cropped-sfondo-pinocchio.jpgdi Stefano Jossa

[Pubblichiamo la premessa del volume di Stefano Jossa, Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, uscito da poche settimane per Laterza. Il libro di Jossa parte da una constatazione: mentre in paesi come l’Inghilterra o la Francia gli eroi dei romanzi sono spesso diventati eroi nazionali, in Italia i personaggi letterari non hanno conosciuto un’analoga mitizzazione popolare. Perché – solo per citare alcuni nomi – Jacopo Ortis e Ettore Fieramosca, Pinocchio e il partigiano Johnny, Gian Burrasca e Montalbano non sono diventati eroi patriottici? Un paese senza eroi risponde a questa domanda, attraversando la storia e i testi per portare alla luce alcuni elementi cruciali della cultura e della società nell’Italia moderna e contemporanea (ns)].

1. Personaggi letterari e carattere nazionale.

Che rapporto c’è tra personaggi letterari e carattere nazionale? Se «carattere», tanto in greco antico quanto in inglese moderno, vuol dire «personaggio», non sarà difficile stabilire una connessione: il carattere nazionale è di per sé un personaggio, cioè il risultato di una finzione, visto che l’identità nazionale, così come qualsiasi identità, nasce e si forma nell’universo delle rappresentazioni, in quanto immagini che convocano dei soggetti alla vita. [1] Dal momento che le nazioni sono a loro volta «immaginate», perché sono il prodotto di proiezioni collettive, [2] l’orizzonte letterario del discorso su carattere, identità e nazione non potrà sfuggire.

Ai personaggi letterari è stato affidato spesso, del resto, il ruolo di eroi nazionali: è il caso di Robin Hood, Wilhelm Tell e d’Artagnan, ad esempio, che, nati nella storia, sono stati immessi nella leggenda nel momento in cui hanno avuto l’incarico di rappresentare la nazione intera. L’eroe nazionale garantisce infatti un passato mitico comune, nel quale tutti possono riconoscersi perché si colloca prima della storia, quindi prima dei conflitti politici all’interno della comunità: garante della felicità collettiva su un piano simbolico, pre-politico e pre-razionale, l’eroe nazionale incarnerà dei valori e degli ideali che sono facilmente riconoscibili come patrimonio di tutti perché non incidono sugli interessi privati e le lotte di parte. Perché ciò avvenga, però, l’eroe dovrà essere privato di realtà e di personalità, in modo da poter rappresentare veramente tutti, prima delle differenze particolari che separano gli individui. È quanto è avvenuto a Robin Hood, Wilhelm Tell e d’Artagnan, che sono progressivamente passati da figure dalla lontana origine storica a simboli idealizzati della collettività, fino a perdere elementi identitari a favore di un’aura sacrale distante e intangibile.

A differenza dei grandi eroi di provenienza letteraria delle più forti culture nazionali moderne in Europa, i personaggi letterari italiani si sono sottratti a ogni tentativo di uso iconico o simbolico. Eppure tali tentativi non sono mancati, se è vero che la maggior parte di loro si è confrontata con l’ipotesi di costruire l’eroe nazionale, o almeno un role model per gli italiani. Un filo rosso attraversa infatti la letteratura italiana tra Otto e Novecento: la riflessione sull’eroe e l’eroismo in una prospettiva nazionale. Che ciò non abbia portato alla nascita di un eroe nazionale di provenienza letteraria è il problema che sarà al centro di questo libro, nel tentativo di rispondere alla domanda se un Robin Hood italiano non esista perché l’Italia ha una debole storia nazionale oppure perché i personaggi letterari italiani hanno saputo resistere a ogni tentazione simbolica. Giocando sull’ambiguità della parola «eroe», che, come recitano i vocabolari, è tanto l’uomo eccezionale che si eleva al di sopra degli altri, quanto il protagonista di un’opera letteraria o artistica, ci proporremo di verificare fino a che punto nei romanzi che hanno costituito il canone scolastico della tradizione nazionale otto-novecentesca il personaggio principale è stato proposto come simbolo o modello a fini di costruzione del carattere nazionale. Che la dimensione dell’eroismo fosse essenzialmente patriottica lo dava ancora per scontato il vocabolario Zanichelli del 1955 laddove alla voce «eroe» spiegava: «chi va incontro al pericolo e al sacrificio di sé per la patria o per altro sublime sentimento pubblico». [3]

