanismi di ripartizione delle risorse pubbliche in proporzione ai risultati formativi rilevati da un organismo terzo” che pubblicherà “annualmente una classifica regionale delle istituzioni scolastiche fondata su parametri trasparenti e verificabili” e attraverso “il riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private” (ecco il sistema duale pubblico-privato con i buoni-scuola pubblici quali graziosi regali alle famiglie borghesi che scelgono di iscrivere i propri figli alle scuole private). Per gli studenti in difficoltà – prosegue il disegno di legge Aprea – occorrerebbe prevedere “all’interno del piano dell’offerta formativa delle singole istituzioni scolastiche, anche consorziate tra loro, appositi moduli integrativi obbligatori che diano l’opportunità, senza oneri a carico dello studente, di recuperare nel corso dell’anno eventuali insufficienze nelle singole materie” (in sostanza, dei doposcuola ispirati al ‘capitalismo compassionevole’) e per i più bravi incentivare “gli interventi volti alla concessione di borse di studio legate al merito, ferma restando la necessità di garantire un sistema adeguato di sovvenzioni a studenti meritevoli in stato di necessità” (come sopra). Per spingere i docenti a lavorare “meglio” dovrebbe essere eliminato, insieme con il contratto collettivo nazionale di lavoro, “ogni automatismo nelle progressioni retributive e di carriera degli insegnanti” (il principio è quello ‘premiale’ e si può formulare in questi termini: “sono i presidi che valutano gli insegnanti e decidono quali siano gli insegnanti meritevoli di ottenere aumenti retributivi”). Infine, bisognerebbe liberalizzare progressivamente la professione docente “attraverso la chiamata nominativa su liste di idonei, con un periodo di prova propedeutico all’assunzione a tempo indeterminato”, e dare “la possibilità alle singole istituzioni scolastiche di stipulare con singoli docenti contratti integrativi di tipo privatistico” (ciò significa aggravare il precariato nella scuola, condendolo con una buona dose di clientelismo). Di fatto, la libertà di insegnare dei docenti viene vanificata, in quanto viene seccamente subordinata al diritto di apprendere degli allievi e alla libertà di scegliere delle famiglie, come se i docenti, retrocessi allo ‘status’ premoderno di istitutori privati, non fossero titolari di alcuna specifica competenza. In realtà, il famoso ‘concorsone’ di Berlinguer, contro il quale una parte consistente della categoria insorse come un sol uomo, si può paragonare ad una gentile carezza rispetto al trattamento riservato ai docenti da questo modello di controriforma scolastica, che si può paragonare invece ad una scarica di poderose pedate nelle terga, con cui i docenti vengono spediti nella fossa dei leoni di un mercato selvaggio senza troppi complimenti e con tanti saluti sia alle antiche graduatorie sia all’articolo 33 della Costituzione che garantisce contestualmente la libertà di insegnamento del singolo docente e l’indipendenza della scuola dall’esecutivo politico. Dunque, nel quadro della ‘devolution’ regionale e dell’autonomia scolastica, che si rivelano sempre di più le teste di turco della destrutturazione della scuola pubblica, questo modello, la cui sperimentazione si prevede che venga estesa dalla Lombardia alle altre regioni, ridarà vita ad un sistema di tipo feudale-assolutistico che, oltre ad essere in contrasto con le norme di legge esistenti e con la stessa Costituzione che sancisce il carattere pubblico e nazionale della scuola, aggraverà i pesanti problemi occupazionali esistenti in questo settore (problemi che non possono essere risolti con l’albo regionale e che devono invece essere affrontati a livello nazionale con una efficace politica di stabilizzazione del personale). Non credo che occorra procedere oltre in questa sintetica esposizione. Sarebbe già una buona cosa se la riflessione su tale politica scolastica aiutasse a comprendere che il sistema dell’autonomia è il cavallo di Troia delle strategie neoliberiste in campo educativo, e che è per mantenere tale sistema che le ‘riforme’ succedutesi in questi anni hanno creato l’agenzia per la valutazione, imposto i tagli lineari e cronicizzato la precarizzazione. Il fine della legge sull’autonomia scolastica è stato ed è lo scardinamento del carattere pubblico e nazionale del sistema dell’istruzione (in cui i diversi tipi di scuola e i singoli istituti scolastici sono articolazioni settoriali e locali di un progetto educativo nazionale) e la sua sostituzione con un sistema solo formalmente pubblico, organizzato con logica privatistica in cui ogni singolo istituto, posto nelle condizioni giuridiche di procacciarsi finanziamenti e risorse (ecco il ‘fund raising’ evocato con alata espressione inglese dal ministro Carrozza!), progetta se stesso in competizione con altre scuole. Perciò la questione del reclutamento non può essere separata, come tende a fare anche in questo dibattito chi critica gli effetti particolari senza mettere in luce le cause generali, dalla questione, che è decisiva, della omogeneità degl’indirizzi perseguiti, sui diversi terreni di intervento, dalle politiche scolastiche delle classi dominanti, a meno che non si rinunci preliminarmente sia a combattere una controriforma del sistema educativo radicalmente classista e di stampo neomalthusiano sia a dare vita, durata e spessore ad un rilancio della mobilitazione unitaria degli insegnanti, degli studenti, dei genitori e del mondo del lavoro, che coniughi l’istanza del riconoscimento del merito individuale e la difesa del diritto allo studio in una scuola pubblica e nazionale, qualificata e formativa.
