di Filippo La Porta
[I primi saggi dell’inchiesta sul futuro della letteratura, quelli di Giancarlo Alfano e Alberto Casadei, si leggono qui e qui]
Anche perché siamo stati tutti sopraffatti da un eccesso di teoria letteraria (verbosa, supponente, più suggestiva che persuasiva), e sapendo che la Teoria gonfia sempre di superbia (De Sanctis, citato da Contini), continuo a essere a favore di una risposta moto empirica che diede Alfonso Berardinelli, però “corretta” lievemente: letteratura è tutto ciò che viene detto in modo interessante (Berardinelli aggiungeva “tutto ciò che di interessante viene detto in modo interessante”, mentre io credo che qualsiasi evento, anche banale o minuscolo – un impiego in una compagnia assicurativa, un risveglio mattutino sul proprio letto – se detto in modo interessante diventa interessante e ci riguarda tutti, come mostrano Svevo e Kafka). Ora, chi decide che quella cosa è detta appunto “in modo interessante”? Ogni volta bisogna argomentarlo di nuovo, con pazienza e rigore, avendo in mente lo stato della lingua, la mappa dei poteri, la articolazione del conflitto sociale in questo momento, la storia letteraria, la direzione in cui sembra muoversi la letteratura mondiale (insomma al critico serve una competenza multipla: stilistica, letteraria, sociologica, antropologica, comparatista…)
La attuale, pervasiva narratività a me sembra un fenomeno tutt’altro che positivo: oggi chiunque, sia egli biologo, leader politico, sociologo, giornalista, giurista, architetto, deve “raccontarci una storia”. Una volta si diceva “Non contarmi storie” per esprimere il proprio desiderio di sapere la verità, di non essere ingannati. Oggi invece tutti vogliono raccontarci storie, in qualsiasi ambito della nostra esistenza. Probabilmente il fenomeno deriva dalla pubblicità, dove si è sperimentato che appunto raccontare una storia, possibilmente avvincente, è il modo migliore per persuadere. Nella modernità liquida storytelling equivale a tecnica di marketing e moda manageriale. Eppure il fascino discreto che oggi la letteratura esercita sulle altre discipline e sugli altri linguaggi ha molte implicazioni, anche positive, e uno studioso informatissimo come Remo Ceserani si preoccupa di documentarle in modo puntuale nel suo Convergenze. Gli strumenti letterari e le altre discipline (Bruno Mondadori). Due sono i procedimenti letterari che vengono riusati: la Narrazione e la Metafora. A volte proficuamente e altre volte invece per impreziosire e ornare il discorso, per renderlo allusivo, vago e suggestivo (come se la letteratura fosse vaghezza e non precisione!). Certo una maggiore attenzione al linguaggio, nei vari ambiti disciplinati, è auspicabile. E dunque un controllo maggiore sulle tecniche e strategie retoriche. E così uno storico assai presente nel dibattito degli ultimi decenni, Hayden White, pur consapevole che la storiografia è impastata fin dall’inizio con il mito e la letteratura, ci ricorda che “raccontare” è solo una delle possibili modalità conoscitive, accanto a “descrivere” e “analizzare”. Diverso però il caso della medicina, dove l’avvicinamento alla narrazione può significare maggiore attenzione psicologica al paziente (considerato come individuo vivente, libero) e alla sua soggettività.
Certo che la letteratura è in pericolo. Il mondo nuovo non sa che farsene. E anzi il piacere solitario della lettura implica fatica e genera noia. In una puntata del cartone iper-trasgressivo South Park, che si intitola Lesbiche alla riscossa troviamo una piccola lezione sulla letteratura oggi, e sul suo probabile destino. I quattro ragazzini terribili nel week-end devono preparare una relazione scolastica sul Vecchio e il mare di Hemingway ma non gli va per niente e così ingaggiano dei poveri immigrati messicani, trovati per strada, per affidargli a pagamento il compito. Questi leggono il romanzo e poi il lunedì mattina lo raccontano ai ragazzini commuovendosi fino alle lacrime (anche se poi i riassunti scritti li hanno spediti per errore a amici e parenti). La “morale” degli autori è chiara. Ci avviamo verso un mondo dove la letteratura, l’arte, la nostra tradizione culturale, che non abbiamo più tempo e voglia di coltivare, verranno frequentate dietro compenso solo dai migranti e dai paria. Loro, non le classi dirigenti future (sempre più ignoranti, inconsapevoli, anaffettive), sono gli eredi e custodi involontari dell’umanesimo occidentale.
