di Federico Francucci

 

[Presentiamo i due paragrafi finali di Il mio corpo estraneo. Carni e immagini in Valerio Magrelli, di Federico Francucci, uscito in questi giorni per Mimesis].

 

Lo spirito della Terra

 

Cos’è raffigurato nel disegno di Giacinto Magrelli scelto per la copertina di Geologia di un padre?[i] La grotta di Polifemo, dice la didascalia. Un episodio odissiaco, tratto dal nostos fondativo della civiltà europea, dal racconto del ritorno di Ulisse a casa, dove Penelope e Telemaco lo hanno atteso per tanti anni. Ma, riguardando nel corso della lettura l’immagine dell’essere gigantesco che divora piccoli umani, è difficile resistere alla tentazione di sovrapporre a quell’immagine un altro racconto: quello di Saturno che divora i suoi figli. Giacinto è Ulisse o Saturno? Entrambi, bisogna rispondere. Collerico, furibondo, attraversato da una corrente d’ira incontrollabile, invasato da una forza che lo mette letteralmente fuori di sé; oppure sprofondato in un tedio immobile, in una melanconia che svuota ogni cosa: Magrelli descrive suo padre come una creatura metamorfica che passa repentinamente da una fase e da una forma regolamentata, e si potrebbe dire antropomorfa, a una in cui, medium o conduttore di un’energia che gli viene da qualche parte, assume fattezze per definire le quali occorrono tutte le risorse della leggenda e del mito.

 

Padre lupo mannaro, padre divinità pre-olimpica, padre sotto l’influsso di un pianeta nefasto. Padre le cui epiche, inenarrabili bestemmie erano invocazione e presenza del «Nume», «brivido preistorico e preconoscitivo, di natura sessuale, plenaria e rettiliana, ultimo resto di un’esperienza magico-tattile del creato» (p. 20). E ancora, padre sonnambolico, in trance, e progressivamente, attacco dopo attacco, colpito a morte dall’ira (ma Magrelli arriva a usare una maiuscola allegorica e personificante: Ira) che lo spinge a colpire. In base a questa duplicità concentrata in un solo attore Magrelli dispiega uno dei movimenti più toccanti del suo libro: la malattia che porterà suo padre alla penultima trasformazione prima di quella finale, e che lo renderà un vecchio pressoché muto e murato in sé, è stata provocata da centinaia di piccoli ictus, che, col tempo, hanno danneggiato irreparabilmente il cervello. Ictus significa colpo: colpendo, il padre veniva colpito, o si colpiva, e l’energia preistorica che lo visitava gli preparava anche il destino.

Introdotto come colore della morte, insomma, il nero è in questo libro anche il colore della rabbia e dell’umore melanconico: quella rabbia e quell’umore che da una parte trasformano Giacinto in un essere del tutto sconosciuto ed estraneo al figlio, ma dall’altra parte costituiscono anche buona parte dell’eredità che il padre gli ha lasciato: di nuovo un esempio di duplicità contraddittoria, così come duplice e tragicamente ironica è la vicenda del padre nel racconto del figlio. E la progressiva sovrapposizione, nell’aspetto fisico, dell’immagine del figlio con quella del padre (Magrelli parla di «mimetismo» e di «specchio genetico»), tanto che l’autore descrive in questo libro, tra le altre cose, non solo il suo divenire padre, ma il suo divenire suo padre, porterà per forza di cose a fare i conti con la dimensione preistorica, demoniaca, pandemonica ereditata dal padre da cui il figlio si trova lavorato senza veramente poterla conoscere; e che teme, a sua volta, di trasmettere alla sua discendenza (intanto, saltando l’anello di giunzione paterna, il figlio di Valerio passa giorni a disegnare, come faceva Giacinto, suo nonno).[ii]Il figlio, insomma, teme che suo padre, o meglio ciò che attraversava suo padre e che l’ha distrutto, finisca per divorare anche lui. È per questo motivo che, lo vedremo tra poco, andando a cercare la traccia primitiva di suo padre a Pofi, numinoso paesino d’origine, è sé stesso che Magrelli arriverà a disseppellire.