L’assunto di partenza è che la letteratura formi l’immaginario collettivo più di qualsiasi altro medium culturale a causa del suo primato nell’educazione: primato che precede l’istituzione della scuola unitaria e resiste all’attacco di altri media più diffusi e popolari per il fatto che attraverso la letteratura si è esercitata una pedagogia pubblica che le dà un prestigio e un potere senza pari sul piano della formazione della nazione. All’argomento hanno dedicato pagine decisive tutti i grandi storici della letteratura e della cultura in Italia, da Francesco De Sanctis e Benedetto Croce fino a Carlo Dionisotti, Ezio Raimondi, Alberto Asor Rosa, Giulio Ferroni, Romano Luperini e Amedeo Quondam, dai cui interventi questo studio è partito. L’ipotesi di partenza è che i loro studi abbiano formato l’opinione accademica, da cui è discesa l’opinione scolastica, con le sue ricadute sull’opinione pubblica e l’immaginario collettivo. [4] Proprio perciò il canone dei romanzi proposti, coi relativi «eroi», sarà assolutamente convenzionale, onestamente scolastico: solo leggendo i testi che hanno formato un corpus didattico consolidato e duraturo si potrà verificare l’impatto dei personaggi nella formazione del carattere nazionale.

L’assenza di un eroe nazionale di provenienza letteraria potrà essere presa come sintomo di una sostanziale resistenza del personaggio a strumentalizzazioni politiche, in una tensione certamente antieroica. Più umani che divini, i personaggi dei grandi romanzi italiani degli ultimi due secoli avrebbero costruito un dispositivo per difendere la cultura italiana da santini onnicomprensivi e omologanti, che facilitano il riconoscimento collettivo, ma inducono anche a processi di spersonalizzazione e livellamento. «Un paese senza eroi» vuole essere allora un titolo positivo, in omaggio e in contraddizione rispetto ai «senza» che caratterizzavano Un paese senza di Alberto Arbasino, un libro del 1980 che si proponeva proprio di indagare l’identità nazionale italiana a partire da una riflessione sul rapporto tra letteratura, immaginario e paese: un paese senza memoria, storia, passato, esperienza, grandezza, dignità, realtà, motivazioni, programmi, progetti, testa, gambe, conoscenze, senso, sapere, sapersi vedere, guardarsi, capirsi e forse avvenire era il paese di Arbasino, ma non senza eroi. I «senza» di Arbasino inaugurano i miti delle mancanze italiane, che avevano già alle spalle i lamenti sull’assenza della riforma e sul ritardo rispetto alla modernità: Se cessiamo di essere una nazione, Italiani senza Italia, Il paese mancato, Italia senza nazione, Né Stato né nazione, Una società senza Stato, Italiani senza padri, Patria senza padri sono solo alcuni dei titoli che affollano gli scaffali delle librerie italiane nell’ultimo ventennio. [5] Il nostro «senza» vuole invece inaugurare una mancanza positiva: ciò che distingue l’Italia senza configurarsi come assenza o ritardo, ma come diversità rispetto ad egemonie culturali che non sono sempre modelli da seguire o esempi da imitare.

2. Quattro tesi.

Questo è un libro a tesi. La prima tesi è che gli eroi non fanno bene alla politica. È famosa e citatissima la battuta di Galileo nella Vita di Galileo di Brecht, «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», in risposta ad Andrea, che aveva osservato «Sventurata la terra che non ha eroi». Il rifiuto del modello eroico da parte di Galileo nasce dalla convinzione che gli eroi siano una finzione, una costruzione letteraria: «La natura non potrebbe fare un caval­lo grande per venti cavalli, né un gigante dieci volte più alto di un uomo, se non o miracolosamente o con l’alte­rar assai le proporzioni delle membra e in particolare dell’ossa, ingrossandole molto e molto sopra la simme­tria dell’ossa comuni». [6] Il Galileo di Brecht sa che la natura non prevede l’esistenza degli eroi: dove si lavora con passione e fiducia per la verità, non c’è bisogno di simboli da seguire e bandiere con cui identificarsi. Il modello che fornisce un esempio vale infinitamente di più dell’eroe da mitizzare e idolatrare: la terra che ha eroi ha costruito una cultura populista, in cui la massa s’identifica con un’astrazione impersonata dal simbolo eroico, mentre la terra che non ha bisogno di eroi privilegia l’etica dell’impegno e della partecipazione.