Da un punto di vista di storia letteraria non saprei rispondere in poche battute. Sì, è vero una letteratura perlopiù cortigiana e aulica, una lingua libresca e retorica, ma anche: quanti capolavori nei secoli! Diciamo che ci sono stati diversi usi di quella lingua apparentemente morta. Quanto all’oggi mi sembra che la ormai leggendaria autoreferenzialità della nostra narrativa sia stata superata, nell’epoca del trionfo del reportage e dell’imporsi del neo-neorealismo. Per Franco Brevini, grazie a Mike Bongiorno e alla TV c’è stata l’unificazione lingustica del paese, e finalmente la lingua letteraria non è più selettiva e artificiale: quasi coincide con quella parlata. Però secondo lui con questa lingua ancora non è stato scritto un capolavoro degno dei Promessi sposi o della Coscienza di Zeno! Insomma, se è giusto che oggi uno scrittore si serva della lingua comune (media, colloquiale) dovrà poi rielaborare questa lingua per renderla davvero personale ed espressiva. Probabilmente la ricerca è sul terreno della ibridazione: tentare cioè di mescolare registri espressivi diversi, il linguaggio dello spot pubblicitario con quello della letteratura alta, la prosa veloce del giornale con una prosodia vicina alla lirica (da Veronesi ed Ammaniti a Voltolini e Mari). Nessuno può più pensare che basti “imitare” la realtà. Diceva infatti Paolo Volponi che per rappresentare un mondo tumultuoso occorre inventare una lingua “in movimento”: cinetica, flessibile, capace di aderire alle particelle “subatomiche”, sempre in movimento, dell’esperienza.
Il nostro canone oggi? Come sappiamo i cultural studies hanno decostruito con energia e piglio polemico qualsiasi pretesa di canone occidentale osessivamente eurocentrico, bianco, maschile, etc… Non è più possibile, evidentemente, tornare indietro. Ormai la varietà illimitata e la mescolanza dei canoni, il multiculturalismo e il meticciato linguistico costituiscono l’orizzonte della nostra epoca. Però credo che non si tratti di contrapporre al canone occidentale ipotesi di canoni orgogliosamente “etnici” o terzomondismi o postcoloniali, quanto di capire cosa oggi distingua uno scrittore vero, legato alla sua piccola patria ma capace di trascenderla, e uno scrittore finto, senza patria e senza radici, programmaticamente “internazionale”, simile alla musica insapore che si ascolta in ascensori e aeroporti (insomma nei cosiddetti non-luoghi del nostro paesaggio urbano: uno scrittore da non-luoghi, o se preferite un non-scrittore). Più ancora di appartenenze e identità collettive conta infatti l’individuo singolarmente preso, con la sua insostituibile identità, fatta di tante patrie, un po’ reali e un po’ immaginarie (e anche per questo, riprendendo la riflessione di Sollors, è più importante, in generale, l’identità legata al consenso, alla scelta, piuttosto che quella legata alle radici, a qualcosa di già dato). Per schematizzare molto potremmo distinguere quattro categorie di scrittori:
1) Scrittori provinciali, legati ad una piccola patria, ma incapaci di uscirne, e dunque irrimediabilmente locali.
2) Scrittori provinciali, legati ad una piccola patria ma capaci di renderla universale, e dunque scrittori “universali”
3) Scrittori che nascono già internazionali, diciamo un International Style da non-luoghi.
4) Scrittori falsamente etnici, come quelle coperte peruviane che trovare in vendita negli shop dei non-luoghi…
Credo che su questi temi si siano addensati molti equivoci. Una utile riflessione in proposito la fa Raffaele La Capria nello Stile dell’anatra, quando distingue tra piccola identità (che si definisce come esclusione dell’altro, proprio perché si sente debole, insicura) e grande identità (che si distingue invece come inclusione dell’altro, poiché è forte, capace di pensare liberamente). E aggiunge poi che tutti i grandi scrittori partono sempre da un punto del mondo, da luogo determinato – dalla qualità dell’aria, dal paesaggio, dalla luce, dal suono di un dialetto – e poi però sanno dare a quel luogo un valore universale e in certa misura se ne liberano; e cita Garcia Marquez e Facondo, Canetti al paesino bulgaro di Rustschuk, Kavafis e Alessandria, Kafka e Praga (mentre nota come Napoli si sia bloccata, e come rimasta ai margini, poiché non ha saputo prendere coscienza di sé, della rivoluzione del 1799, dei conflitti e dei traumi conseguenti, imprigionata in un linguaggio ossificato e in una recita dell’armonia e della pacificazione…). È vero, come dice Fuentes, non essendoci più oggi un centro e una periferia siamo tutti eccentrici, però ciascuno di noi è eccentrico in modo diverso. Ed è questa diversità individuale la cosa più interessante da indagare.
