di Franco Buffoni

Quella perpetrata su Byron è stata una delle maggiori mistificazioni bio-letterarie dell’Otto-Novecento. Voluta dall’autore stesso per legittima difesa negli anni delle gogne e delle impiccagioni, la mistificazione è stata poi certosinamente reiterata da ricercatori fasulli e agiografi imbecilli, totalmente privi di motivazioni etiche e civili, ma ben provvisti dei propri pregiudizi omofobici.

Gli amici di Byron – in primis il suo esecutore testamentario Hobhouse e il suo editore Murray – fecero di tutto perché non restasse traccia – o comunque non si parlasse – dell’omosessualità del poeta. Che invece riuscì a costruirsi una duratura immagine di tombeur de femmes.

Byron, nella prima metà dell’Ottocento, divenne una sorta di sex symbol per le signore dei due mondi, come in seguito furono Rodolfo Valentino e Elvis Presley. Fu l’homme fatal quando non si parlava ancora di femme fatale, nata nel secondo Ottocento con Madame Bovary.

La realtà era ben diversa: Byron era sentimentalmente e ossessivamente omosessuale, capace di innamorarsi solo di ragazzi e di giovani uomini; però, grazie alla sua esuberanza sessuale, era anche ben in grado di soddisfare le numerose donne che gli si offrivano. Da qui l’equivoco, duro a morire, circa il grande amatore. Ma un conto è innamorarsi e amare (i ragazzi); un altro conto è esercitare una attività sessuale senza coinvolgimento emotivo (anche con persone dell’altro sesso).

Il servo di Byron si compone di 21 capitoli. Ecco il secondo e il terzo. Il primo, apparso su questo sito il 18 settembre scorso, si può leggere qui.

I, 2 Edleston

All’inizio ero io un po’ (molto) geloso di lui. Ricordo che quasi svenni quando nel suo diario lessi – era all’ultimo anno di liceo a Harrow, dove vigeva un feroce clima di bullismo – l’elenco dei suoi favourites tra gli younger boys: Clare, Dorset, Gordon, De Bath, Claridge, Wingfield… tutti dedicatari di ispirate poesie in cui patronage e friendship sfumano in mirth e love. Poi capii che si trattava di un sentimento diverso: di loro si innamorava, ma erano tanti; ne spuntava sempre uno nuovo. Era anche difficile, lì al college, concretizzare bene, come piaceva a lui. Questo lo poteva fare solo nelle vacanze, con calma, qui con me. Allora mi sono placato. Se mi comportavo bene – cioè come voleva lui – non lo avrei mai perduto: sarebbe stato mio per sempre.

Tra tutte queste poesie però spicca “The Cornelian”, dedicata a Edleston, mimetizzato semplicemente in E. In una versione “ufficiale” corretto persino in un socialmente accetabile “To Ellen”. Qui mi preoccupai davvero. Anche perché vidi quanto my Lord soffrì nel lasciare Harrow, alla fine dei corsi. In una poesia giunse a definire Harrow il suo Ida, con riferimento al monte sulla cui sommità Giove rapì Ganimede. E Giove era lui, Ganimede Edleston.

So quello che state pensando: nei collegi queste cose sono sempre successe, poi si cresce, si dimentica tutto e si mandano i figli a studiare negli stessi college. Si tratta di “pratiche” diffuse, coi più giovani “tenuti” a soddisfare le richieste dei maggiori, in attesa di diventare maggiori essi stessi. Basta andare al diario di Thackeray, che come arrivò al college si sentì immediatamente ordinare da un “maggiore”: “Come and frig me!”. Altri ricordano i soprannomi femminili con i quali i ragazzi più attraenti venivano ribattezzati; e quando uno dei maggiori si accaparrava in esclusiva uno younger boy, questi immediatamente veniva definito la sua bitch. Per Byron fu tutto diverso. Per Byron contavano il coinvolgimento emotivo e l’innamoramento. In quell’altro modo, alla “Come and frig me!”, lui si comportava con le donne: serve e prostitute per lo più. E a me non importava proprio per nulla.

No, con il biondo corista John Edleston fu tutta un’altra cosa. Durò più di un anno, ma in pratica non finì mai: Byron cercò sempre Edleston. Il mio padrone morì invocando Edleston. L’incontro avvenne nell’ottobre del 1805 e l’abbandono nell’aprile del 1807, in coincidenza con la traduzione che my Lord fece dell’episodio di Eurialo e Niso dall’Eneide. Versi che in qualche modo sigillano  questa sua storia d’amore disperata, con un tasso di coinvolgimento emotivo insuperabile. Byron, per il resto della sua vita, continuò a rievocarla e in qualche modo a cercare di riviverla.

Ricordo bene la sera che uscii a portare a Leigh Hunt per l’Examiner quella traduzione: davanti a Carlton House c’era una folla immensa che assisteva alla prima dimostrazione dell’illuminazione a gas. Il gas usciva dai tubi e un candelaio passava ad accenderlo… Quando al ritorno lo raccontai al padrone, si mise a ridere – era a letto un poco influenzato – e disse di buon umore attirandomi a sè: oh Fletcher, il mio Fletcher che vede tubi dappertutto…

Edleston aveva due anni meno di noi, era effeminato e gentile, di famiglia modesta. Byron – come con me – era diventato il suo lord protettore, e generosamente lo ricopriva di piccoli e grandi doni anche in denaro. Un giorno il delizioso John (lo vidi solo una volta: era davvero dolcissimo) – per ricambiare – gli si presentò con un piccolo minerale, una corniola o cornalina, ma temendo che un dono di così poco valore potesse essere disprezzato dal padrone, scoppiò a piangere mentre glielo consegnava. Byron si emozionò talmente di fronte a quel pianto da prorompere anch’egli in un pianto disperato e liberatorio. Da quel momento “The Cornelian” divenne per my Lord il simbolo dell’amore. E la poesia che porta quel titolo resterà per sempre anche nel mio cuore.

L’umiliazione avvenne negli anni successivi, allorché Byron fu costretto più volte a mentire ai critici e ai lettori che desideravano conoscere l’identità della fanciulla che gli aveva toccato così profondamente il cuore. “The most romantic period of my life”, così il padrone definì quell’anno per il resto della sua vita.

La separazione avvenne perché l’ormai diciassettenne Edleston, per aiutare la famiglia, era stato assunto a Londra “in a mercantile house”.  L’addio fu lancinante. Il padrone scrisse: “I certainly love him more than any human being”. E gli promise che, dopo un anno, sarebbero andati a vivere insieme: dopo un anno, quando Byron, una volta giunta l’agognata “expiration of my minority”, finalmente maggiorenne… Invece arrivarono il successo e il grand tour, gli innumerevoli altri legami… Le promesse d’amore incidile nel ghiaccio! Lascialo al sole! Edleston era destinato a restare per sempre nel suo cuore, ma più – ormai – come mitologia dell’amore: Edleston d’altronde era già stato immortalato in poesia. Cambridge e i nuovi amici del Trinity avevano indurito il carattere di Byron, lo avevano reso più spavaldo e cinico. L’Oriente chiamava.

Arrivò però una lettera di Edleston dopo qualche mese, che si rivolgeva molto rispettosamente al padrone, chiedendo protezione, un aiuto finanziario… My Lord riuscì a farlo assumere all’Ammiragliato.

Infine la morte di Edleston nel 1811 – e non mi risulta che si fossero più rivisti – con la conseguente composizione da parte di Byron, come ha scritto Moore, di una delle più belle sequenze elegiache del romanticismo inglese, “To Thyrza”: “Il giuramento che ci facemmo… e che io mi porto dentro”. Ma in precedenza Edleston era stato mimetizzato persino in Jessy, nelle delicatissime “Stanzas to Jessy”.[1]

Augusta avrebbe poi raccontato alla moglie di Byron che proprio in quei primi mesi del 1807 si accorse di un “mysterious change” nel carattere del fratello: “My melancholy proceeds from a very different cause to that which you assign…”, lui le scriveva, ancora incapace, di dirle apertamente la verità. Ma pur sempre in grado di eccitarsi e di concludere un completo rapporto sessuale con lei, come avveniva da sempre, ogni volta che erano soli. Questa è l’unica cosa del mio padrone che non sono mai riuscito a capire: come facesse a funzionare così bene anche con le donne, pur senza veramente desiderarle. Per me era – ed è rimasto – inconcepibile.[2]

Un’altra passione di Byron negli anni di Harrow era stato Clare. Scriveva: “My school friendships were to me passions, for I was always violent”. Violente passioni, dunque, destinate a non impallidire col tempo. Per le circostanze della vita, anche Clare – col quale il padrone non aveva più contatti da anni – si trovava in Italia nel 1821. Anch’egli in fuga dall’oppressiva Inghilterra? O in un maturo grand tour? Questo non ve lo so dire. Ma ricordo bene l’incontro con Lord Clare, che avvenne casualmente in una stazione di posta tra Bologna e Imola. (Da Ravenna ci stavamo recando a Pisa dove saremmo giunti il 1 novembre). “This meeting annihilated for a moment all the years between the present time and the days of Harrow”, annotò Byron: “Provavo un’emozione, come di qualcosa che mi invadesse risorgendo da una tomba. Anche Clare era molto sconvolto, ancora più di me, apparentemente. Sentivo il cuore battergli fin sulla punta delle dita… A meno che non fosse il battito del mio cuore che me lo faceva sentire così. Non siamo stati insieme che pochi minuti sulla pubblica via, ma non ricordo di aver mai provato un’emozione così forte”.

Nel giugno successivo Lord Clare venne a trovarci a Livorno. E il padrone scrisse a Moore: “Poiché l’ho sempre amato – da quando avevo tredici anni a Harrow – è quasi superfluo che aggiunga quale malinconico piacere sia stato per me poterlo incontrare per un giorno solo”.

Questo era il mio padrone. Così lo voglio ricordare.

I, 3 Beckford

Mi accorgo che, malgrado i buoni propositi, ancora non riesco ad andare con ordine. Che disastro! “Fletcher! Fletcher!”, continuo a sentire la sua voce che mi chiama dall’altra stanza, e allora devo scrivere in fretta, ma senza dimenticare nulla. Quando sto per nascondere i fogli, capisco che la sua voce è solo dentro la mia testa… ormai ho scritto. Mi perdonerete?

Per indole il padrone era istintivamente portato a ribellarsi, a provocare; persino a dire in faccia alle persone la verità nuda e cruda su se stesso e i suoi desideri. Ne so qualcosa, vi assicuro. Anche alla moglie, alle amiche e alle amanti fu tentato in varie occasioni di manifestare sinceramente il suo pensiero circa il “nameless crime”. Il pericolo di essere pubblicamente smascherato e punito per il crimine senza nome, però, era troppo reale e incombente. Allora dongiovannescamente Byron si concedeva anche ai desideri femminili. Ma affettando nonchalance, non facendo nulla per dissimulare un leggero disgusto, e soprattutto senza che mai il suo sentimento profondo fosse coinvolto.