Trovo il dibattito molto interessante e, da insegnante ormai di ruolo da molto tempo, sottoscrivo quanto affermato, con molta passione da “Detrito di edificio scolastico inagibile”. Per entrare in ruolo, dopo anni di precariato, ho sostenuto il Concorso nazionale per titoli ed esami (quello del 1999, l’ultimo se non erro di quelli in cui era prevista la prova di traduzione dal greco al latino), nonché l’esame del Corso abilitante. Il corso e il concorso si sono svolti in parallelo e li ho preparati insegnando, precaria, in un liceo scientifico. Non c’è dubbio alcuno che lo studio matto e disperatissimo e solitario necessario per sostenere quattro o cinque ore di lezione tutti i giorni a scuola mi sia valso più di mille corsi e di svariati manuali. La realtà è che ciò che serve sapere per insegnare non solo non è da luminari, come sostiene il collega, ed è del tutto oscuro ai pedagogisti, sulla cui penosa consistenza sorvolo con pietà, ma non c’è neppure nei manuali di storia letteraria e anzi penso che per sapere insegnare sia opportuno aver dimenticato buona parte di ciò che c’è sui manuali, senza che si sia spenta la passione per la letteratura e la poesia. Spesso mentre predisponevo gli appunti per una lezione, in cui tentavo disperatamente di comprimere 50 pagine di Luperini (storia letteraria) in due ore di lezione, mi tediavo da sola e sentivo infinitamente il peso, la noia, l’infinita insensatezza dell’impresa. Allora, per ritrovare slancio, iniziavo a sfogliare libri seguendo fili di pensieri e mi si componevano nella testa lezioni molto più interessanti, perché a mio avviso i bravi insegnanti, almeno quelli che ho avuto la fortuna di incontrare io, sono quelli che ti innamorano di una poesia, di un romanzo, anche di un solo verso, di un’immagine. E se t’innamorano è perché a loro volta sono innamorati. Arrivo a dire che si può anche sapere poco, ma sapere davvero bene quel poco. Arrivo a dire che si potrebbe anche insegnare solo Dante, ma se lo si insegna come è stato,- per fortuna, per avventura lo ammetto-, insegnato a me, vale tutta la letteratura del mondo. La mia maestra delle elementari era una onestissima donna emigrata a Roma da Isernia con cinque figli e mi ha insegnato la storia del Risorgimento in un modo che non ho mai più dimenticato, trasmettendomi autentica passione, ci faceva leggere il libro Cuore e Pinocchio e Gian Burrasca, non era certo un genio, un’innovatrice -per fortuna allora non esistevano corsi di aggiornamento- ma le devo moltissimo e la ricordo con affetto e gratitudine. È questo.
L’anno scorso ho seguito un giovane tirocinante del tfa, preparatissimo: ha fatto lezione diverse volte al mio posto e mi ha pure corretto un pacco di compiti – pare rientrasse nei suoi “doveri”-; mi sentivo in grande imbarazzo per lui, perché era evidente che veniva sottoposto ad uno stress inaudito e del tutto inutile: gran parte degli argomenti trattati nelle ore di lezione all’università gli erano noti e davvero con molta serenità avrebbe potuto ricoprire il mio ruolo.
La mia proposta: al termine dell’università, quindi ogni anno, un Concorso nazionale per accedere all’insegnamento, serio e rigoroso, ma non impossibile e, possibilmente, senza quiz a risposta multipla e possibilmente, senza errori nella formulazione delle tracce dei temi.
Chi supera il concorso inizia ad insegnare subito, ma dopo due o tre anni deve essere confermato e per esserlo va valutata la sua attività didattica: programmazioni, percorsi svolti, progetti realizzati; va assunto il parere del preside, di una commissione di docenti appositamente nominata dal Collegio e degli studenti e va sostenuto un altro esame consistente in una o più lezioni su un argomento scelto o assegnato (meglio però se scelto dal candidato). L’esaminato può anche decidere di rinunciare alla conferma, se ha nel frattempo scoperto che insegnare non fa per lui e ha trovato qualcosa di più interessante o consono.