Per esemplificare il mio discorso citerò un caso di Scrittore provinciale, locale, divenuto poi universale e invece uno scrittore International Style. Il primo è Ignazio Silone: il suo Fontamara, epopea dei cafoni, dei contadini del Sud del mondo, venne scambiato in Croazia per un testo del folklore locale, mentre in India nel 1938 Raja Rao scrisse un’opera a quella ispirata, Kanthapura. Mentre Umberto Eco ha scritto appunto non-romanzi, o romanzi finti, svuotati di ogni connotazione individuale; dei parchi a tema, giganteschi falsi che fanno sentire i lettori colti e smaliziati.
Più che di “realtà” mi piace parlare di “verità”. L’unico “impegno” di uno scrittore è nei confronti della verità e non certo nei confronti di una parte politica, come per decenni si è pensato. Paolo Nori ricordava la frase di Simone Weil: “quasi ovunque il fatto di prendere partito… ha sostituito il fatto di pensare”. Oggi pensiero critico si sostituisce in Italia lo schierarsi, l’esibire i propri consumi culturali “a norma”, le proprie collaborazioni ai quotidiani “giusti”, per credere di sentirsi in sintonia con gli oppressi del pianeta. Ma torniamo alla verità: verità è qualcosa che si inventa. Diceva Machado che si mente per mancanza di immaginazione! Il nostro giornalismo è pieno di menzogna e di sensazionalismo proprio perché privo di immaginazione. Ma proviamo ad affrontare la cosa su un versante filosofico. Da un certo punto di vista la mia attività di critico “militante” si potrebbe riassumere proprio in un uso etico-conoscitivo della letteratura, a volte anche spericolato e ai limiti della correttezza filologica (del grande critico americano Lionel Trilling è stato detto che è “uno storico della morale – historian of morality – che lavorava con materiali letterari”…). Quando lessi il saggio di Simone Weil sull’Iliade poema della forza ne fui folgorato. Può darsi che forzasse in alcuni punti il testo omerico ma ne “liberava” tutto il contenuto morale, per la sua (e nostra) attualità incandescente. Il filosofo analitico (ma non in senso dogmatico) Hilary Putnam ha scritto che la grandezza del Viaggio al termine della notte di Céline non sta tanto nel convincerci che il mondo è un girone infernale, ma nel mostrarci con esattezza come vive chi la pensa in quel modo. Letteratura come empatia, come identificazione con l’altro. Putnam mi ha insegnato che per stabilire la verità o falsità di un enunciato concorrono non solo fatti linguistici ma anche dei fatti oggettivi, esterni al linguaggio… E così scongiura il rischio di “perdere” il mondo. Per lui la verità, benché non definibile (impossibile trovarle una “sostanza” o una “proprietà” che resti costante in ogni situazione), indica comunque qualcosa che “fa resistenza alle nostre teorizzazioni limitandone l’arbitrarietà”. Mica possiamo parlare di tutto a piacimento! E qui veniamo a quella che mi sembra la acquisizione fondamentale di questo “realismo” filosofico: dietro a tutte le nostre applicazioni della parola “vero” c’è come una “disposizione naturale”, la intuizione prefilosofica – legata al senso comune – dell’esistenza di un mondo esterno. Singolare come i ragionamenti più sofisticati giungano alla fine a rivalutare una conoscenza intuitiva! Così si salva, tra l’altro, la teoria della verità come corrispondenza alle cose, pur con tutta la sua problematicità. E qui torniamo alla letteratura. La verità che incontriamo nei romanzi, per quanto non scientifica, arricchisce la nostra conoscenza del mondo. Molti degli scrittori antologizzati da Andrea Cortellessa nel recente Narratori degli Anni Zero (“L’Illuminista”, Ponte Sisto) vi girano intorno, dimostrando in ciò una sensibilità che va oltre il postmodernismo: per Pascale la letteratura studia l’individuo in relazione a un insieme, per Lagioia “è un ponte saldissimo con la tradizione”, per Bajani “batte dove il dente duole”, per Gabriele Pedullà non deve imitare la velocità dei videoclip ma valorizzare