Fu poi il suo esecutore testamentario, John Cam Hobhouse, a distruggere gran parte dei diari, dapprima quelli relativi agli anni universitari – che erano i più ricchi di dettagli sulle sue “naturali” pulsioni erotiche – quindi quelli veneziani. Per fortuna che io li avevo letti e qualche appunto ero riuscito a prenderlo.[3]

Hobhouse era davvero il più grande amico del padrone, e anche il più fervido ammiratore delle sue doti letterarie. La decisione di distruggere quelle carte può dunque essere compresa solo tenendo presente il clima di terrore in cui tutti noi vivevamo: il rischio – anche per i “complici” e i semplici simpatizzanti – erano la gogna e la prigione. Come scrisse un altro intimo amico di Byron a Cambridge, Charles Skinner Matthews: “We risque our necks”.

La conoscete, vero, la storia del White Swan di Vere Street a Londra? Un pub per “iniziati”, che l’8 luglio del 1810 divenne teatro di un’incursione poliziesca, con accusa di sodomia per tutti i presenti: il reverendo John Church vi stava celebrando un matrimonio, ovviamente tra due iniziati. L’immediato processo portò a due esecuzioni capitali precedute da gogna e a una serie di condanne pesantissime al carcere duro, sempre precedute da gogna, contro la cosiddetta Vere Street Coterie: la cricca di Vere Street. Cospicuo fu anche il seguito di collaterali suicidi, di figli costretti a cambiare cognome, di famiglie ridotte in miseria.

Fu Matthews a relazionare Byron sulla Vere Street Coterie. Noi eravamo ancora in Grecia, praticamente senza giornali. In una lettera del 13 gennaio 1811, Matthews – pur se col suo consueto tono in apparenza scanzonato – racconta a my Lord del giro di vite nei confronti di cittadini di tutte le classi sociali colti in flagrante, dei suicidi e dell’infittirsi delle condanne alla gogna e all’impiccagione: “Ciò che tu ottieni dai tuoi amici turcomammi con poche sterline, noi qui lo otteniamo rischiando l’osso del collo”. “Your Lordship’s delicacy would, I know, be shocked by the pillorification in the Hay Market of a club of gents who were wont to meet in Vere Street…”. Naturalmente il termine “pillorification” non esiste; è la storpiatura di pillory (gogna) come se fosse glory con glorification. Ma il sarcasmo di Matthews riesce solo a drammatizzare ulteriormente l’ignobile pratica. Nella stessa lunga lettera Matthews rileva che il clima di odio fomentato dalla stampa nei confronti dei cultori della “paiderastia” si va facendo sempre più torbido. E scrive il termine in greco: ma la “pi greca” maiuscola con cui la parola inizia viene allargata a dismisura sul foglio di carta da lettera fino ad assumere la forma di una forca stilizzata. Avevamo ventitré anni, allora.

Quello era il clima che si respirava a Cambridge, dove solo l’amicizia fidata di Hobhouse, di Matthews e di pochi altri “iniziati” come Scrope Berdmore Davies, permetteva a Byron di assaporare una condivisione e una complicità che spaziava dalla politica (anticonservatrice) alla poesia (col rifiuto di Wordsworth e la rivalutazione di Pope) alle preferenze sessuali. E fu proprio in quel periodo che il padrone riuscì a far passare presso il pubblico l’immagine del giovane poeta oscuro e tenebroso, grande amatore, sciupafemmene.[4]

Ma torniamo al gennaio del 1809, quando Byron divenne maggiorenne. Poche settimane prima, nel dicembre del 1808, era diventato di dominio pubblico sulla stampa popolare uno scandalo di lettere anonime. Vittima: il conte di Leicester; oggetto: i suoi amori clandestini con ragazzi del popolo. Non è difficile immaginare che il primo pensiero del mio padrone, appena compiuta la maggiore età, con la scusa del grand tour, fu di recarsi il più lontano possibile dall’Inghilterra: con me e con Hobhouse, piuttosto che di metter su casa a Londra con il minorenne Edleston. In pratica il padrone non mantenne il giuramento d’amore, e scese a terra. A terra c’era la vita. Ma ne soffrì moltissimo per il resto del suoi giorni.

Per scendere a terra ci imbarcammo. Purtroppo in viaggio my Lord decise di portare per quasi due mesi, fino a Gibilterra, come paggio, anche quello stronzetto di Robert Rushton, che nella narrazione del Childe Harold diviene lo scaltro Robin. Un famoso quadro di George Sanders – “Byron Landing from a Boat” – commissionato dal padrone prima della partenza, ritrae lo stronzetto alle sue spalle. Poi, per questioni di gelosia con Hobhouse, per fortuna decise di rimandarlo in Inghilterra. Ma dovette giustificare la decisione a sua madre, che conosceva la famiglia del ragazzo, ed era intervenuta perché i genitori lo lasciassero partire. Lady Byron era un po’ isterica, ma sapeva e capiva tutto. Io cercavo sempre di starle alla larga. Dopo la maggiore età del padrone divenne molto collaborativa, perché lui aveva ereditato il titolo e il seggio alla camera dei Lord. Insomma, il padrone dovette inventarsi la scusa che tra i turchi le virtù dello stronzetto non sarebbero state al sicuro: “You know, Mother, boys are note safe among the Turks”. Ma almeno se lo fossero fottuto i turchi!

Prima di arrivare a Gibilterra ci fermammo in Portogallo perché il padrone voleva assolutamente attraversare a nuoto la foce del Tago, e visitare a Sintra il palazzo dove era vissuto in esilio il suo amico Beckford. Quale fosse il suo pensiero fisso in quei giorni è ben rappresentato dalle lettere che scrisse agli amici. A Francis Hodgson, un altro iniziato di Cambridge, il 25 giugno, subito dopo la partenza, scrive: “On Hartford Bridge we changed horses at an Inn where the great Apostle of paederasty Beckford! sojourned for the night…”. E a Henry Drury, che era stato da poco assunto come insegnante nella mitica Harrow – dove tutto era cominciato e dove Byron era sempre tornato per brevi visite: a respirare quel clima e ad ammirare le new entries – scrive: “Intendo comporre un trattato nelle prossime settimane intitolato Sodomy simplified or Paederasty proved to be praiseworthy from ancient authors and modern practice”. Ma lo scambio più vivace è ancora quello con Matthews. Al padrone che il 22 giugno, dal porto di Falmouth, gli scrive: “Siamo circondati (al plurale: l’altro è Hobhouse) da giacinti e da altri fiori della più fragrante natura. Ho intenzione di coglierne un bel bouquet per confrontarli con quelli più esotici che spero di incontrare in Asia. Un campione lo porterò sicuramente con me. Ma di questo ti dirò. Adieu Mathieu!”, Matthews risponde da Cambridge il 30 giugno: “Auguro a te, Byron di Bisanzio, e a te, Cam di Costantinopoli, di ottenere, sia insieme sia ciascuno per conto proprio, tutto il successo che nelle vostre più metodistiche fantasie, siete in grado di augurarvi”. Nel lessico della loro cerchia a Cambridge, “metodistico” significava “sodomitico”. L’obiettivo – come diceva sempre il padrone – era quel “plenum et optabilem coitum” di cui parla Eumolpo nel Satyricon. E quante volte, anche in quei giorni, mi toccò la parte di Gitone…

Sì, a Cambridge si era creata una vera e propria confraternita, una segreta comunità di iniziati, che doveva anzitutto difendersi dal mondo circostante, quindi cercare avventure. Ma il rischio era altissimo. Tanto quanto lo erano i desideri e le voglie, in una compressione estenuante. E allora – per comunicare tra loro – gli iniziati usavano un codice di citazioni latine e greche e di doppi sensi. Per esempio, un innocente gioco, quello del lancio degli anelli da infilare in un paletto, detto dei quoits, per via della pronuncia veniva usato per indicare quanti coits erano stati compiuti e con chi. Il tutto con una velocità di eloquio davvero teatrale. Erano attori consumati. Divertentissimi. A quell’epoca, ormai, io stavo col padrone da sette anni, e non dico che capissi proprio tutto, ma quasi. Anche perché il padrone mi portava sempre con sé. Per tenergli le stanze, i vestiti, custodirgli le carte, portare le lettere. E confortarlo con i miei massaggi nei momenti del bisogno.

Di William Beckford, nobile e facoltoso, la cui lunga vita pare includere e contenere come in uno scrigno quella breve di Byron, seppi tutto durante il viaggio perché Hobhouse dopo cena leggeva allo stronzetto il suo celebre racconto Vathek, an Arabian Tale. Come scrive il mio padrone nella nota al suo Giaour, Vathek era stata l’opera che maggiormente lo aveva influenzato sin dalla prima adolescenza per la sua potente carica erotica. Volta al maschile in un continuo mascheramento verso il femminile.

Ma Beckford era anche il creatore di lussuose ville di campagna, dove più di una volta avevo accompagnato il padrone in visita all’amico più anziano. Ebbene, Beckford, l’uomo più ricco d’Inghilterra, che aveva amicizie altolocate ed era stimato a corte e negli ambienti letterari e artistici, fu costretto all’esilio per non subire gogna e impiccagione. Nessuno avrebbe potuto salvarlo. Anzi, spendere una parola in suo favore, per chi lo faceva, significava compromettersi nel crimine “senza nome”. Beckford era pure sposato con figli. Dunque non gli mancavano le coperture, quelle stesse che poi Byron mise in gioco anche per se stesso. Non bastava. Fu proprio il destino di Beckford a indicare a Byron nel 1816 la decisione definitiva da prendere.

Di Beckford rimane penosamente celebre una frase del suo diario del 1788 (il nostro anno di nascita!): “Come sono stanco di portare una maschera, come mi pesa sul volto, mi fa male”. Quattro anni prima Beckford era stato accusato di “sexual relations” con il sedicenne Lord William Courtenay. Fu costretto a un decennale esilio, e al ritorno in patria dovette vivere in isolamento, perché – malgrado le sue ricchezze e la sua fama – la buona società gli aveva voltato le spalle: nessuno osava più mostrarsi in sua compagnia.

Sarebbe molto lungo l’elenco dei cittadini nobili e ricchi (quelli poveri e plebei ovviamente non lasciano traccia se non nelle statistiche degli impiccati) costretti all’esilio per non subire trattamenti infamanti e/o mortiferi in un paese che – per quel “crimine” – non voleva sentire ragioni e persino dimenticava di avere inventato – come diceva sempre Hobhouse – il meccanismo della rule of law.

Come prima tappa del nostro viaggio, Byron volle dunque visitare proprio quel palazzo. E nel Primo Canto di Childe Harold ne resta la descrizione, purtroppo priva dell’invocazione all’Unhappy Vathek! Dieci versi che vennero censurati dall’editore Murray.[5] Versi in cui appaiono l’amarezza per una condizione “against nature” per via del “nameless crime”, e la piena consapevolezza del padrone per i rischi che lui stesso avrebbe corso continuando a comportarsi in Inghilterra come aveva fatto negli anni precedenti.