«Eroe» è parola che ricorre continuamente sulle pagine dei giornali, nel discorso pubblico, nella retorica politica e nell’immaginario mediatico in Italia: sono stati «eroi», negli ultimi venti anni, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Marco Biagi, i caduti di Nassiriya, Nicola Calipari, persino Vittorio Mangano. I casi sono diversissimi, da omaggi più che giusti ad aberrazioni propagandistiche, ma tutti esprimono una fondamentale difficoltà a confrontarsi con l’esperienza umana: spossessati di quella che è la loro vera vita, gli eroi diventano un’astrazione, dei simboli, portatori di valori e ideali che non si radicano nella realtà sociale e culturale della nazione. Il bisogno di eroi rivela una cultura politica debole, pre-razionale, che predilige l’aspetto emotivo sulla coscienza civile. Gli eroi sono spesso tratti dalla storia, ma diventano una costruzione letteraria, un racconto, nel momento in cui assurgono allo statuto di eroi: diventano personaggi di una fiction. Visto che l’Italia, paese spesso considerato con poca cultura politica e molte istanze pre-razionali, di eroi reali sembra averne tantissimi, mentre di eroe letterari, a differenza di altri paesi moderni, non ne ha, si potrà pensare che proprio la letteratura, che tanto ha contribuito alla fondazione della nazione e alla costruzione del suo carattere, abbia fornito una zona di resistenza, aristocratica, al populismo degli eroi nazionali?

La seconda tesi del libro sarà proprio che i personaggi più famosi della letteratura italiana tra Otto e Novecento abbiano una dose di realismo e individualismo che ne ha impedito la modellizzazione simbolica. Troppo ricchi di personalità, ma al tempo stesso sfumati e problematici, i grandi personaggi letterari del romanzo italiano, da Jacopo Ortis al Partigiano Johnny, da Pinocchio a Montalbano, non sono diventati dei Robin Hood o dei Wilhelm Tell perché hanno resistito a ogni tentativo di strumentalizzazione e svuotamento: candidati tutti, più o meno esplicitamente, con maggiore o minore consapevolezza dei loro autori, a interpretare un ruolo di modello e guida per un’intera comunità, essi hanno finito per proporre chiavi di riflessione etica e politica piuttosto che venire monumentalizzati e simbolizzati.

La terza tesi è che i personaggi sono uno dei motivi per cui c’interessiamo e appassioniamo alla letteratura. Tutt’altro che morti, come si voleva cinquant’anni fa, i personaggi sono più vivi che mai e ritornano a popolare il nostro immaginario soprattutto nella forma degli eroi e dei supereroi, perché essi sono, come ha scritto Enrico Testa, «il luogo di un commento e di un’interpretazione della vita reale che si realizza producendo una vita possibile: con i tasselli del concreto, insomma, un mosaico della finzione in cui a prevalere è l’intentio cognitiva su quella imitativa». [7] Il personaggio, infatti, è per sua natura non vero, quindi fittizio, ma è al tempo stesso possibile, quindi reale: sta sul confine tra ciò che il lettore non conosce ancora e ciò che il lettore potrebbe essere. Il primo aspetto lo rende ignoto, invece il secondo ne fa una potenzialità che è già contenuta dal lettore, che può pertanto identificarsi oppure no. Il personaggio, insomma, è il più grande contenitore di universalità, perché in teoria chiunque potrebbe riconoscersi in lui, ma al tempo stesso è il massimo dell’individualità, perché nessuno è e sarà mai come lui. In questo senso il personaggio è il contrario dell’eroe, perché il primo invita a distinguere attraverso il confronto, mentre il secondo prolunga l’identificazione e allontana il distacco. Se voglio essere come il mio eroe, in qualsiasi campo, sia esso mio padre, Napoleone, Garibaldi, Lincoln, De Gaulle, Ghandi, Martin Luther King, Marylin Monroe, Lady Gaga, Nadal o Cristiano Ronaldo, non sarò mai me stesso: potrò al massimo essere un’ottima copia. Qui è tutta la distanza tra le ideologie, populiste e reazionarie, dell’eroismo e quelle, progressiste e rivoluzionarie, dell’esempio: da un lato s’incoraggiano passività e disimpegno, affidando spesso all’eroe una funzione salvifica di tipo religioso, come se la sua sola esistenza bastasse a superare i problemi, dall’altro si promuovono responsabilità e partecipazione, nella consapevolezza che i risultati si raggiungono attraverso un’etica pubblica e una cultura politica fondate sullo scambio, la condivisione e il confronto. Se rinascesse Falcone mi sentirei rassicurato nei confronti della mafia e affiderei a lui la lotta, lavandomene le mani e ritirandomi nel mio privato: invece di mafia bisogna continuare a parlare, perché la si conosca e capisca e un nuovo Falcone non si senta disperatamente isolato e velleitario.