la propria specificità cognitiva, Vasta aspira a “rifondare le condizioni di un consorzio umano”. Saviano poi si mostra ossessionato dalla verità, che non è mai “misurabile” e ci mette in relazione con il passato e le sue utopie irrealizzate. Ora, parafrasando Putnam credo che la verità particolare della letteratura (una verità che ha bisogno di molta immaginazione) riguardi la relazione tra idee e destini, la congruenza tra visioni del mondo e stili di vita. La Cognizione del dolore non ci chiede di aderire alla visione del mondo del protagonista, alla sua tetra misantropia e alla sua “rancura”, ma ci mostra con “esattezza” come vive, cosa sogna, come agisce chi ha quella visione del mondo, e ne giudica i comportamenti (in ciò consiste la sua “etica”, non normativa né aprioristica). Per Morelli in letteratura “non si controlla nulla…”, e infatti la verità non è un effetto retorico, manipolabile a piacimento. E se ogni opera è “immagine del tutto nell’episodio” (Lotman), in questo tentativo di dire il tutto la parola letteraria non resta dentro se stessa (Walter Pedullà ha qui un accento autocritico quando dice che credeva che il linguaggio fosse tutto…), ma dovrebbe produrre un “attrito” con qualcosa che le fa resistenza (con un “fuori”, sia esso la realtà o l’esperienza o…). Dove non c’è attrito il tutto svapora.
A questo punto trovo un po’ “provinciale” continuare a parlare di ritardo e debolezza della nostra narrativa rispetto agli altri paesi. Franzen non è in alcun modo meglio di Siti. Davvero pensate che ogni giovane esordiente americano sia il nuovo Salinger, come viene trionfalmente annunciato? Quanto all’universalmente lodato Philip Roth, a parte il capolavoro Pastorale americana (1998), mi sembra che da dieci anni stia riscrivendo sempre lo stesso libro sulle sue ossessioni erotiche senili. Ammiro vari scrittori europei, ma li trovo anche molto ripetitivi. Houellebecq non ha più saputo eguagliare la qualità del primo “cattivissimo” romanzo (Estensione del dominio della lotta), McEwan si è inaridito, Marias lo trovo disossato, noioso, Saramago era diventato insopportabilmente ideologico…
Provo ad affrontare la questione da un altro punto di vista. Esistono ancora dei “minori” in letteratura? Con l’implosione del canone, e la sua dispersione in una miriade di canoni o microcanoni, ciascuno con una diversa gerarchia di valori, quei concetti di “maggiore” e “minore” si svuotano di senso. Non si tratta di contrapporre polemicamente al canone occidentale di Harold Bloom le letterature minori dei cultural studies, ma di capire che oggi ogni letteratura è “minore” senza però che vi sia una letteratura “maggiore” (ogni letteratura è decentrata pur in assenza di centro, ed è “non ufficiale” senza che ve ne sia una “ufficiale”…). Ed è “minore” perché nella modernità all’autorità della tradizione si sostituisce l’autorità della critica, e al gusto sociale – di corte – succede il gusto individuale. Alla critica dunque non corrisponde più una casta o corporazione di studiosi professionali, ma una funzione, presente in ciascuno, che si esprime nella capacità di argomentare. Oggi Internet e la democrazia letteraria rilanciano il lettore comune come critico, la cui unica autorità poggia su argomentazione e persuasione. In Rete può intervenire chiunque su qualunque libro e magari sbaragliare sul piano del discorso lo specialista. L’unico obbligo che ha è quello produrre, con rigore e pazienza, argomenti razionali in favore della sua tesi e così configurare un canone, per quanto provvisorio, limitato, parziale. Anche se, come sappiamo, in Rete prevale non certo l’argomentazione ma una critica tutta esclamativa e narcisistica. La Rete rispecchia la nuova classe media, la quale – protagonista del postmoderno – ha caratteristiche diverse dalla vecchia élite (vedi Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali): né ignorante né istruita, si potrebbe definire semi-istruita. Incerta nel