A Sintra ci fermammo diversi giorni. Me la ricordo bene quella sosta perché my Lord si emozionò moltissimo e poi perché visitammo anche un grande monastero nell’interno, dove fummo ospiti per la notte. Ci accolse un monaco sorridente, che mi prese in simpatia perché lo aiutai ad allestire le stanze. Il padrone gli disse che era intenzionato ad arrivare fino in Grecia. Si fecero delle citazioni in greco e si scoprì che io ero l’unico a non averlo studiato. Allora il monaco si offrì di insegnarmelo. E la mattina successiva mi recai nella sua cella. Cominciammo con l’alfabeto, e andava tutto bene, finché ad ogni lettera che scrivevo giusta, il monaco cominciò a baciarmi, prima sul collo, poi sulle guance… allora io mi alzai e lui ne approfittò per ficcarmi la lingua in gola: proprio così, altro che gentile. E se non fossi fuggito, quello mi avrebbe fatto la festa. Il padrone rise tanto quella sera sulla nave, ma tanto… Ed io ero contento di averlo fatto ridere. Un po’ meno perché rideva anche lo stronzetto.


[1] Solo nel 1957 il più grande studioso di Byron, Leslie Marchand, ha stilisticamente assegnato alla fase Edleston anche le “Stanzas to Jessy”.

[2] Se non si comprende questo dettaglio non si comprende Byron: la sua esuberanza sessuale era tale da metterlo in grado di soddisfare qualsiasi donna in qualsiasi momento. Ma il suo temperamento, come quello di Tolstoj, lo portava a innamorarsi solo di ragazzi e di giovani uomini.
“Per me il segno principale dell’amore è la paura. La paura di offendere o di non piacere all’oggetto amato, semplicemente la paura. Sentivo una vampa di calore quando lui entrava nella stanza. Sebbene inconsciamente, io di null’altro mi preoccupavo che di piacergli. Non sono mai stato innamorato di donne. Ho sempre amato uomini che erano freddi verso di me o al massimo mi apprezzavano. Non dimenticherò mai, ad esempio, le notti quando io e Djakov uscivamo da Pirogovo e avevo voglia di abbracciarlo e di piangere”. (Lev Tolstoj, Diari, 29 novembre 1859).

[3] Malgrado tali scempi, ciò che resta dei diari e delle lettere ancora ci parla gridandoci la verità sul nervo scoperto della personalità di Byron. E mentre per noi oggi il discorso cause-malattia è ovviamente superato (se l’omosessualità è una malattia occorre cercarne le cause; se non è una malattia, non ha senso cercarne le cause: omosessuali non si nasce né si diventa: omosessuali si è), all’inizio dell’Ottocento solo un uomo della sensibilità e dell’intelligenza di Byron poteva precorrere i tempi ed essere già “freudiano”, chiedendosi se la sua “ossessione” (il desiderio per i ragazzi) dipendesse dall’essere senza padre e senza fratelli.

[4] Ed è proprio questa immagine – del melanconico per posa – che passa nell’iconografia popolare del giovane poeta appena giunge il primo clamoroso successo con Childe Harold: Byron diventa Mr Cypress in quella vivida mockery dei poeti romantici che è Nightmare Abbey di Thomas Love Peacock.

[5] Quei versi riapparvero solo nove anni dopo la morte di Byron. Byron stesso, d’altronde, si sentì indotto a lasciare anche degli accenni ostili all’omosessualità. Ricordiamo quella famosa sua nota al Childe Harold in cui afferma: “La morte di Antinoo fu eroica tanto quanto la sua vita fu infame”. Byron riteneva come molti nella sua epoca che Antinoo si fosse “sacrificato” per Adriano: e questo sarebbe l’aspetto eroico. Ma Byron definisce anche “infamous” la vita del giovane poi deificato. E lo faceva al fine di poterne parlare. Il parlarne esecrando era l’unica maniera che il contesto omofobo concedesse.
Questo procedimento della ritrattazione, contenuta nel testo stesso oggetto di possibile condanna, ha per altro una storia plurisecolare. Nelle lettere inglesi si può risalire fino Geoffrey Chaucer, costretto a difendersi dalla chiesa del suo tempo, con le famose retracciouns. In pratica, nel testo a rischio, occorreva infilare sempre una frase che ne contradicesse la sostanza, da poter esibire in tribunale a propria discolpa, in caso di guai con la giustizia ecclesiatica. O con quella civile, che spesso coincideva, o comunque condivideva i valori di fondo di quella ecclesiastica. In Inghilterra, fino all’inizio del Novecento, quando si trattava di sodomia, il Levitico era il testo di riferimento per i tribunali.

28 thoughts on “Il servo di Byron /2

  1. Attendo con ansia altri capitoli. Mi piace moltissimo questo romanzo-confessione. Riconosco i tempi, i personaggi, i luoghi, le atmosfere. Mi piace anche l’idea letteraria di guardare il grande attraverso gli occhi del piccolo, il padrone attraverso il servitore, il non comune attraverso il comune. Quasi un romantico e innamorato Sancho Panza.
    Ma in fondo, in Inghilterra, era pratica, anzi, tradizione, che i figli dell’aristocrazia, educati nelle Public Schools e nei College di Oxford e Cambridge, amassero gli uomini e sposassero le donne. Oscar Wilde non era l’eccezione, se non nel renderlo palese. La regola era che non se ne parlasse apertamente. Insomma, un segno della classe di appartenenza. In Grecia era lo stesso, no? Solo che in Grecia era vanto che un proprio figlio fosse l’amato di un grande personaggio. In fondo è una tradizione antichissima, nata da una società aristocratica e guerriera, in cui vi sono forti clan (i clubs inglesi ne sono una filiazione) o fratrìe di appartenenza, dove la donna ha poco spazio. Molto interessante. Grazie Buffoni.

  2. A proposito del riferimento alla censura applicata da John Murray. Il riferimento è a John Murray II, nipote dell’omonimo fondatore. Murray fu un editore di enorme importanza nell’Inghilterra vittoriana e di grande lungimiranza. Il suo ruolo di editore fu decisivo nella cultura britannica del 19° sec. Fondatore della Quartely Review e editore di tutti i maggiori autori dell’epoca, fu sua l’idea della Murray Family Library, una delle prime operazioni di editoria imprenditoriale su vasta scala, in cui si pubblicavano a prezzo contenutissimo i grandi classici della letteratura, per renderli accessibili al vasto pubblico della piccola e media borghesia dell’era industriale. Ma non solo a quello.
    Tutti i giorni riuniva gli amici scrittori nella sede, che è ancora la stessa, di Albermale Street, per un the e animate discussioni tra questi straordinari personaggi. Che bella usanza!
    L’episodio dei versi espurgati non è il solo. Nel 1824 Murray decise di distruggere – sì, distruggere! – i due volumi di memorie che Byron gli aveva affidato. Temeva che il contenuto potesse danneggiare la reputazione del più grande poeta inglese. E lo fece! Non li mise da parte, non li chiuse in cassaforte…li bruciò nel camino…
    Per quanto riguarda Thomas Crofton Croker, il grande pioniere del folklore irlandese, di cui Murray aveva pubblicato varie opere, la grande amicizia che li legava si guastò e addirittura si arrivò a una disputa legale, per una serie di ragioni di cui scrivo nella mia introduzione al testo delle “Leggende di fate e tradizioni irlandesi” di Croker. Ma la principale fu che Murray non volle più pubblicare dei testi in cui Croker metteva in luce le condizioni miserabili in cui versavano i contadini irlandesi. Un discorso che non sarebbe piaciuto all’establishment.
    Certo che, distruggere il manoscritto delle memorie di Byron…. e non sapremo mai cosa contenessero!

  3. Ottimi anche questi due nuovi capitoli.
    Franco Buffoni riesce a ridare voce a un personaggio quasi misconosciuto della storia letteraria e con lui a tutte quelle persone (e personaggi) che per secoli sono dovuti restare nella segretezza del closet. Una riscrittura necessaria della storia (e delle storie) che contenga il soggetto omosessuale, non più un fantasma che agita i sonni e l’immaginario occidentale, ma un personaggio “in carne e ossa” con una sua storia e una sua voce. Siamo tutti un po’ Fletcher, il servo di Lord Byron,