 

Il libro è costellato da episodi che, nella già segnalata scrittura bicefala di Magrelli, realistica e simbolica o allegorica, mettono in scena la lotta contro il nero e il desiderio o la nostalgia del bianco. Se ne commenta brevemente uno, perché in maniera molto significativa, e riprendendo una consolidata abitudine dell’autore, assume come luogo dello scontro la casa, la dimora, il contenitore protettivo che d’improvviso si scopre infestato. Parliamo del capitolo 56, inserito in un trittico di pezzi in cui il tema della casa, e il ricordo della dimora di famiglia in via delle Fornaci, a Roma, servono da articolazione a una serie di quadri e vicende diverse e ambientate in tempi tra loro diversi; qui purtroppo è necessario tagliare di netto questa rete di riferimenti incrociati e insistere solo su uno di essi. Trascrivo integralmente il capitolo, perché non ne vadano perse la linea e la stratificazione:

 

In quella casa vissi poco più di vent’anni, e la porto stampata nel cuore. Era fresca, alta, soleggiata, pulita. Per questo, quanto accadde durante una remota notte d’agosto, mi lasciò sbalordito. Dovevo aver mangiato troppo, a cena, ragion per cui, verso le tre del mattino, mi ritrovai in cucina, a bere direttamente dal rubinetto. Mentre ingoiavo grandi sorsate d’acqua gelida, con la coda dell’occhio guardavo in basso, e mi dicevo: «Strano. Il nostro pavimento è sempre stato chiaro. Come mai è diventato tutto nero?» Insonnolito, accaldato, andavo formulando la domanda in maniera svagata, del tutto indifferente alla risposta. Ma la risposta venne poco dopo, da sé.

 

Superato lo stordimento della luce, che li doveva avere ipnotizzati, centinaia di scarafaggi fuggirono atterriti sotto i miei piedi nudi, svelando, finalmente, l’effettivo candore delle mattonelle. Galleggiavo letteralmente sopra un mare di blatte, e cominciai a gridare, percorso da un ribrezzo irrefrenabile. Quando arrivò mio padre. Era ormai troppo tardi: le brulicanti truppe avevano battuto in ritirata, svuotando la cucina come d’incanto.

 

Il giorno dopo, tuttavia, ebbe luogo il Gran Consiglio. Pianificammo un’azione congiunta per sterminare gli intrusi, ovvero il Luccicante Mantello Notturno Animale. Ci accordammo per mettere la sveglia alle tre esatte, e così avvenne. Nel buio più completo, indossate enormi scarpe, ci avvicinammo lentamente alla cucina, armati entrambi di scope. A un gesto convenuto, accendemmo la lampadina, e cosa non apparve!

Praticamente un’unica distesa di gusci cheratinici, immobili, nerissimi, pietrificati dalla luce. Fu un attimo, e la strage ebbe inizio. Prima che quella schiera cominciasse a ondeggiare, centinaia di esseri cadevano scricchiolando sotto i colpi, fra le urla con cui inutilmente cercavamo, schifati, di tenere distante il raccapriccio. Tutto finì con un cumulo di spoglie, un sacco croccante di orrori ridicoli.

 

Sedemmo, stanchi e felici, che albeggiava. La Regina era salva, i Proci uccisi, e il piccolo Telemaco poteva finalmente ritornare a dormire. Poi venne l’uomo della disinfestazione, e completò il lavoro.

Saranno state le strutture fatiscenti, forse, a nascondere, ad allevare tante creature delle tenebre. Questo, nel cupo interno dell’edificio. Ma che pianure accecanti si aprivano sui tetti! È stato proprio lì, sul vasto altopiano deserto delle terrazze condominiali, che ho imparato ad andare in bicicletta, fra i panni stesi, spinto da mio padre, ai confini del cielo (pp. 93-94).

 

La casa, pur se descritta con un quartetto di aggettivi che ne sottolineano il carattere aereo e luminoso, e pur con tutto il bianco del piastrellato, non può non essere collegata anche alla terra, alle tenebre e ai loro servitori. Così, ciò che di solito è bianco può, al buio e senza che gli abitanti se ne accorgano, durante il loro sonno, ricoprirsi del nero disgustoso degli scarafaggi: la notte, che avvolge anche la casa chiara, è favorevole alle sortite delle sue creature. L’equilibrio di una situazione, evidentemente, consolidata si rompe quando la digestione (un altro richiamo dal basso, stavolta del corpo) disturba il sonno del figlio e lo spinge nella stanza dalle piastrelle candide in cerca d’acqua. Un po’ per la lucidità ancora scarsa del ragazzo (come spesso accade nel libro, dove l’io è preda di molti tipi di stordimenti, dormiveglia, fantasticherie, sogni ad occhi aperti), un po’ perché la luce, quella elettrica in questo caso, paralizza l’orda di insetti, il nero viene sì notato, ma la sua natura rimane ancora inspiegata. Il prosieguo del racconto, con la percezione finalmente esatta delle cose, le urla di orrore, l’arrivo del padre, la progettazione e realizzazione dell’agguato e il finale ironicamente trionfale, offre ancora diversi motivi di interesse. Innanzi tutto ribadisce la (quasi) totale assenza, o cancellazione, della figura materna, qui mai in scena nonostante la concitazione e le grida in piena notte. In secondo luogo associa esplicitamente, sia pure come si è detto in maniera ironica, l’azione concertata di padre e figlio a uno dei momenti più emozionanti dell’Odissea, la strage dei proci, e così facendo assegna a Giacinto la parte di Ulisse e a Valerio quella, come il testo stesso si premura di sottolineare, di Telemaco (la madre-Regina rimane nelle sue stanze; e forse il parallelo odissiaco fornisce una sorta di giustificazione alla sua mancata presenza).