giudizio e velleitaria nelle sue ambizioni, tende a usare la cultura come consumo chic e status symbol. Non intende riconoscere l’autorità di chicchessia, ma al tempo stesso non è in grado di esercitare il proprio discernimento su questioni artistiche. Il risultato sembra paralizzante. Però continuo a pensare che quando si mette in primo piano l’individuo – sempre un po’ indocile, imprevedibile (perciò ne diffidano marxisti e cattolici) – si liberano comunque potenzialità inedite e si scompigliano analisi sociologiche troppo deterministiche. Certo occorre trovare momenti e luoghi in cui il giudizio critico dei singoli, all’interno di una società di massa, possa formarsi, coltivarsi, autoeducarsi. Penso a gruppi spontanei di lettura – socialmente trasversali – , blog e riviste online, circoli di lettori in biblioteca…
Infine, mi sembra opportuno spiegare un po’ più distesamente le ragioni stesse del mio mestiere di critico militante (mestiere che peraltro ho iniziato a svolgere un po’ casualmente sulle pagine della rivista “Linea d’ombra”, fondata da Goffredo Fofi nel 1983: all’università, nell’epoca dei famigerati piani di studio, avevo sostenuto più esami di storia e filosofia che di letteratura…) . E lo farò anche dialogando idealmente con Alfonso Berardinelli che ha posto al riguardo alcune interessanti obiezioni di fondo in un articolo apparso sul “Foglio” dell’11 agosto 2012. Dico subito che mi riconosco a fatica in quel ritratto – disegnato da Berardinelli – di critico-Sisifo compilativo, lievemente masochista, occupato a recensire giorno e notte la debordante produzione letteraria italiana, dalla quale è inesorabilmente sopraffatto. Certo, nel nostro paese si pubblica troppo (tema cui ho dedicato il pamphlet Meno letteratura, per favore!, Bollati-Boringhieri). Ma nel caso del più recente Un’idea dell’Italia (Aragno) ho voluto raccogliere le recensioni dell’ultimo decennio. Limitandoci alla narrativa sono ottanta, una media quindi di otto ogni anno, non milletré. Troppe? Provo a rispondere tra un momento.
Confesso un debole: mi attrae l’attualità, mi appassiona la situazione dell’essere umano in questa epoca, il modo in cui riformula incessantemente antichi dilemmi. Mi piace dialogare con i miei contemporanei, e in particolare con quanti vivono nel mio paese e si esprimono nella mia lingua. Con chi altri dovrei farlo? E mi piace dialogare attraverso la narrativa, attraverso cioè un dizionario condiviso di mitologie (a volte scadenti, a volte sorprendenti), di gerghi e tic del presente. Per Berardinelli la letteratura italiana attuale, priva di memoria e vere motivazioni, non costituisce più un teatro interessante in cui osservare la eterna “commedia umana”. Ora, si può sempre preferire un altro osservatorio (c’è chi si appassiona al teatro della politica…), però nei romanzi italiani che recensisco, nella loro lingua, in qualche personaggio etc…, trovo sempre il tentativo di elaborare almeno una esperienza individuale. Non nego che spesso si avverta un declino rispetto alla narrativa della generazione precedente. Una volta ho scherzato sull’eredità-Calvino, invitando a vedere in tre scrittori “calviniani” di oggi il Calvino dimezzato, il Calvino rampante e il Calvino inesistente… Però non generalizzerei. Inoltre: nelle librerie americane non ci sono solo i due scaffali “fiction” e “nonfiction”, come nel mio indice di Un’idea dell’Italia, ma anche “literature”, dove si trovano Roth, Delillo, McCarthy, etc… Nel mio caso resta uno scaffale vuoto, perché credo che si dovrà aspettare qualche anno prima di riempirlo…. Uso le opere letterarie per dialogare con un pubblico sulle questioni etico-filosofiche che più mi premono. Dietro il mestiere di critico mi riconosco una passione di ritrattista, storico delle idee, diagnosta sociale, etc. Proietto sulla fragile letteratura di oggi, che sembra nata da se stessa, interrogativi troppo alti? Ma è proprio questo attrito a rivelarci qualcosa.