  4. Nelle vesti di proedro che le anticipazioni ci offrono, mi fa molto piacere soffermarmi su Il Servo di Byron, l’ultimo lavoro in prosa di Franco Buffoni.
    Questo testo denso, fecondo di erudizione letteraria e al tempo stesso capace di una locuzione diretta, pare rivelare alla voluttà di indagine quelle strutture ibride che, a mio avviso, restano oggi le più promettenti. Forse le uniche in grado di rispondere alle molteplici funzioni “materiali” della letteratura.
    Buffoni ci presenta infatti un testo de-genere, sottratto a qualsiasi teleologia precedentemente fissata dal genere letterario tradizionale, fatto di pagine cucite con il filo rosso della critica letteraria e attivate dalla epistemologia queer (la dissidenza epistemica che Buffoni da anni porta avanti con indomito coraggio e rigore). Il risultato è una (meta)finzione sostenuta da una straordinaria abilità narrativa.
    Non solo. Mi pare che Il servo di Byron sia anche segnale di come si possa produrre letteratura e “impegno” con ferma volontà scopica, restituendo alla ricezione critica un poeta della complessità e della grandezza di Byron. Infatti, oltre al superamento della fissità del genere letterario, Il Servo di Byron mobilizza e sovverte l’orizzonte di attesa, producendo una sorta di textual displacement in virtù del recupero archeologico di una icona poietica alla sua reale dimensione soggettiva ed erotica convintamente opacata e censurata dalla critica eterosessista.
    Il rilievo somatico della omosessualità di Byron non avviene dunque in virtù dell’inserimento episodico di qualche avventura sessuale nel racconto, bensì si converte nella matrice stessa della narrazione. In tal senso, la funzione retorica affidata alla voce di Fletcher ha davvero la portata di una contro-narrazione. Fletcher infatti assume i connotati (interni) del lettore modello da un lato (colui che conosce l’ipotesto) mentre dall’altro mantiene la funzione testimoniale per eccellenza, le cui parole producono, nel rovescio dell’operazione portata avanti da Buffoni, una vera e propria cronistoria volta a ricontrattare i contorni iconologici scaturiti dalle operazioni di controllo della tradizione eterosessista.
    Se infatti Buffoni è abilissimo nel trattare la classica lezione manzoniana dello invenio ponendo a testo le parti cassate dalla storia, credo per altro debba essere sottolineata con forza l’implicazione più evidente di questa pragmatica testuale: l’intento di portare ad emergenza (e alla emergenza euristica) quella part perdue della cultura lgbt stralciata con ferocia dalla critica mainstream.
    Questa operazione, la cui strategia politico/testuale era già stata evidenziata dalle affermazioni di Buffoni sia in Laico Alfabeto in salsa gay piccate (Transeuropa, 2010) che in Zamel (Marcos y Marcos, 2009), costituisce un altro punto di sottrazione dalla metafisica del discorso ufficiale. Buffoni riesce in tal modo a de-formare gli assunti con cui si è letto Byron e il byronismo, siano essi relativi alla storia della ricezione eterosessuale (che di questo si è trattato), che alla denuncia delle torture, delle violenze, degli abusi sofferti dai soggett* lgbt. Fra le pieghe del racconto emerge così una vera e propria Colonna infame di quelle persecuzioni, un affresco cupo e tetro delle condanne a cui i gay erano sottoposti, che motiva la strategia di sottrazione e l’autocensura (cioè l’azione della “soggettività collettiva” sui testi) operata dal poeta nella sua produzione. Va detto infatti (e Buffoni lo fa con forza) che quel che Byron tentava di salvaguardare non era il mero “gusto” della common opinion del suo tempo, quanto la vita stessa.
    È proprio svelando la prassi auto-censoria di Byron che l’autore (uso con una certa ritrosia questa categoria teorica che ha dei residui quasi teologici) smaschera le strategie di contenimento operate dal poeta, per andare poi ad attualizzarne il recupero storico e, oserei dire, “simbolico”. Questa graphia soggiacente dietro l’apparenza del testo rivela dunque la forma autentica del bios, in un cortocircuito di significazioni che propone nuove e fondamentali domande critiche e teoriche.
    In questo senso la topologia del closet perde tutta la sua forza mummificatrice, la sua volontà ‘medusizzante’ per mostrare il tratto fantasmatico non di Byron, bensì del discorso secondo, cioè della critica stessa.
    La narrazione restituisce allora un Byron finalmente sottratto alla violenza che la sessualità straight ha a lungo imposto, mostrando come, nel rovesciamento retorico degli assunti (cioè nello svelamento della retorica eterosessuale del byronismo), si trovi ciò che il canone testuale ha escluso: quelle potenzialità del dicibile rimaste latenti. È in questo perimetro, che Buffoni rivela testualmente l’operatività di quella «letteratura mascherata» le cui storture (testuali e ideologiche) aveva denunciato altrove (Buffoni, 2009).
    Inoltre l’autore lega il narrato alla grande tradizione della letteratura gay europea e americana: in questo senso il mondo finzionale è un mondo eminentemente (e volutamente) gay, dove le donne rivestono funzioni attanziali, metaforicamente relegate alla staticità inespressiva della ideologia eterosessista di cui tanto a lungo hanno rappresentato il simbolo. Va notato per altro che Buffoni non brucia le necessità descrittive in un semplice repêchage, ma richiama una intertestualità dialogica con l’intero discorso letterario omosessuale.
    Ma è forse nel titulus che si incarna una altra declinazione sub-versiva di questo racconto. Se è infatti evidente come Fletcher, con la sua totale devozione, la sua disponibilità sessuale e la complicità emotiva, ricordi altri personaggi della gay novel, la scelta del sintagma (Il servo) non può non richiamare la tradizione provenzale, quella fin’amor che è alla base della letteratura eterosessuale europea. Curiosamente è proprio lì, nell’avvento della letteratura cavalleresca, che Louis-Georges Tin rintraccia L’invenzione della cultura eterosessuale (:due punti edizioni, 2010), cioè quella matrice di dominio culturale che ha mascherato Byron e decine e decine di autori lgbt.
    Ed è declinando questa modellizzazione che Buffoni, regalandoci un Byron inatteso, appronta un affresco straordinario, gestito sulla punta della voce di Fletcher, vittima d’amore, scudiero e testimone ritrovato della letteratura, e, in qualche modo, di una forma di verità.

  5. @ Eleonora Pinzuti etc.

    …non è un po’ limitante individuare ed etichettare una letteratura LGBT (sigla che di per sé non mi sta affatto simpatica, perché appunto “sigla”, che appiana le complessità degli orientamenti individuali), individuare degli autori LGBT, una “cultura” LGBT? Chiaro che il fenomeno esiste e ha rilevanza sociologica oggi, ma applicarlo retrospettivamente a una fantomatica “storia” financo “letteraria” LGBT mi pare una di quelle semplificazioni in odore di ecumenicità postmoderna, che di fatto fanno strage delle diversità che si vorrebbero preservare. Alla luce del testo di Buffoni, io non direi mai che Byron era un “autore LGBT”, piuttosto era un poeta bisessuale che amava gli uomini, o un omosessuale che andava con le donne, o quel che volete. Questo senza voler essere riduttivi: la sua omosessualità non è certamente indifferente per chi lo studia e lo ama, lo è ancor meno ai fini della storia del costume. Ma mi pare che oggi si utilizzino delle categorie un po’ all’acqua di rose, per non dire alla cazzo di cane, che ci vengono direttamente dall’espansività ingenua di certi Cultural o Gender Studies americani, figlie forse di certo relativismo decostruzionista politically correct, in cui strumenti storico-critici eminentemente attuali, estremamente raffinati nel descrivere certi fenomeni sociali di oggi, sono usati per riscrivere con leggerezza e gusto dello scandalo la storia universale. L’impressione è che paradossalmente la storia vera, in cui ciò che definiamo “differenze” (ma di cosa si tratta in realtà?) hanno una presenza sotterranea, conflittuale, spesso rimossa, tutte le difficoltà, i sacrifici e gli strazi che quasi sempre le si accompagnano vengano in qualche modo emendati, in una sorta di serena teleologia che ci porta per mano fino al paradiso della liberalità contemporanea – che non è affatto un paradiso, ai miei occhi. Ciò che si cancella o si smussa nel passato lo si cancella e lo si smussa nel presente. E forse penso a una più sottile forma di discriminazione, davvero durissima a morire in quanto invisibile, soft, garbata, una discriminazione che Aldo Busi ha accusato più di una volta in interviste e apparizioni pubbliche: lo scaffale della letteratura LGBT. Che ha le sue ragioni di mercato, sia chiaro, e ha anche le sue ragioni nell’ordine della critica tematica. Ma per me un Edmund White, mettiamo, non è un grandissimo autore gay americano, è un grandissimo romanziere punto. E quante volte lo si nomina assieme a De Lillo, a Franzen o a chi per loro? O perfino Cunningham, che ha avuto un successo mediatico tanto maggiore, non lo si cita sempre un po’ a parte? E’ una questione delicata e complessa, che riguarda il modo di noi “postmoderni” di pensarci, ma spero di essermi spiegato bene.

  6. Credo che il mettere in luce l’omosessualità di Byron possa essere un interessante nuovo punto di vista e una lettura nuova della sua personalità, ma non certo LA CHIAVE di lettura del personaggio.
    Ripeto, amare gli uomini e sposare o avere amanti donne, era la regola per l’aristocrazia britannica educata nelle Public Schools prestigiose e nei College più esclusivi, non l’eccezione. L’eccezione era l’opposto semmai. E’ un fatto storico e incontestabile.
    Dunque non vedo come questo rientri in una categoria così limitante come quella della letteratura gay o peggio gender (robetta inventata dagli americani e di poca o nessuna utilità critica).

    Buffoni ci dà una visione interessantissima e nuova di Byron, tratteggiata con grande arte e leggerezza, ma dubito che questa possa essere intesa come unica chiave di lettura di un personaggio che ha incarnato un intero mondo e un’intera epoca, con tutte le sue contraddizioni e i suoi lati oscuri.

  7. @ ostruzionismo Decò:
    mi scusi per l’intromissione, ma in qualità di aspirante frocista di professione mi sento chiamato in causa e avrei qualche obiezione da muoverle. Le etichette sono spesso limitanti e in qualche modo precludono l’accesso ad ampi settori del mercato editoriale (la letteratura di genere gay è difficilmente letta da un pubblico eterosessuale), anche se altrettanto spesso sono gli stessi autori a servirsene per costruirsi una carriera. Quello che più mi turba però è la gerarchia delle etichette, come se americano non fosse un’aggettivazione meno restrittiva di gay, se romanziere non fosse altrettanto limitante, come nel caso di Edmund White, che lei cita. White è un grande scrittore americano, molto più influente e incisivo di Franzen, ma il suo essere gay lo mette in una posizione di svantaggio. Perché anche se scrivesse il nuovo Grande Romanzo Americano resterebbe comunque un autore gay, e dunque ai margini del canone. Perché della sua gayezza White ha fatto virtù. Verso la fine degli anni 70, White e i suoi amici del Violet Quill hanno capito che era compito anche degli scrittori rappresentare una realtà in cambiamento, ma per farlo avevano bisogno di una lingua tutta loro, di nuove forme narrative non imposte, punti di vista non eteronormativi: di parlare di gay dal punto di vista dei gay. Edmund White è uno dei più grandi scrittori americani al momento proprio perché intriso di cultura e letteratura omosessuale, perché offre un punto di vista trasversale (queer). Castrarlo della sua gaytudine sarebbe fargli un torto, farlo ai suoi lettori. Stessa cosa si può dire di Adrienne Rich, che è la poetessa americana più importante, ma che spesso non è letta perché donna, femminista, lesbica e politicamente attiva.