Grazie per l’attenzione
Cara Francesca Vennarucci, concordo del tutto con la sua proposta!
mp
Si richiede, in effetti, troppo – in termini di tempo ed energie – agli aspiranti nuovi insegnanti. Non c’è proporzione tra l’impegno richiesto, prima e dopo, e l’importanza che poi, in realtà, si attribuisce in Italia alla professione docente, anche in termini di riconoscimento economico. Ad una categoria spossata e, ormai, del tutto sfiduciata, si è persino tentato, pochi mesi fa, di imporre sei ore di insegnamento in più gratis. Ora si parla, ad esempio, di “didattica per competenze”. A parte il fatto che è dagli anni ’80 che il costruttivismo didattico cambia il lessico ma non la sostanza (il mio atteggiamento è di parziale e disincantata curiosità), come si può pretendere che, oberati di lavoro, ci possa essere una reale revisione del nostro ruolo in aula? Dove trovare il tempo necessario, la serenità che rende possibile la motivazione? Alcune scuole si sono meritevolmente attivate, sulla base del volontariato messo in campo, ma non credo che questo debba/possa essere il modello di riferimento. In ogni caso, l’attuale tormentone contro la “lezione frontale” (che, certamente, non può essere l’unica modalità di insegnamento) ha a che fare con l’indifferenza per i contenuti, la sottovalutazione e il disinteresse che si ha per la cultura rielaborata e vissuta da una persona viva, sapere incarnato, che trae dalla sua esperienza sintesi, efficacia, seduttività. I pedagogisti e gli esperti di didattica a vario titolo, nei cui confronti la maggioranza degli insegnanti è giustamente diffidente, tendono ad una visione tutto sommato arida e impersonale dei processi di apprendimento. Siamo sempre lì: non si trasmette nulla senza la passione per la propria materia e, naturalmente, senza una vera conoscenza della stessa. A prescindere dagli assi culturali, dalle competenze chiave di cittadinanza, dagli eqf (e bes, pof ecc.)
Se finora la formazione delle nuove generazioni è spesso riuscita ad opera di volenterosi docenti innovatori, solo parzialmente riconosciuti, la prospettiva è ora desolante ed inquietante. Desolante perché impone nei fatti un ritorno alla pura e semplice lezione frontale e qualsiasi eventuale potenziamento formativo è posto in capo ai risparmi della scuola stessa. Inquietante perché alla luce della mole di impegni sistematicamente ‘delegati’ dal parlamento al governo si tende ad esautorare ogni prospettiva di tutela a livello sindacale e di promozione della professionalità a livello associazionistico. Il rischio è allora quello di una saldatura tra i processi di deprofessionalizzazione ed una miope tecnofilia (quando non tecnolatria) informatica. Il risultato è una modernizzazione doppiamente conservatrice, sia perché separa le conoscenze culturali soggettive dalle condizioni economico-sociali a cui sono connesse, sia perché manca, in tal modo, l’obiettivo della crescita consapevolmente critica di docenti e studenti, liberando un campo fin tropo vasto a nuovi modelli, non importa se voluti o non voluti. La preoccupazione è quella di dover assistere ad uno spettacolo nel quale molti insegnanti sono (siano?) indotti, come osservava Spinoza a proposito degli uomini in genere, a “combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la propria salvezza”.
Anche io sottoscrivo quanto scritto da Vennarucci e anche quanto scritto da Durando: non si poteva dire meglio e con una capacità di sintesi che le invidio.
Io però collegherei quanto è venuto fuori in questo post con quanto sta venendo fuori nel post di oggi, sui “piccoli fratelli”. La scuola è ormai invasa dalla richiesta di formalizzazione burocratica d’ogni suo respiro e gesto. Se non si sconfigge quel nemico, non potremo parlare di cultura e di come trasmetterla.
Neppure di come selezionare nuovi insegnanti, visto che ad oggi la chiamerei piuttosto selezione di nuovi impiegati dell’enorme e folle meccanismo burocratico così acutamente descritto da Bertone.
Salini Impregilo: il coraggio del lavoro per costruire il futuro
“Il Coraggio del lavoro per Costruire il futuro” è la nuova campagna Salini Impregilo per far sapere a tutti gli intrepidi amanti delle infrastrutture che stiamo cercando 15.000 pionieri in tutto il mondo da assumere nell’ambito del piano industriale del Gruppo.
http://www.salini-impregilo.com/sala-stampa/video/pionieri-campagna-salini-impregilo-il-coraggio-del-lavoro-per-costruire-il-futuro.html