Forse siamo vicini alla situazione profetizzata nel 1928 da Svevo, in cui il pubblico della narrativa, così come il pubblico della poesia, sarà composto dagli autori stessi: “tutti scriveranno… ognuno leggerà se stesso”. Ma ancora per un po’ sembra che la narrativa continui a disporre di un pubblico e di un proprio mercato. Il che comporta alcune responsabilità per la critica. Davvero ottanta recensioni in dieci anni sono troppe? Se consideriamo che in Italia escono 570 titoli al giorno (di cui il 70% novità), non mi sembrano tantissime, specie per un “critico giornaliero” (può darsi che, come anche Berardinelli, io scriva troppi articoli, ma questo è un altro discorso). Rappresentano comunque una selezione. La critica è soprattutto giudizio e discernimento. E, mi sembra, nel nostro paese combatte ostinatamente le sue battaglie, per difendere un gusto e una idea di cultura che certamente ci vengono dal passato. Un volta Berardinelli, dopo aver scritto il dodicesimo articolo contro Umberto Eco, commentò – giustamente – che sentiva il dovere di farlo perché altrimenti nessun altro l’avrebbe fatto. Bene, se la critica non prova a dare un’ “idea dell’Italia” attraverso i libri di cui sceglie di parlare, chi potrebbe farlo? Dato che l’editoria non ha più i filtri di una volta (pubblica di tutto, purché contenga qualche trovata) il ruolo valutativo della critica mi appare oggi ancor più come un servizio “civico” e un’ecologia minima della cultura.
[Immagine: Gerhard Richter, Farben (gm)].
Mi pare evidente che qui si parli soprattutto del romanzo, più che degli altri generi letterari e artistici .
Già Berardinelli, alla fine del secolo breve, discuteva di romanzo-saggio, come della forma più adatta a cogliere l’animo, i gusti e la capacità di unire riflessione e realtà in uno stile novecentesco. Come ,negli altri paesi, il roman-journal, il racconto-documento fino allo storydelling oggi o la docu-fiction….
individuava nel saggio la forma più indicata per riflettere le irreducibili contraddizioni della realtà contemporanea:
Il saggio sembra il genere più adatto a registrare, inseguire, mettere a frutto le lacerazioni della cultura contemporanea, intrecciando e mescolando i codici, entrando e uscendo dallo “specifico letterario”, attraversando e adoperando scienza e giornalismo, diario intimo e discorso pubblico, dimostrazione e argomentazione
Più di recente, ha potuto invece ricordare come risieda proprio nell’eclettismo linguistico e stilistico una delle risorse più importanti della forma romanzesca:
Il romanzo come genere plurimo, capace di annettere linguaggi diversi, di smembrare il proprio corpo per poi ricostituirne una nuova e più salda interezza. Nella pratica di una scrittura impura che si contamina con altre forme del narrare, nutrendosene, il romanzo vive di un continuo scambio, fra l’altro, con il genere del racconto, del diario e dell’epistolario.
Ma ciò che, a ragione, pare stare a noi lettori al di là della casistica rigida del sistema dei generi tradizionali, una “forma” adatta a raccontare il mondo contemporaneo. E proprio il fatto che questa “forma”, eminentemente impura, possa scaturire dalla contaminazione dei linguaggi, e dalla circolazione trasversale nell’opera di stili differenti, è ciò che , alla fine,avvicina critici di orientamento diverso.
All’improbabile contrapposizione fra romanzo e saggio, si finirebbe ad accettare il doppio compromesso di una scrittura impura e discorsiva che nelle molteplici possibilità offertegli dai suoi registri non disdegna di contaminare il racconto con il corredo discorsivo della riflessione saggistica, o di innestare sul tronco del saggio la gemma vegetale dell’invenzione narrativa.
È anche vero, tuttavia, che la prospettiva ora messa in luce non esaurisce da sola le possibilità della scrittura narrativa e che numericamente cospicua si sia andata formando, soprattutto negli ultimi anni, una pattuglia di scrittori meno significativi che nell’artificio del racconto o nell’illusione suprema delle “storie”, hanno inteso come assolto a pieno il loro ruolo di testimoni di un’epoca.
Per quanto riguarda i generi d’oggi, la mescolanza dei genere, la simulazione del reale, vi consiglierei di leggere Z.Baumann,che fa un’analisi della rappresentazione del reale,poiché oggi cresce, in tutti i generi letterari e artistici la desertificazione del reale.
Il romanzo vorrebbe mantenere il suo rapporto con il reale, anche usando tutti gli artifici possibili:l’illusione,il sogno, la passione la follia, il metaforico, il simulacro, ma il virtuale,s’impadronisce della realtà e giunge alla duplicazione del mondo, al simulacro perfetto ma spolpato,prosciugato, a un’ultra-realtà che annulla sia la realtà che l’illusione e la rappresentazione stessa del mondo,la costruzione simbolica e onirica su un mondo artefatto,ormai annullato e ricostruito.