  8. @ Gian Pietro Leonardi
    non si preoccupi per l’intromissione, che io sono molto più intromesso di lei, in questo blog, e il mio intervento chiedeva per l’appunto un confronto. Sono d’accordissimo su White, sarebbe una follia volerlo decurtare della sua omosessualità, dato che è il perno attorno a cui ruotano i suoi romanzi autobiografici. E capisco bene che alcuni autori giochino sulla carta della letteratura di “genere” per costruirsi una carriera: tra l’altro nel panorama da giungla di oggi ogni furbizia è lecita per riuscire ad emergere, il giudizio si gioca poi sul valore di un’opera. Per quanto riguarda le etichette, dal punto di vista critico, che non è quello del mercato (si spera): “romanziere” può essere certo una categoria molto limitante, specie nel Novecento, “americano” lo credo un po’ meno. Il problema è quanto certe etichette di genere o nazionalità abbiano influito nella storia letteraria, sia sul versante critico che su quello dell’identità che ogni scrittore faticosamente ha da costruirsi. Se hanno agito e agiscono potentemente, allora hanno pieno diritto di essere nominate e di influenzare la lettura, anche per essere poi messe in discussione. Certo, se un gruppo di autori si proclamano autori gay, LGBT o queer, questo nemmeno va ignorato, ma da assoluto profano mi permetto di osservare che: la trasversalità della cultura LGBT è forse oggi troppo “liquida” e conciliante per fornire un valido strumento di individuazione; la cultura e letteratura omosessuale maschile non può essere recepita come uguale a quella femminile o transgender – nella storia sono diversi i gradi e le modalità di autorappresentazione, repressione e concessione, a seconda delle società e delle classi; l’autopromozione e l’indirizzarsi a un pubblico mirato, da parte di un gruppo di autori, non è decisivo per stabilire l’autentica portata della loro opera, né è una mossa che alla lunga paghi in termini di lotta civile: ciò che inizialmente fa la forza di un gruppo, il corporativismo, può facilmente trasformarsi in autoghettizzazione, specie coi meccanismi mortiferi della società tardocapitalista. E può facilmente capitare che Edmund White, tanto migliore di un Franzen, non venga granché calcolato nemmeno da un critico professionista onesto,quando gli capiti di fare un elenco degli scrittori americani più interessanti di oggi. Probabilmente la cultura gay, come ogni cultura nata in epoca tardocapitalista, è una sottocultura: non in senso spregiativo, ma nel senso che per consistere istituzionalmente si distacca a mo’ di costola ed è al contempo integrata – dunque neutralizzata – dalla macrocultura dominante eteronormativa. La questione, che riguarda anche il postfemminismo e il “movimentismo” in genere, a ben pensarci è vertiginosa: come salvare una radicalità d’intenti, un’opposizione, senza disperdere la propria carica eversiva, in un contesto che tende a prevedere, inglobare, mettere in scatola ed eticchettare tutto il possibile nei suoi apparati, con la maschera della magnanimità democratica? Penso a una pagina di Walter Siti che mette i brividi: dove, in Troppi Paradisi, parla della cultura omosessuale come avanguardia del tardo capitalismo occidentale – un’iperbole, forse, una provocazione, ma quanto ci manca? Non ho certo una soluzione al problema, penso solo che sarebbe bello, un giorno, auspicare che uno scrittore omosessuale non scriva un “romanzo omosessuale per omosessuali”, ma solo un romanzo di altissimo valore, in cui il protagonista scopa e s’innamora di uomini. Ma certo, dato lo stato delle cose, mi pare un proposito ben utopico. Per il momento, credo ci si debba limitare a rimanere lucidi, a dubitare di tutto ciò che rassicura col feticcio dell’identità, e condurre le proprie lotte con l’attenzione necessaria a non concedere niente al nemico.

  9. @ Ostruzionismo decò
    Gentle “Ostruzionismo Decò”, non credo affatto, personalmente, di utilizzare né “etichette” alla “cazzo di cane” [sic], né di essere preda di un “ecumenismo” o di una “espansività ingenua”. La nascita di una “cultura lgbt” e di una “letteratura lgbt” è confermata da parecchi studi accademici che rintracciano nelle intertestualità le connessioni tematiche e le strutture narratologiche della circolazione letteraria. Questo fa sì che si possa parlare, a mio avviso e di altri, di “letteratura lgbt” senza scomodare gli “scaffali delle librerie” o, di nuovo, citare le affermazioni di Busi (che ben conosco, mi creda, ma che non mi turbano troppo). Busi ha tutto il diritto di definirsi come vuole. Il guaio è che il teorico della letteratura registra, e poi fa il suo mestiere. La questione che lei pone, poi, è vecchiotta: mi pare si sussuma in questo stornello: “non è letteratura omosessuale è letteratura e basta”. Certo, anche la “letteratura di migrazione” è letteratura e basta; anche la “letteratura italiana” è letteratura e basta, anche quella “vittoriana” è letteratura e basta, ma guarda caso, per la natura processuale della critica letteraria, la definiamo e la studiamo a partire da certe “caratteristiche testuali”. Il problema è un altro: che un autore migrante , o un autore italiano, non si sentono sminuiti se compaiono all’interno di una certa categoria (che poi, mi creda, viene travalicata dalle intersecazioni degli studi), mentre spesso, quando si parla di “letteratura omosessuale” c’è sempre chi, come lei, afferma che è una forma di “minorizzazione”, quasi che il fatto sia definita “letteratura omosessuale” impedisca (in che modo, mi scusi?) che venga letta, trattata, analizzata, apprezzata, come grande letteratura se lo è. La tranquillizzo per altro su White. E’ unanimemente considerato, non solo da lei, può star tranquillo, uno dei massimi esponenti della letteratura americana, al pari di autori che lei cita. La cattedra a Princeton conferma il dato e anche tutti gli awards. Inoltre, se le capita di leggere la intervista rilasciata da White a Gnerre e Leonardi (Cfr. “Noi e gli altri” a cura di Francesco Gnerre e Gian Pietro Leonardi, Il Dito e la Luna 2007: ma l’avrà già fatto magari, non la ritengo un “assoluto profano”, etichettà, questa sì, un po’ “ingenua” se applicata a lei), vedrà che White, che non teme affatto di essere “particolarizzato”, rivendica la omosessualità di Proust come categoria critica. Molte grazie per la lettura, e.p.

  10. ringrazio Eleonora Pinzuti di aver reso chiaro quello che cercavo di spiegare nel mio post precedente.
    @ Ostruzionismo decò:
    Mi trovo d’accordo con molto di quello che scrive riguardo alle dinamiche di legittimazione, mi limito a precisare che già esiste una letteratura che si è smarcata dalla componente identitaria. Quello che Francesco Gnerre e io abbiamo definito come “romanzo post-gay” è un genere letterario che si è concretizzato negli anni zero che dà per acquisita la presenza gay e va oltre. I protagonisti di questo genere sono gay o lesbiche, ma la loro identità sessuale non è più il centro della narrazione, proprio perché quella identità è ormai stata affermata, reclamata, cristallizzata, riconosciuta (anche giuridicamente), dunque si può decostruire, sovvertire, ignorare. “La linea della bellezza” di Alan Hollinghurst è un romanzo gay, ma che può permettersi di parlare di una società intera. Così anche i romanzi di Sarah Waters, proprio perché in Gran Bretagna (e in minor misura negli Stati Uniti) l’essere gay è ormai una realtà acquisita, tanto che anche scrittori apparentemente etero possono scrivere dei romanzi gay, come il “Dorian” di Will Self. Qui in Italia, forse si è ancora in una era pre-gay, dove l’omosessualità è ancora vista culturalmente come un difetto (bisogna tener conto anche di una “possibile” omofobia interiorizzata da parte di molti scrittori italiani), una cosa da tenere in camera da letto (closet), che non produce discorsi, ma che alimenta dei discorsi di rimando al limite della legalità.
    Infine, credo che quello che Walter Siti definisca il processo di omosessualizzazione dell’Occidente sia un processo irreversibile, nel bene o nel male. E, come ho cercato di spiegare altrove, Silvio Berlusconi è, forse inconsapevolmente, la figura simbolo di questo processo. Con questo, ovvio non voglio farne un santino, ma il suo continuo ricorrere a un immaginario e a un vocabolario queer mi sembra evidente e sotto gli occhi di tutti. Che al momento ci sia una controffensiva contro le omosessualità mi sembra altrettanto evidente, proprio perché come un soggetto “in denial” che cerca rifiuta ciò che è troppo scomodo da accettare e che, invece, insiste sul fatto che non sia vero anche di fronte a prove schiaccianti, la società tardocapitalista vuole eradicare una componente che talmente diffusa e radicata da perturbarla.

  11. Soprattutto questi due ultimi post di Pinzuti e Leonardi mi hanno aiutato a chiarirmi le idee, e mi sembrano mettano la questione in termini incontrovertibili. Nel momento in cui esiste una cultura LGBT, cioè, oltre a un nucleo di temi e di forme, anche istituzioni che le diffondono (circoli, associazioni, case editrici, insegnamenti universitari…), allora non si può far finta di nulla. Non tutte le categorie si equivalgono, per capitale simbolico: certo, c’è sempre qualcuno pronto a far salti sulla sedia se si dice che Dante è un poeta italiano, Sofocle un tragico o Tolstoj un romanziere (Dante è di tutti! Sofocle è Sofocle! Tolstoj non sta in un genere stento!); ma si tratta di usi così assodati e legittimati, che solo la malafede può ignorarli. L’etichetta LGBT, evidentemente, non ha ancora questo prestigio. Però, credo che ci sia anche un altro problema. Mentre la letteratura della tradizione rivendica sempre e comunque un’universalità, al di là delle sua marche nazionali o storiche o di genere, quella LGBT (come altri fenomeni nati in età postmoderna) ha con l’universalità un rapporto molto più difficile. L’affermazione identitaria, infatti, è almeno in prima battuta così forte, da metterla in dubbio (e la letteratura post-gay di cui parla Leonardi in modo molto felice mi sembra voglia scavalcare questo ostacolo). In un certo senso, certa cultura LGBT non vuole essere universalista: e pure di questo bisogna tener conto (la reazione di ostruzionismo decò registra benissimo questo fatto). Insomma, la rivendicazione identitaria mette in crisi, almeno in certe fasi, la nostra idea tradizionale di cultura umanistica – che parla sempre da un qui e da un ora, ma pretende di farlo per tutti, e per sempre.
    E di qui, le questioni si moltiplicano. Solo una: è legittimo parlare di cultura LGBT prima della sua nascita storica? La Recherche è un ciclo LGBT? I sonetti di Michelangelo sono poesia LGBT? Mi verrebbe da rispondere, d’istinto, no, certo che no. Poi ci ripenso, e mi dico che c’è anche una responsabilità dell’interprete che va tenuta in conto, e che la storia, se coi suoi fatti argina il dilagare dei nostri bisogni annessionistici, d’altro canto siamo pure sempre noi a farla/raccontarla…
    Infine: si è perso un po’ di vista il libro che Buffoni sta pubblicando a puntate (e sul quale spenderei traquillamente l’etichetta LGBT, come quella di italiano o di contemporaneo – sulla questione del genere letterario, invece, le cose si complicano, e l’attribuzione alla non fiction mi lascia insoddisfatto). Posto che la cultura LGBT non è una questione di pura accademia, ma di emancipazione e di attivismo civile (altrimenti, chi se ne fregherebbe?), che rapporto c’è fra Il servo di Byron o Zamel, e la causa dei diritti LGBT? Qui le idee mi si annebbiano un’altra volta – non foss’altro perché mi è impossibile misurare la qualità di una scrittura sulle sue buone intenzioni (che sono fuori discussione e fanno di Buffoni un intellettuale da ammirare). La mia impressione è che né Zamel né Il servo centrino il loro bersaglio (ma del Servo conosco ancora troppo poco per parlarne sensatamente). Zamel a me è parso limitato da un certo moralismo didascalico – alla fine, non ne potevo più di quella specie di abatino saccente che è Edo, e solidarizzavo con Aldo, per quanto sfruttatore imperialista di nordafricani. In generale, lo confesso, ho scarsa simpatia per la letteratura che mi edifica e vuole risolvermi i problemi: preferisco quella che i problemi me li dà, e magari mi dice quel che non vorrei sentirmi dire. Il pericolo che intravedo è un’oscillazione polare fra i buoni propositi educativi (ma poi, rivolti a chi? chi lo legge Zamel? chi davvero andrebbe convertito, o chi è già converso?) e risentimento in senso nietzcheano (mi spiace, ma i recenti outing li leggo così – e infatti qui, giustamente, Buffoni fa apparire un servo). Alla fine, preferisco una letteratura più cattiva, più sporca, più sgradevole – come quella che da noi sa fare Siti, o come quella che sa fare White. E – sarò vecchio – una letteratura che parli a tutti non nel senso che a tutti faccia la predica, ma in cui tutti possano vedersi – anzi: vedere di sé quello che ignoravano. Zamel mi ha riconfermato nel mio buon senso di civile uomo di sinistra; e avrei voluto qualcosa di diverso. In fondo, non mi sarei mai innamorato di una smorfiosetta veronese di buona famiglia. Però Romeo e Giulietta… (Scusate la frettolosità da pausa pranzo: ma insomma, sono cose urgenti).