La quarta tesi è che la letteratura è strettamente legata alla filosofia e alla politica. Dopo anni di primati formalisti e filologici è arrivato il momento di tornare a parlare, con termini spaventosi solo per chi non è in grado di usarli, di contenuti e ideologie. Nessuna opposizione, naturalmente, tra forme e contenuti, dato che non ci sono contenuti preesistenti alla o indipendenti dalla loro formalizzazione; ma un bisogno di riconoscere il primato delle idee (nelle loro relazioni con i valori, le storie e le persone) sulle tecniche. Nessuna dichiarazione di appartenenza teorica, dunque, ma un dialogo costante con tutte le teorie, dalla filosofia alla sociologia, dalla psicologia all’antropologia, dalla stilistica ai cultural, visual e reception studies: nel labirinto dell’immaginario contemporaneo bisognerà esercitare una funzione critica, ricostruendo fili e tracciando mappe con obiettivi cognitivi e politici. Solo così gli studi letterari potranno evitare di perdersi nei rivoli di un’erudizione fine a se stessa e tornare ai motivi più autentici che hanno portato la maggior parte degli addetti ai lavori a scegliere questo lavoro: l’amore per le storie e i personaggi, fatti d’intrecci e di parole, ovvero finti in mezzo a noi.


[1] Cfr. Z. Bauman, From Pilgrim to Tourist – or a Short History of Identity, in S. Hall – P. Du Gay (eds), Questions of Cultural Identity, London, Sage, 1996, pp. 18-36.

[2] Cfr. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism (1983), tr. it. di M. Vignale, Comunità immaginate. Origini e diffusione dei nazionalismi, Roma, manifestolibri, 1996.

[3] N. Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, settima edizione interamente riveduta, 36° ristampa, Bologna, Zanichelli, 1955, p. 461.

[4] L’ipotesi richiederebbe più analitiche dimostrazioni e dati statistici, che rinvio altrove; ma i miei punti di partenza sulla letterarietà della formazione dell’opinione pubblica sono in J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1962), trad. it. di A. Illuminati, F. Masini e W. Perretta, Roma-Bari, Laterza, 2008, R. Williams, Marxismo e letteratura (1977), trad. it. di M. Stetrema, Roma-Bari, Laterza, 1979, e M. Vovelle, Ideologie e mentalità (1982), trad. it. di C. Dazzi, Napoli, Guida, 1989.

[5] G.E. Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, Bologna, il Mulino, 1993; A. Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Torino, Einaudi, 1998; G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2005; M. Graziano, Italia senza nazione? Geopolitica di una identità difficile, Roma, Donzelli, 2007; E. Gentile, Né Stato né Nazione. Italiani senza meta, Roma – Bari, Laterza, 2010; S. Cassese, L’Italia: una società senza Stato?, Bologna, il Mulino, 2011; E. Gentile, Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento, a cura di S. Fiori, Roma-Bari, Laterza, 2011; M. Recalcati, Patria senza padri. Psicopatologia della vita politica italiana, a cura di C. Raimo, Roma, minimum fax, 2013.

[6] B. Brecht, Vita di Galileo, trad. it. di E. Castellani, in Id., I capolavori, nuova edizione a cura di H. Riediger, Torino, Einaudi, 1998, vol. II, pp. 3-121, a p. 105.

[7] E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2009, p. 4.

[Immagine: Pinocchio (gm)].

9 thoughts on “Un paese senza eroi

  1. Suggerimento: fare una piccola ricerca su Teseo Tesei, chiedersi come mai non solo non sia mai stato raccontato in un romanzo o in un film, ma nelle scuole italiane non sia mai nominato agli studenti, nessuno dei quali lo conosce mentre può essere aggiornatissimo su valorosi americani, inglesi, lapponi, etc.
    Dopo di che, ricominciare daccapo questo interessante discorso.
    P.S.: se poi qualcuno pensasse che Tesei sia un caso isolato, gli fornisco gratuitamente una fila di nomi che non sfigurano accanto al suo.