Oggi le storie si assiste a unasuperfetazione di storie che sfociano in libri , mostrando un universo di scrittori di scuola, illusi della facilità della scrittura, della rappresentazione del mondo, senza un’idea, una riflessione sulla vita, sull’io, sul mondo. E questo si nota anche negli altri
terreni artistici.
Ma al romanzo eravamo affezionati, ci aveva abituato a pensare, a immaginare l’altrove, a guardare dentro noi stessi.
Nel penultimo capoverso c’è un refuso: Oggi si assiste a una superfetazione…….
mi correggo
Una breve nota a margine. Mi sembra che si liquidi un poco frettolosamente la narrativa americana la quale non è (per fortuna) solo Roth e Franzen; c’è una ricca generazione a cavallo fra gli anni sessanta e settanta che non può più essere trascurata – Moody, Wallace, Vollmann, Lethem, Ellis, Eggers, Heim, Harding, Eugenides, Saunders, parecchi altri. Così come non si può dimenticare Bolano se si elencano i più rilevanti scrittori stranieri contemporanei, non solo per la qualità dell’opera ma anche per l’influenza che esercita (ma anche Littell e Tellkamp li citerei). Ho spesso la sensazione che i critici di lungo corso non amino stare al passo coi tempi, cosa che non gli scrittori (in qualità di lettori) accade meno.
Nella sua articolata riflessione sul “futuro della letteratura” Filippo La Porta, ad un certo punto, scrive, citando un giudizio di Walter Pedullà e individuando a mio avviso il punto nodale dell’intera problematica, che «in questo tentativo di dire il tutto la parola letteraria non resta dentro se stessa…, ma dovrebbe produrre un “attrito” con qualcosa che le fa resistenza (con un “fuori”, sia esso la realtà o l’esperienza o…)». E giustamente soggiunge che «dove non c’è attrito il tutto svapora».
Orbene, se vi è qualcosa che, per natura e funzione, può fornire un valido esempio di ‘attrito’ fra la parola e ciò che in qualche modo si pone fuori di essa, io credo che ciò sia la percezione, tanto che potrebbe costituire una feconda ipotesi di ricerca usare questa nozione come filo conduttore di un’indagine sulle forme e i contenuti della produzione narrativa contemporanea. In effetti, se si pensa che la percezione rappresenta, oltre che un tema di analisi teoretica, un elemento costitutivo della scrittura di un testo, occorre riconoscere che l’approccio fenomenologico diventa ineludibile. E diventa ineludibile proprio perché la sua ‘debolezza teoretica’ lo rende particolarmente ‘forte’ a livello letterario. Il punto di partenza è allora lo Husserl di “Esperienza e giudizio”, che fa il celebre esempio della “Puppe”, per cui io, mentre cammino per la strada, inavvertitamente scambio per una persona il manichino esposto in un negozio. L’analisi della successiva correzione mostra che questa viene operata non tanto con una verifica diretta, quanto con una modifica del contesto di esperienza, rispetto al quale la volontà interviene nella percezione come fattore determinante. La descrizione fenomenologica si distacca così dalla descrizione del senso comune e si configura come un mobile punto di equilibrio fra interpretazione e dato di fatto. La concretezza del dato sensibile è decomposta dall’analisi fenomenologica, che ne fa emergere il significato rivelandone il carattere noetico e, nel contempo, estetico. Si costituisce in tal modo il campo dei complessi estetico-noematici (in cui rientra, ad esempio, la metafora), che comprende tutte le modalità emotive o tonali che cooperano alla produzione del significato.