  12. @Eleonora Pinzuti
    mi creda, malgrado la mia retorica estremamente polemica e riduttiva, non volevo sminuire il suo approccio e la sua professionalità. Di retorica appunto si trattava, e la verve polemica è più contro un sistema di valori che è sotteso a un certo genere di studi che contro i risultati concreti di quegli stessi. D’altronde non possiamo condividere tutti la medesima Weltanschauung, sebbene sia convinto che siamo tutti buoni e competenti. Parlo davvero da profano, d’altronde, perché non ne so nulla di Gender Studies e di classificazioni storico-critiche della letteratura LGBT, di quel genere mi è capito di essere un fervente lettore, e ogni lezione da parte di esperti è più che benvenuta. Il problema che volevo porre riguarda due aspetti distinti: da un lato quello critico, di valutazione, codificazione e storicizzazione di un genere, dall’altro quello della reale efficacia emancipativa di certa controcultura contemporanea. Le risposte fornite alle mie “provocazioni” sono interessantissime, con un po’ di studio potrei arrivare a riconsiderare la vecchiezza umanistico-centrica delle mie convinzioni.
    @ Gian Pietro Leonardi
    del romanzo post-gay niente ne so, e come la mette lei parrebbe un’evoluzione emancipatoria importante. Forse il vero problema, per noi italiani, è appunto quello che lei denuncia: che qui siamo in un’era pre-gay, mentre altrove certe guerre di trincea sono già state vinte. Ma io sono abituato, da italiano, a diffidare delle vittorie, financo giuridiche: ho sempre l’impressione, giacché il mondo è irrimediabilmente cattivo, che mentre a tavola ci si sorride e ci si lusinga, nelle cucine ci si prepari un piatto avvelenato. Per quanto riguarda l’omosessualizzazione dell’Occidente e il santino Berlusconi, tutto vero: ma non ci vedo nessun bene, da come la mette Siti, più che il comprare la propria legittimazione in società vendendosi a un sistema di iniquità e delitto, e accettando le maschere che questo ci impone. A meno che, in quanto avanguardia, non si decida di accelerare la rovina dell’Occidente, posizione che risulta alquanto interessante. Ma qui si sconfina nel nichilismo e nel reazionario, non oso dire nel rivoluzionario.
    @Raffaele Donnarumma
    sono d’accordo parola per parola, sui punti più chiari come sui dubbi e le confusioni. Sarà una scelta di campo, ma una letteratura che conforta, che concilia, che educa, fosse anche un conforto e una conciliazione con la propria identità sessuale, non m’interessa più di tanto. L’omosessualizzazione dell’Occidente, come la presenta Siti, mi fa venire i brividi, mi crea problemi, mi fa dubitare di alcuni punti fermi che credevo acquisiti: ecco, io tifo per qualcosa del genere. Con questo non dico che non si possa fare anche altro, molto mirabilmente, come sa fare Buffoni. E mi piacerebbe che almeno lo spauracchio dell’omofobia introiettata venisse superato (quando non si trattasse di un vero problema), e si potesse parlare apertamente, lucidamente, senza sconti e ipocrisie politiche, di certe questioni. Come mi pare sia stato fatto qui finora.

  13. Ringrazio per questo thread così ricco di spunti e di idee, e in particolare Eleonora Pinzuti che ha scritto un vero e proprio saggio. “Il Servo di Byron” si compone di 21 capitoli; tra due domeniche concluderò l’anticipazione con la pubblicazione del IV capitolo. Il libro uscirà in giugno da Fazi editore.
    A mo’ di commento complessivo a molte delle osservazioni contenute nel thread, riporto qui l’incipit della relazione che tenni al convegno fiorentino del marzo scorso su Omosessualità e Letteratura, organizzato proprio da G.P. Leonardi.
    Ero in Inghilterra nel 1970, quindi (con l’amico Mario Mieli) assistetti alla nascita del movimento: ricordo le riunioni nella sede di New Caledonian Road.
    Poi ne tentammo l’importazione a Milano, con varie fasi, fino alla spaccatura: Mario duro e puro nell’ala oltranzista (queer ante litteram); io tra coloro che decisero di fiancheggiare il partito radicale.
    Risale a quegli anni la scrittura del mio romanzo breve Reperto 74 (il riferimento è appunto all’anno di composizione), che ho pubblicato solo nel 2007. Feltrinelli, che aveva letto positivamente il libro – dicendosi interessata alla mia “incandescente nuova scrittura testimoniale” – era disponibile a pubblicarmi purché togliessi il primo lungo capitolo e aggiungessi un capitolo conclusivo. Non ero d’accordo: nel primo capitolo avevo stipato tutte le mie conoscenze di cultura omosessuale; inoltre mi dilungavo in una disquisizione di intonazione psicologistica, che allora mi pareva essenziale: la chiave per comprendere. Non ero disposto a toglierla, avrei snaturato il senso del mio lavoro. Allora si cercavano le cause. E in letteratura si riteneva che il racconto del desiderio omosessuale fosse interessante di per sé. Io poi ero proprio quello che Moravia, allora, definiva un omosessuale “organico”, alla Pasolini: caratterizzato da odio profondo per il padre e da un inscindibile, viscerale legame con la madre…
    Nell’autunno del 1974 si profilò anche il mio primo concorso universitario e volli impegnarmi a fondo nella ricerca e nella scrittura saggistica; emersi dall’apnea qualche anno dopo, sentendomi all’unisono coi poeti romantici inglesi: cominciai a pubblicare le prime poesie, le prime traduzioni. Non pensai più a quelle pagine “giovanili”.
    E oggi parlare di “letteratura omosessuale” mi fa una strana impressione. Da un lato sono convinto che in Italia ce ne sia ancora bisogno: in Italia l’omosessualità non è ancora “normale”. L’omosessualità diventa normale quando è normata. In Italia è ben lungi dall’esserlo. Il mondo post-gay – come ci dice Marco Mancassola – è un mondo dove le inclinazioni non implicano per forza il riconoscersi in un gruppo, in una presunta cultura o in uno stile di vita. Da noi invece c’è ancora molto bisogno di una rivendicazione militante della differenza. Prima di poterci concedere – anche noi – il superamento dei ruoli e delle categorie.
    Dall’altro lato, tuttavia, parlare di letteratura omosessuale mi riporta – per analogia – al disagio che provai qualche anno fa a Siena, quando in occasione di un convegno sulla traduzione, dopo avere impostato la mia riflessione sulla differenza costituita dalla traduzione letteraria (per analizzare la quale risultano inadeguati gli strumenti della sola linguistica teorica: occorre integrarli con un’altra strumentazione preveniente dalla “dottrina del gusto” di kantiana memoria, alias dalla filosofia estetica) uno Jago precocemente canuto mi contestò affermando che non si sarebbe mai sognato di parlare di traduzione chimica, dopo aver tradotto un manuale, per l’appunto, di chimica.
    Che cosa delimita i confini di una presunta letteratura omosessuale, ci possiamo chiedere. La vita erotica, presunta o dichiarata, di chi scrive? I temi trattati? Certamente continuerò a parlare di traduzione letteraria – almeno fino a quando percepirò che tale formula custodisce un’inalienabile specificità – e continuerò a parlare di letteratura omosessuale, almeno fino a quando da essa mi giungerà una rivendicazione di fondo.

  14. Anche io vorrei ringraziare per il tono e la ricchezza della discussione. Piccola precisazione: ho fatto riferimento all’omofobia interiorizzata non per vittimismo, ma per far rilevare una componente che va tenuta conto, proprio perché tutti noi ci dobbiamo fare i conti ogni giorno, anche quelli più liberati.
    @Raffaele Donnarumma
    Trovo molto interessanti e condivisibili molte delle sue affermazioni. Mi limito a far notare che ha concluso il suo intervento con un’allusione al “Romeo e Giulietta”, che in un contesto di sconfinamenti e cortocircuiti temporali e identitari mi è sembrato molto azzeccato per la sua carica allusiva. Mi ha evocato infatti “Il ritratto di Mr W.H.” di Oscar Wilde del 1889, un racconto saggio sui “Sonetti” di Shakespeare e sulla vera identità sul dedicatario della raccolta, che secondo il protagonista del racconto era in realtà un attore adolescente, per il quale Shakespeare aveva scritto anche la parte femminile di “Romeo e Giulietta”, appunto. Tutto torna.
    Qui si ritorna al mio punto di partenza, a quelle che Scott Bravmann chiama le “queer fictions of the past”, quelle ibridazioni di testi gay e di storie passate che ci restituiscono una realtà più complessa e meno fluida di come ci è stata raccontata.

  15. @ Leonardi
    L’introiezione del dominio resta infatti forse una delle questioni più difficili e affascinanti da studiare. Negli occhi della vittima c’è sempre un lampo di acquiescenza per il carnefice, diceva Pasolini – che se ne intendeva.
    L’esempio shakespeariano era voluto nella sua ambiguità: l’icona dell’amore eterosessuale è prodotta da un tale con l’orecchino, e sulla cui bisessualità i Sonetti dicono pure troppo. Mi scusi, semmai, per l’approssimazione del resto, e grazie per tutte le idee su cui, insieme a Pinzuti e Buffoni, ci ha dato da lavorare.

  16. Trovo che dare un etichetta serva a mettere ordine; il pensare dei posteri rispetto all’ etichettature dei contemporanei potrebbe produrre nuove etichette o toglierne altre. Il modo di etichettare e di riorganizzare la dice lunga sullo spessore del pensiero corrente. Le etichette LGBT, di per se non dovrebbero avere valore alcuno, non dovrebbero orientare, ma evidentemente, se esistono, è necessario che esistano; purtroppo.