  2. * Buffagni

    Per la verità, l’intento di Stefano Jossa mi è sembrato quello di interrogarsi sulla mancanza, nell’immaginario italiano, di personaggi letterari divenuti eroi più o meno popolari, laddove Teseo Tesei (o Durand de la Penne, per citare un altro personaggio a lui affine) è un italiano in carne e ossa, che ha combattuto valorosamente ed è morto nel corso della seconda guerra mondiale. Dopodiché, devo dire che, di fronte alla squallida realtà di un paese invecchiato, viziato, disperato ed asservito, quale è l’Italia odierna, integrerei l’aforisma brechtiano, che rischia di ridursi ad un comodo alibi per giustificare l’ignavia e il rinunciatarismo, definendo come paesi sventurati non solo quelli che hanno bisogno di eroi, ma innanzi tutto quelli che non sanno suscitare dal seno del loro popolo gli eroi di cui hanno un vitale bisogno nei periodi procellosi che si trovano ad affrontare.

  3. Caro Barone,
    lei ha ragione. Ho scritto due righe solo per uno scatto d’umore, perché ne ho piene le tasche della fola ricorsiva sugli italiani vigliacchi, della sciacquatura di piatti che ci viene quotidianamente rovesciata addosso a catinelle, e il cui principale ingrediente è: quanto siamo meschini e squallidi, noi italiani, e quanto ci meritiamo di non esistere più.
    L’Italia è in punto di morte, va bene, tocca a tutti di morire, e se Anassimandro ha ragione ce lo meritiamo anche.
    Preferirei che non si sputasse sul letto del malato terminale, che le sue colpe e i suoi difetti li ha avuti, come tutti, ma non è stato solo colpe, difetti e vigliaccherie.
    Qualche mese fa cenava da me un gruppo di compagni di classe dei miei figli (liceali di prima e terza liceo classico). I maschi si sono messi a chiacchierare della bella serie televisiva diretta da Spielberg, “Band of Brothers”, che romanza le vicende di un reparto di paracadutisti americani nella IIGM. Ammirazione, entusiasmo, eccetera. Gli chiedo. “Ragazzi, voi sapete chi è Teseo Tesei?” Non lo sa nessuno. Glielo spiego in due parole. Mi stanno a sentire a bocca aperta. Salta su uno, sbalordito: “Ma allora non è vero che noi italiani siamo dei vigliacchi!” E un altro: “Ma com’è che a scuola non ce ne parlano mai, di queste cose?”
    Eh. Si potrebbe anche aggiungere, come mai i caduti italiani della IIGM non hanno avuto il bene di una targhetta commemorativa nelle piazze d’Italia, magari in una piazzetta defilata, su uno spartitraffico, in un autogrill…
    Tanto tempo fa, quando ero giovane, l’anziana zia di una mia amica, nobildonna legittimista che tuttora continuava a scambiare auguri e partecipazioni con gli eredi della Casa d’Austria, mi fece una sintetica profezia che si sta avverando.
    A tavola, si parlava della situazione italiana, poco incoraggiante. La signora mi si rivolse, in tono di serietà, e mi disse: “Caro Buffagni” – e qui fece una pausa teatrale – “mi sa che è venuto il vostro turno di prenderla in quel posto”. Dicendo “vostro” si riferiva a “noi italiani”, fautori di quel rivolgimento politico che condusse all’unificazione nazionale.
    Sia detto a merito della signora, nel suo tono non c’era traccia di risentimento, o di soddisfazione per la sconfitta della parte a lei avversa: c’erano tristezza e umana comprensione.

  4. Se si leggesse a fondo tutto il libro, se ne potrebbe apprezzare la ‘positivita`’ etica e d’ impegno del ‘senza’ del titolo. E` un libro che con competente scioltezza critica rende omaggio alla ‘dignitas hominis’ dell’anti eroe letterario italiano (che ha evitato un’imbalsamazione ideologica).