Un esempio, per così dire, stereoscopico del ruolo che svolge la percezione in campo letterario è offerto dalla descrizione della sonata di Vinteuil nel romanzo “Un amore” di Swann, compreso nella prima parte della “Recherche” di Marcel Proust. Si ha qui un peculiare intreccio fra diversi livelli temporali, al cui interno sono riconoscibili quelli che, in sede di epistemologia storiografica, Marc Bloch definirà gli infra-tempi. La descrizione della sonata di Vinteuil non è solo la descrizione di un concerto, ma altresì la descrizione di un salotto aristocratico e la ricostruzione dei fantasmi della memoria che si avvicendano nella mente del dottor Swann, il quale ‘intenziona’ Odette, cioè l’oggetto del suo struggente ‘amore-disamore’, nelle guise più disparate (si pensi, in questo senso, a quel repertorio topologico della “erotiké manía” che è il testo di Roland Barthes intitolato “Frammenti di un discorso amoroso”). Il polimorfismo della percezione è il vettore con cui Proust disarticola il concetto di un unico tempo che scorre in un’unica direzione e mostra che esistono diversi tempi, così come in un fiume esistono, oltre alla corrente principale, le controcorrenti, pa-ragonabili ad un tempo compresso, cioè ad un tempo più lungo che però, essendo compresso e inviluppato, dura meno di un tempo più breve. Accade perciò che il ricorso alla metafora potamologica ci permette d’introdurre un riferimento, la cui pregnanza risulta pienamente comprovata dalla tradizione storico-culturale cui Proust appartiene, non solo alla concezione qualitativa della ‘durata reale’ in Bergson, ma anche alla concezione fisico-geometrica dello spazio fluido in Cartesio.
Queste osservazioni possono forse risultare utili per illustrare un esempio di applicazione di un modello di lettura basato sull’analisi incrociata dei testi, ossia sull’analisi filosofica dei testi letterari e sull’analisi letteraria dei testi filosofici. Se si volesse poi fondare in modo più soddisfacente tale modello di lettura, bisognerebbe ricorrere alla categoria di ‘ri-uso’, oltre che a quella, sicuramente centrale, della metafora, intorno alla fertilità euristica delle quali, seguendo le fondamentali indicazioni di Franco Fortini riproposte, sempre in tema di “convergenze”, da Remo Ceserani, fa bene ad insistere La Porta in questa sua stimolante riflessione dedicata al problema della definizione e del futuro della letteratura.
@ barone
“dottor Swann”?
Riguardo al modello di una lettura incrociata dei testi letterari e filosofici ritengo opportuno ribadire che la fluidificazione delle rigide classificazioni disciplinari non implica l’abolizione sommaria delle ‘differentiae specificae’ tra diverse modalità di rappresentazione del mondo e non legittima la cancellazione dello ‘specifico’ estetico e teoretico. Tanto più in un momento storico pervaso, come quello attuale, da pulsioni viscerali e regressive, occorre evitare il rischio di una postmoderna nebulosità orfica e misticheggiante, in cui ogni differenza viene abolita, mentre è necessario istituire di volta in volta, collocandolo in un contesto tematico storicamente determinato, il rapporto dialettico e tensionale intercorrente fra i due saperi. L’esito dell’abolizione di uno sguardo ‘discreto’ rivolto al mondo delle idee sarebbe infatti il livellamento acritico di temi giustapposti in base a vaghe analogie e arbitrariamente accostati. È allora opportuno ricordare, al fine di prevenire i rischi della vaghezza e dell’approssimazione, quanto Hegel osserva nell’Introduzione alla “Fenomenologia dello Spirito”, quasi anticipando la critica del pressappochismo che ci insidia: « Così oggi un natural filosofare che disdegna il concetto, stimandosi, proprio in grazia dell’assenza di esso, un pensare intuitivo e poetico, getta sul mercato [sic!] una serie di arbitrarie combinazioni nate da una fantasia per la quale il pensiero è solo un elemento di disorganizzazione: immagini che non sono né carne né pesce, né poesia né filosofia. »
Se dunque, da una parte, vanno salvaguardate le ‘differenze specifiche’ tra i due saperi – ossia le modalità di rappresentazione del mondo, i termini, i concetti e i codici che li strutturano –, va individuato e circoscritto, dall’altra, il terreno comune e il campo problematico in cui essi si intersecano e, intersecandosi, reciprocamente si arricchiscono. In questo senso, le categorie del riuso, della narrazione e della metafora mi sembrano utili proprio perché funzionali all’individuazione di quel terreno e all’esplorazione di quel campo.
Direi che tra la vicenda del cartone animato al balzo della conclusione mi son persa qualche passaggio logico. “La “morale” degli autori è chiara. Ci avviamo verso un mondo dove la letteratura, l’arte, la nostra tradizione culturale, che non abbiamo più tempo e voglia di coltivare, verranno frequentate dietro compenso solo dai migranti e dai paria.”
Dietro compenso? Dai migranti? Che conclusione è mai questa?
La letteratura è un lavoro, dunque, che nessuno vuole più fare? Non mi sembra proprio.
Il resto dell’articolo mi trova d’accordo, specie il passaggio sullo storytelling.