  17. Ci sono mille e un modo di essere omosessuali, esserlo anche senza provare alcuna attrazione, nemmeno sessuale, per esempio, e ancor meno sentimentale, e poi bisogna mettere in conto di come si cambia nel corso degli anni, di come la libido diminuisce o si cristallizza su idoli congelati dal ricordo e che nessuna palpitante presente scongelerà più, mentre ce n’è uno solo per essere Scrittori: esserlo e restarlo nel tempo aggiornando le strutture linguistiche che fanno tutt’uno con quelle psichiche attivando senza riserve il fastidioso congegno della nuova consapevolezza, saper registrare con la stessa neutralità emotiva e il medesimo ardore retorico sia il desiderio che la sua sparizione, la “materia” che prima si muoveva e ora ci muove e semmai si muove contro di noi e altera ogni possibile alfabeto di comodo. Io, in quanto Scrittore, non devo niente né alla mia antica attrazione per gli uomini né alla sua sostanziale sparizione – da almeno un quarto di secolo, il che non significa che abbia preso a essere attratto dalle donne o che sia venuta meno la mia lotta contro l’omofobia in quanto responsabile cittadino o che non tenti, una volta l’anno, almeno sveltina – sempre troppo lunga, una faticaccia.
    La letteratura Lgbt semplicemente mi annoia da sempre, White e Siti e Tondelli e Pasolini (e ormai anche Proust, ma per tutt’altre ragioni: non parla mai di soldi, di come i suoi personaggi altolocati li hanno fatti, per esempio) e le lesbiche che scrivono di lesbiche mi annoiano, sono ripetitivi, sembra che per loro il tempo – del desiderio – sia sempre lo stesso, fissano lo sguardo su ciò che pretendono di darci a intendere di provare e non vedono nient’altro che il riflesso del proprio sessista miraggio, vuotissimo, di senso politico e di riorganizzazione del linguaggio “del momento”. Sono vecchi, ecco, mi sembra di ascoltare la barzelletta dell’anno scorso, per dirla con Schiller. Inoltre, sono troppo clericali, lagnosi, splatter e sdolcinati per me, fanno troppo travet del culo con cilicio incorporato da studi liceali presso un Sacro Cuore. Non avendo il polso politico della propria sessualità, non hanno lingua, punto.
    L’unica concessione che posso fare a un autore gay è di non essere meno stupido di un autore etero: uno Scrittore non ha miti e li abbatte tutti, primo tra tutti quello sulla propria identità e i desiderata del proprio ego duro a morire; se uno a cinquant’anni scrive ancora come a venti, è perché è affetto da sindrome di coazione all’infanzia e probabilmente non si è mai spostato dai quindici. Posso essere attratto dai palestrati passivi (?) o dai ragazzi di borgata o dai prostituti rumeni per tre giorni, ma se dopo trent’anni sono ancora lì nella stessa postazione, alfabetica, dovrei avere il buon senso di non rendere pubbliche le mie paturnie o di scrivermele e leggermele da me. Il guaio delle ossessioni è che quando non passano, non sono nemmeno più tali – e nemmeno te lo fanno sapere – e ossessivo a vuoto diventi tu. Ps ho appena terminato “Il servo di Byron” e, malgrado qualche conio fatalmente anacronistico – c’è addirittura un “sull’orlo di una crisi di nervi”, e siamo attorno al 1820, e ovviamente il servo si fa frustare e ovviamente gode -, l’ho parecchio apprezzato, ma dubito fortemente che il termine “gay”, malgrado la dotta delucidazione nella postfazione, possa ascriversi a fine Settecento. Che cosa c’è di gay in un gay, poi, è un mistero che nessun autore gay ancora ci ha spiegato: qui o arriva uno Scrittore o non se ne esce. Aldo Busi / SVP non pubblicare la miae-mail, mi scuso di eventuali refusi, non vedo il testo per intero e il corpo… tipografico… è troppo piccolo per la mia visione.

  18. Per Aldo Busi

    Caro Aldo, grazie! Scrivi che hai “parecchio apprezzato” Il servo di Byron. E hai letto il libro, non solo questa anticipazione su LPELC.
    Se un fastidious connaisseur come te sente il bisogno di scrivere pubblicamente che ha apprezzato il libro, io autore, io scrittore (con la “s” rigorosamente minuscola) posso solo ringraziare.
    Mi limito ad aggiungere che fui molto sorpreso, anni fa, quando appresi dell’uso corrente – pur se all’interno di ristrette cerchie di “iniziati” – del termine gay in senso moderno già all’inizio dell’Ottocento. Comunque, come tu stesso rilevi, alla fine del Servo fornisco i dettagli e le coordinate bibliografiche per chi volesse approfondire la questione.
    Quanto ad alcune espressioni “attualizzanti”, ho deciso di lasciarle dopo aver scelto la copertina, che in qualche modo induce a isherwooddiare il personaggio del “servo” col book:
    http://www.francobuffoni.it/servo_byron.aspx
    Perché il mio obiettivo era proprio il contrario rispetto, per esempio, al Servo di Losey. Mentre quello scende i gradini dell’abiezione, il mio servo si emancipa e alla fine vince elevandosi culturalmente e politicamente, pur continuando ad amare one-down il padrone sconfitto.

    Spero di rivederti presto. Un caro abbraccio. Franco

  19. Leggo nell’articolo di Nadia Fusini a cui si accede tramite il link segnalato da Buffoni:

    “Buffoni affida il racconto della vita omosessuale di Byron alla voce del fido servo Fletcher. Il quale non è affatto un servo-padrone. Niente a che fare con Hegel, né con Melville. Non è neppure Il servo di Joseph Losey, di cui nel suo ultimo libro (edizioni Clinamen) Giuseppe Civitarese ci offre un’ interpretazione psicoanalitica di grande interesse. Perdere la testa si intitola il saggio che esplora quel complesso grumo di fascinazione e terrore che secondo l’ autore è proprio del piacere estetico e nel film di Losey si condensa nella vicenda di abiezione che racconta.
    Nel racconto di Buffoni, invece, il servo amante-badante, che si lascia battere e accudisce e obbedisce, si eleva. E, sorpresa!, laddove fallisce il padrone, lo schiavo sopravvive a una follia d’ amore che lo emancipa”

    [Nadia Fusini, La Repubblica, domenica 17/06/12]

    Trasferendo con un po’ di irriverenza (credo legittima) ad altro contesto (quello comunemente detto politico) questo “servo amante-badante, che si lascia battere e accudisce e obbedisce” e alla fine “si eleva” non ne viene fuori un piccolo elogio della sottomissione alla fine premiata? E dello stesso tipo di quella delle religioni che sollecitano al sacrificio qui per il premio nell’aldilà?
    In entrambe le situazioni il rapporto padrone-servo viene ribadito.
    Certo tutte le rivoluzioni sono fallite e allora accontentarsi è d’obbligo…
    E poi anche il servo gode!

  20. Caro Ennio Abate,

    poni due domande relative al mio Servo di Byron e dunque cerco di rispondere, anche se più intitolata di me sarebbe Nadia Fusini, autrice della recensione su Repubblica.
    Credo che Fusini abbia colto nel segno: al termine della narrazione il servo è persona colta e accorta, ha acquisito consapevolezze di ordine civile e politico, è dotato di foresight.
    Questo foresight se lo è guadagnato stando vent’anni con il padrone, ascoltandolo conversare con Shelley e Pietro Gamba, con Leigh Hunt e il capitano Trelawny, e leggendo ogni riga dei suoi scritti, in particolare The Memoirs, andate distrutte per la codardia dell’esecutore testamentario Hobhouse, della sorellastra Augusta e dell’editore Murray, che di Byron volevano preservare la “reputazione”. Il servo è l’unico che ha letto The Memoirs e può parlare con cognizione di causa di tanti dettagli intimi della vita affettiva e sessuale del padrone.
    Quanto alla riflessione escatologica, sì, da un punto di vista tecnico, geometrico, l’osservazione tiene. Dopo tutto uno dei primi documenti volti a legare la letteratura italiana a quella inglese è la storia di Griselda (che da Boccaccio, attraverso Petrarca, giunge a Chaucer). Mica a caso.

  21. Caro Buffoni,
    effettivamente sarebbe bello che mi rispondesse Nadia Fusini, ma io non ho modo di porle direttamente le questioni. Ci si potrebbe però pronunciare, qui su LPLC, indipendentemente dalla Fusini.
    A me pare che sul piano dell’esperienza degli ‘io’ in questione, se i rapporti sociali in cui essi agiscono (feudali nel caso in questione) sono dati e insuperabili, si possa anche applaudire al processo di emancipazione del servo. Valeva anche nell’antica Roma per i liberti.
    Ma sul piano dell’esperienza del ‘noi’, se appena i rapporti sociali non vengano più vissuti come naturali o stabiliti da Dio, quella del servo sarebbe un’emancipazione di serie B ( o una cooptazione pagata a caro prezzo) e, di fatto, una rinuncia a una libertà più alta da conquistare “per tutti” e non solo “per sé”..
    Dicendo questo, ho in mente tutta la ormai sepolta problematica femminista. Ma anche certe pagine di Fortini in *Attraverso Pasolini* (quelle di * Poesia e corruzione* pagg. 172- 180, dove si parla di«relazione ineguale» e dell’«attaccamento del sedotto al suo corruttore»).
    La ringrazio comunque della risposta.

  22. Caro Abate, la sua citazione da Fortini mi fa venire in mente quanto accadde a Napoli qualche settimana fa al Chiaia Hotel de Charme di via Chiaia al termine della presentazione del Servo. Si alza un ragazzo con aria molto seria e mi dice, scandendo: “Sa cosa penso? Che lei sia comunista!”.
    Io risposi: “Potrebbe anche essere, ma perché dice questo?”.
    “Mi sembra evidente”, replica lui, “con questo personaggio del Servo che si emancipa e alla fine seppellisce e compatisce il padrone pur continuando ad amarlo, lei abbatte nel terzo decennio dell’Ottocento le barriere delle classi”.
    Chissà se quel giovane legge LPELC, magari vuole intervenire…

  23. Con l’inopportunità di un ritardo di mesi, per la quale mi scuso, m’interrogo su questo passaggio contenuto in un commento di Gian Pietro Leonardi:

    “Qui in Italia, forse si è ancora in una era pre-gay, dove l’omosessualità è ancora vista culturalmente come un difetto (bisogna tener conto anche di una “possibile” omofobia interiorizzata da parte di molti scrittori italiani), una cosa da tenere in camera da letto (closet), che non produce discorsi, ma che alimenta dei discorsi di rimando al limite della legalità.”

    Che l’omosessualità in Italia sia ancora – addirittura – un tema e non una circostanza che deve sgomitare con le altre circostanze per guadagnarsi l’attenzione – quindi attivandosi per fare qualcosa, senza accontentarsi di esserlo, quel qualcosa-a-parte e fin da prima – è ancora noiosamente, quindi letalmente, vero, però proprio in Italia e in letteratura lo scrittore che il problema identitario (altrui: perché il problema dell’identità non è mai del singolo, ma della società nel quale il singolo deve essere reso riconoscibile per non essere inquietante poiché non neutralizzabile con un colpo solo e d’occhio, senza perciò doversi sporcare le mani) l’ha affrontato e finalmente sorpassato credo ci sia e che sia Aldo Busi, e credo che la critica letteraria, a fronte di una situazione italiana nota vieppiù per i suoi record al negativo, potrebbe pure cominciare a vantarsene un po’ .