  5. Caro Buffagni,
    da tempo meditavo di riprendere, rivolgendomi a Lei e approfittando di questo spazio, il discorso relativo (non agli eroi immaginari ma) agli eroi reali (e anche agli anti-eroi altrettanto reali) dell’Italia nella seconda guerra mondiale. In particolare, da quando mi è capitato di leggere “Sicilia 1943” di Giorgio Chiesura, il diario di un sottotenente impegnato tra il luglio e l’agosto del 1943 nei durissimi combattimenti che si svolsero tra le truppe italiane e tedesche e quelle anglo-americane in Sicilia, mi sono reso conto sia dei dilemmi morali che si posero allora ai nostri soldati, abbandonati a se stessi da una classe dirigente inetta, fellona e traditrice in uno dei frangenti più distruttivi (in tutti i sensi) della nostra storia nazionale, sia di quel misto di irredimibile tragedia e di volgare “banalità del male” che si respira leggendo testimonianze come quella che ho citato e che si avverte anche nel ‘vuoto’ storiografico che ancora persiste, sintomo anch’esso di un nodo mai sciolto e di una rimozione i cui effetti stiamo ancora scontando, intorno a quella congiuntura politico-militare catastrofica. Alcuni dati di fatto stanno però emergendo: dal carattere estremamente sanguinoso degli scontri che vi furono (la battaglia di Gela, ad esempio) al basso continuo della ‘guerra celeste’ con l’enorme potenza di fuoco e di terrore vomitata sull’esercito e sulla popolazione italiana dai bombardamenti anglo-americani, vera causa del crollo del regime fascista (come ha ben posto in evidenza Leonardo Paggi nel saggio intitolato “Il popolo dei morti”). Perfino Togliatti darà di questo percorso complesso e drammatico una versione ambivalente, affermando – lo ricorda Claudio Pavone nel suo magistrale saggio su “Una guerra civile” – che «scoppiata la guerra, non fummo mai per la disfatta (…) ma per la salvezza del paese». Lo scopo del leader comunista era, in quell’occasione, di assicurare i «combattenti sfortunati che non abbiamo mai disprezzato il loro sacrificio», aggiungendo: «Non è lieta cosa aver previsto il male della patria (…) Questo sentimento di profonda, insuperabile amarezza ha reso triste per noi anche il giorno della vittoria delle grandi nazioni democratiche sul fascismo.»
    A distanza di settant’anni da quegli eventi ha allora il sapore di una verità cruda e irrefutabile quanto scrive un combattente di Russia sulla partecipazione militare dell’Italia a quel conflitto:
    «L’esercito italiano è entrato nella guerra soltanto a poco a poco come il poveretto cui la manica si impiglia nella stritolatrice e ne viene ingoiato.»
    Sempre a distanza di settant’anni, la battaglia di Stalingrado mantiene invece il suo carattere insopprimibile di simbolo, che le deriva dal suo carattere altrettanto insopprimibile di svolta decisiva della seconda guerra mondiale e – ‘last but not least’ – di evento epocale nella storia della filosofia. Da questo punto di vista, è giusto rammentare che è stato Ernst Cassirer, il filosofo neokantiano di Marburgo avversario di Heidegger, colui che ha individuato la portata epocale, non solo storico-militare ma anche storico-filosofica, di questa battaglia, allorché ha affermato che «Stalingrado fu lo scontro finale tra Destra e Sinistra hegeliane».
    La ‘scelta di Stalingrado’, così come i dilemmi morali che si posero ai combattenti italiani tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, dovrebbero essere, sia in campo politico che in campo culturale, i criteri antitetico-polari che semplificano in modo non arbitrario e riducono all’essenziale le alternative possibili, ripristinando l’indispensabile memoria storica. E’ tuttavia lecito dubitarne, caro Buffagni, se è vero, come è vero, quel che è accaduto a Mario Tronti, uno dei pochi intellettuali politici rimasti in campo, il quale, il 7 novembre scorso, ha avuto l’idea di fare un giro fra i suoi colleghi del Senato nella parte dell’emiciclo di Palazzo Madama occupata dalla ‘sinistra’, proponendo di fare una festa, di prendere una qualche iniziativa in occasione della ricorrenza. La risposta di coloro a cui si è rivolto – ha riferito l’ottimo Tronti – è stata un severo aggrottar di ciglia seguito dalla domanda: «Ma che cosa è avvenuto di importante il 7 novembre?»