    Aldo Busi nelle sue opere riesce tanto a liberare dal cono d’ombra della censura implicita la situazione omosessuale – secondo la quale i gay soffrono perché a tutti-gli-altri dispiace che loro scopino tra di loro e poi praticamente per nient’altro – quanto a non circoscriverla, limitandola nuovamente, in un cono di luce altrettanto fissa, nella quale i gay, finalmente, del dispiacere degli altri cominciano a infischiarsene, continuando a scopare tra di loro, proiettati in un roseo avvenire di coppie pigre e menefreghiste come-tutte-le-altre.

    Alleggerendo l’omosessualità dalla fatica bestiale di dover dare scandalo-a-tutte-le-ore pena il non essere gay abbastanza, Aldo Busi, raccontando assieme a quelle altrui anche la sua sessualità, non ha per questo deciso di rendersi riconoscibile e quindi neutralizzabile. In quanto scrittore Busi non rinuncia all’essere inquietante ovvero non ordinabile né etichettabile, non diminuisce la sua libertà singolare in cambio dell’accettazione, o, peggio!, dell’approvazione sociale, ma per esserlo ricorre alla sua scrittura, non alla sua identità – sessuale o politica o gastronomica. Per sintetizzarla come mi riesce: essere gay non basta mica a segnare una differenza significativa da chi gay non è, anzi è probabile che sia sempre la stessa broda pressoché primordiale.

    Se grande merito della letteratura è allora quello di aggiornare la società su quel che le sta già succedendo senza che lei si dia pena di guardarsi attorno, merito ancora più alto è quello del tenere sempre accesa l’attenzione sul soggetto perché ricordi a se stesso che non è mai riducibile a una sua parte, sia essa la più lecita o la più illecita agli occhi della maggioranza con le paturnie voyeur del suo tempo – che come tutti gli altri tempi, è solo un attimo a cui non si può proprio dedicare una vita.

    A tal proposito, il giusto interesse che suscita il libro di Buffoni sul caso “Byron” non è la sua omosessualità, ma il perché Byron non abbia potuto – voluto – manifestarla e viverla pubblicamente nella sua epoca – per paura della morte fisica o, paura talvolta ben più agghiacciante, di quella civile.

    Un saluto!,
    Antonio Coda

  24. Ringrazio Antonio Coda per la ripresa della discussione, a maggior ragione ora che il testo di Franco Buffoni è in libreria e fruibile nella sua interezza.
    Sono d’accordo con lei quando afferma che la questione dell’identità sessuale e/o sessuata non pertiene solo il singolo, ma che riguardi il noi piuttosto che l’io. Altrimenti si correrebbe il rischio di ricadere nel gioco dell’essenzializzazione, scambiare l’essere per la cosa. Credo che bisognerebbe parlare sempre più di intersezionalità a proposito di identità, di attraversamenti multipli (precari, instabili, mai definitivi…) di genere e di posizioni identitarie. Ora, vendendo al dunque, cosa rende l’omosessualità una pratica eccentrica? L’atto sodomitico in sé, la passività, l’omoaffettività, la genitorialità? Cosa è che crea problema? Prese singolarmente queste pratiche non fanno problema al singolo. Sempre di più, soprattutto tra i giovani, l’omosessualità e l’eterosessualità sono vissute in maniera meno polarizzata ed edificante. In questa rivoluzione sessuale i social media giocano un ruolo importante, anche i maschi eterosessuali possono permettersi di mettere in piazza le proprie emozioni, farsi penetrare dallo sguardo altrui, concedersi il lusso di essere oggetto piuttosto che soggetto.
    Se non sono le pratiche a far problema, credo che siano i discorsi a farlo. Creano problema al noi collettivo, non al singolo. Le letterature (preferisco coniugarla al plurale) hanno sì il compito di aggiornare la società, come dice lei, ma hanno anche quello di creare un’interruzione di significato, di rompere l’ordine del discorso e aprire spazi a nuovi linguaggi. Ma soprattutto mostrare come quei vecchi discorsi non siano più in grado di rappresentare la realtà nelle sue sfaccettature. Essere gay non basta mica, ovvio. Ma se un discorso che mette l’omosessualità al suo centro crea ancora problemi, tocca nervi sensibili, evidentemente è un discorso che ha ancora qualcosa da dire. Non solo ai gay, a tutti.
    Aldo Busi e la sua opera hanno saputo raccontare magistralmente una certa idea d’Italia e di contemporaneità. Nonostante egli sia gay e/o forse anche grazie al suo esserlo. Metterlo al di fuori e al di là di questi discorsi, credo, finisce davvero per etichettarlo, costruirgli addosso una casella ideale dalla quale sarebbe impossibile venirne fuori. Essere omosessuale non deve sussumere o ridurre l’io di chi scrive attorno alle sue pratiche sessuali e affettive. Ma per fare ciò queste pratiche debbono avere stesse dignità e diritti di quelle normate.
    Infine, Byron avrebbe voluto vivere e manifestare la sua sessualità pubblicamente e liberamente, ma come spiega bene Buffoni sono i discorsi coevi sull’omosessualità a impedirglielo.
    Un saluto e un ringraziamento
    gian pietro leonardi

  25. Gian Pietro Leonardi, la ringrazio per la chiarezza di quanto scrive e per la gentilezza con la quale lo scrive, e provo ad aggiungere qualche parola.

    Sono più che convinto dell’importanza dell’aggiornamento, meglio, della: liberazione; del linguaggio in merito alla omosessualità. Dico della mia esperienza: l’omosessualità è ammessa nel discorso solo in chiave ironica quindi con dovuto distacco, quando non in versione pontificante, nei due sensi che non portano comunque da nessuna parte: parlo-bene-dell’omosessualità-perché oppure parlo-male-dell’omosessualità-perché, poiché è purtroppo ancora qualcosa di non acquisito ma che, tutt’al più, viene illuminatamente-tollerato o rivendicato, ovvero reso argomento di una parte contro un’altra parte. Qundi ben venga qualsiasi narrazione che restituisce all’omosessualità lo spazio pubblico che le è stato negato, anche in letteratura.

    Più che al raggiungimento di una presunta normalità, a me piace pensare a quello di una parità: di diritti, di rispetto e infine di indifferenza, cioé: con il superamento delle legittime e necessarie partecipazioni civili da spendere per fare in modo che nessuna minoranza subisca la tracotanza di una maggioranza che riesce a stare assieme proprio individuando la spina nel suo ventre molle a cui dare la caccia.

    Infine: davvero spero di non aver dato l’idea di aver voluto isolare l’opera letteraria di Aldo Busi, discostandola da un genere letteraio, quello lgbt, che avrebbe potuto in qualche modo sminuirla. A mio parere l’opera letteraria di Aldo Busi rende – fortunatamente – obsoleta una categoria simile, una “nicchia editoriale” seguito di una nicchia di fatto, rappresentando, nei suoi romanzi e nei suoi altri libri, come l’omosessualità non sia un discorso-a-parte, ma un punto di partenza, buono come qualsiasi altro, per fare esperienza di se stessi, degli altri e del mondo.

    Ora non vorrei fare un paragone epocalmente ingeneroso tra Aldo Busi e George Byron, ingeneroso per Byron intendo, polarizzando poi in maniera inutile e forzosa la discussione iniziata invece intorno al romanzo di Buffoni. Però credo, che da questo punto di vista Byron e Busi possano essere presi come riferimenti alle due modalità possibili di rapportarsi all’omosessualità, ma di più: alla vita a tutto tondo in ogni sua spigolosità; come gli si rapportano in letteratura, cosa che per me equivale a dire: nella vita giorno dopo giorno e qui e subito.

    Di fronte allo stesso bivio Busi e Byron hanno compiuto scelte diverse. Byron quella di rispettare le convenienze pubbliche per salvaguardare le volontà private, Busi quella di andare contro le prime mettendo a repentaglio le seconde – e con queste, la vita: la condanna sarebbe stata diversa, nell’Inghilterra di Byron rispetto all’Italia di Busi ma, credo, potenzialmente mortale in entrambi i casi.
    Provo a non farmi equivocare: la differenza, più ancora che nelle vite avute, è nelle opere scritte: Aldo Busi, quando scrive, come dire: non “mente”, non c’è divergenza tra la sua estetica e la sua etica, non ricorre a scissioni di comodo tra l’Uomo e l’Artista, ma si assume la responsabilità e il diritto di essere la stessa persona in entrambi i casi.

    In questo senso di contro alla sua considerazione, Gian Pietro Leonardi, su quel che manca in Italia – e anche fuori dall’Italia – ho fatto il nome di Aldo Busi, il quale, per concludere, penso non avrebbe mai riservato in esclusiva al proprio servo quello che ha potuto dire e dare a tutti, che i coevi fossero pronti a riceverlo, e a consentirglielo, o no.

    Un grato saluto!
    Antonio Coda

  26. Gentile Antonio Coda,
    la ringrazio per il suo ultimo intervento. Concordo con buona parte dei suoi ragionamenti e per questo mi permetto di fare alcune precisazioni.
    Già dal 2007, con Francesco Gnerre, ho scritto di letterature post-gay, ovvero di un superamento di quella pulsione identitaria rivendicativa e conflittuale che aveva caratterizzato buona parte della marrativa gay da Stonewall in poi. Dando per scontata e fondante la presenza gay nella cultura occidentale contemporanea (l’omosessualizzazione dell’Occidente, per dirla con le parole di Walter Siti), evidenziavo che alcuni scrittori e scrittrici, soprattutto in un contesto anglofono, andavano oltre e cercavano di rappresentare la realtà in maniera meno polarizzata, appunto. Ben vengano questi superamenti di nicchie editoriali, ce ne fossero altri di Aldo Busi (se fosse possibile) non mi dispiacerebbe affatto. Per arrivarci, questo è il mio punto, bisogna rendersi conto l’etichetta gay appiccicata a un’opera di finzione crea malessere, mentre altre etichette (altrettanto costrittive e riduttive) come il noir, il poliziesco, la docufiction… non lo sono. E questo malessere genera scarsa visibilità, poche recensioni, scarse vendite. Il caso di Alcide Pierantozzi è esplicativo: il suo ultimo romanzo è chiaramente (post-)gay, ma nessun critico mainstream né la casa editrice hanno evidenziato questo (uno dei tanti) elemento. Un superamento della nicchia (letteraria e identitaria) deve passare necessariamente per un riconoscimento diffuso e condiviso da tutte le parti in questione. Non solo chi scrive, ma chi legge, ci recensisce, chi pubblica, vende etc.
    Solo a quel punto le letterature di Byron e quelle di Busi, con pari dignità, l’una accanto all’altra piuttosto che l’una contro l’altra, potranno essere lette e rilette senza pre/giudizi.
    Infine, anche io preferisco parlare di parità (che non annulli le differenze) e di porsela come obiettivo da raggiungere, ma per fare ciò bisogna passare per una mormalizzazione giuridica ed economica.
    Grazie davvero per gli stimoli,
    gian pietro leonardi

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