  6. Caro Barone,
    La ringrazio per la sua meditata replica. Cose da dire sulla Seconda Guerra Mondiale italiana, sull’8 settembre e sui paraggi ne ho tante che è meglio se sto zitto. Preferisco replicarle indirizzandola a un breve scritto che mi è stato richiesto da Antonio de Martini, questo:

    http://corrieredellacollera.com/2013/11/03/alla-ricerca-della-identita-italiana-melodramma-e-tragedia-due-parole-sulla-identita-italiana-di-roberto-buffagni/

    Di nuovo La ringrazio e La saluto con amicizia.

  7. Caro Buffagni,
    può darsi che porti vasi a Samo o nottole ad Atene, ma, essendomi nuovamente imbattuto, durante i “voyages autour de ma chambre”, in Teseo Tesei, ho scoperto che questo eroe di guerra, maggiore del Genio ed inventore di un mezzo d’assalto sottomarino (il famoso “maiale”), scomparso in mare a Malta il 26 luglio 1941, era lo zio dello scrittore Oreste del Buono, il quale ha rievocato la sua figura nel romanzo autobiografico “La nostra classe dirigente”, pubblicato nel 1986. Questo romanzo merita attenzione per più motivi, fra i quali possono essere indicati i seguenti: l’attenzione per l’individualità traguardata però nei suoi legami con culture ed eventi collettivi, l’interrogarsi su ciò che è stato il fascismo nelle famiglie e nella classe dirigente e su come abbia agito l’idea di patria stimolando la mitopoiesi personale e quella nazionale, l’utilizzazione di una ricca tradizione memorialistica, l’esigenza di ripensare le svolte giovanili e l’evento traumatico della guerra, le forti connotazioni in senso morale e civile. Infatti, la decisione dell’autore, che è anche il narratore, di arruolarsi nell’Accademia Navale, alla vigilia della fine, quando ormai la guerra stava sfociando nella disfatta dell’Italia, nasce chiaramente da una coazione esercitata sulla memoria del nipote dalla figura incombente dello zio. Insomma, questo romanzo di del Buono, caro Buffagni, smentisce la Sua affermazione, secondo cui Teseo Tesei “non è mai stato raccontato in un romanzo”. Smentita della quale, peraltro, Lei sarà sicuramente lieto. La presenza di un eroe come Tesei nella narrativa italiana degli anni Ottanta suona invece, sia pure in minore, come una possibile conferma della tesi di Jossa, secondo cui “i personaggi…della letteratura italiana tra Otto e Novecento hanno una dose di realismo e individualismo che ne ha impedito la modellizzazione simbolica”.
    La letteratura e il cinema, come Lei ben sa, non finiscono di riservarci sorprese, dunque. Ne rammento un’altra, che si riferisce al mondo del cinema, e che, se non m’inganno, è davvero singolare. Orbene, Christian De Sica, il re dei cine-panettoni e del più smandrappato avanspettacolo che ancora esista nel nostro paese, è figlio del grande Vittorio De Sica e di Maria Mercader, la quale era la sorella di Ramòn Mercader. Ma chi era costui? Niente di meno che l’uccisore – assassino o giustiziere a seconda del punto di vista politico-ideologico – di Trotsky. Che uno ‘scurra’ come Christian De Sica sia il nipote dell’uccisore di Trotsky sembra essere così una di quelle freddure che nessun comico, per quanto cinico e creativo possa essere, saprebbe mai immaginare, poiché è solo la realtà che può produrla. Quella realtà che continua ad esistere anche quando non si crede più in essa, e che sa prendersi le sue rivincite oltre ogni smagata ‘suspension of belief’.
    La saluto con amicizia e stima.

  8. Caro Barone,
    grazie mille della informazione, naturalmente molto gradita. Leggerò il romanzo di Del Buono. Certo che se per dedicare un romanzo a Tesei bisogna essergli parente stretto andiamo male. Di de Sica – Mercader sapevo, e come lei ho riflettuto sulle magie del reale, questo sconosciuto.
    Grazie mille di nuovo e cordiali saluti.

  9. Caro Barone,
    non le ha risposto la mamma, ma il sottoscritto.
    Mi ero presentato come “la mamma” per suggerire a Michele (un tale piuttosto nervoso che aveva inveito in un altro thread) di prendere le medicine.
    I serissimi moderatori mi hanno cassato il commentino, ma nel mio pc è rimasto scritto “la mamma”.
    La prego di scusare il buffo qui pro quo.

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