 

Questo è uno dei capitoli in cui l’accordo tra padre e figlio è più completo, in nome della santa rabbia (e dell’inenarrabile disgusto) con cui scacciano i neri invasori dalla mura domestiche (da notare anche che la distesa di scarafaggi è definita, ancora con maiuscole allegoriche, «Luccicante Mantello Notturno Animale», e che isolando quelle iniziali e mettendole in sequenza si ottiene LMNA, una specie di retrogrado con privazioni vocaliche della parola “animale”, una specie di sigla geroglifica), e della tenerezza con cui, narrato l’eccidio e lo scampato pericolo, si rievocano le prime pedalate sul punto più alto e più luminoso della casa, la bianca incubatrice di mostri, sul tetto, tra lenzuola che bisogna pensare bianchissime: bianco custodito nella memoria e immacolato. Infine, un’allusione letteraria lasciata cadere in modo quasi casuale, sembrerebbe, dice forse più di quanto non sembri. Quando si narra del figlio che si accorge di sovrastare un tappeto di insetti, nel testo si incunea l’immagine landolfiana del «mare di blatte»; potrebbe trattarsi, data l’esiguità della citazione, di una specie di memoria automatica, anzi è probabile che sia così, ma tale automatismo si porta dietro, volente o nolente, anche qualcos’altro. Nel racconto di Landolfi, infatti, il viaggio della nave sul mare di blatte, e l’invasione della coperta da parte di questi esseri mostruosi, viene troncato in maniera sconcertante dalla rivelazione della sua natura finzionale, e dal ritorno alla scena in cui questa narrazione nella narrazione viene prodotta, ossia un interno borghese; gli scarafaggi sono “solo” raccontati da un figlio che vuole, simultaneamente, ottenere dal padre i mezzi di sussistenza, e conquistare la donna di cui è innamorato. Abbiamo quindi un figlio che racconta a suo padre e alla sua (futura) fidanzata una storia che ha per protagonisti lui, suo padre, la fidanzata e il mare di blatte. Anche se in maniera più aleatoria di quanto accadeva per Ulisse e L’uomo senza qualità, anche in questo caso la citazione letteraria apre una piccola vertigine nella quale è vero sia che un testo letterario viene utilizzato come testimone autorevole dei fatti biografici narrati, sia che questi fatti prendano l’aspetto un po’ fantasmatico di “cose già scritte”, a rimarcare la presenza di due linee di filiazione, quella biologico-biografica e quella culturale.

 

Il viaggio a Pofi, il ritorno nella patria in cui non è mai stato, che conosce indirettamente tramite i disegni del padre, e il cui unico frammento sperimentato era la nonna-mummia, si impone dunque al figlio per fare i conti con il lato più oscuro e pericoloso dell’eredità paterna. Ma, seguendo il passo del libro, questa è una consapevolezza che va conquistata. Ripercorrere questa caccia al tesoro, che è caccia al padre e anche autocaccia, ne farà forse comprendere meglio snodi e obiettivi. È solo mettendosi a sua volta in caccia, di dettagli, minuzie, e delle tecniche del loro montaggio, che il lettore di Geologia di un padre può affrontare non impreparato il suo punto di massima ambiguità e reversibilità. Prendiamoci dunque il tempo necessario; bisognerà passare, di nuovo, attraverso diversi strati di materiali.

 

Tanto per cominciare, i viaggi a Pofi sono almeno due. Uno è quello per tanto tempo nemmeno pensato, e invece dopo la morte del padre via via vagheggiato, temuto, programmato, studiato su volumi e documenti, interrogato fino a trovargli un senso decisivo; un altro, cronologicamente successivo al primo, è quello realmente compiuto, ben diverso rispetto alla sua controparte cerebrale e immaginata. Il racconto dei due viaggi occupa i capitoli 48-50,[iii] e due su tre sono dedicati al primo viaggio, al contatto con Pofi tramite i media delle pagine, dello schermo, e della mente. Vediamo come.

 

Il capitolo 48 è uno dei più lunghi della compagine, ed è particolarmente importante perché si incarica di mettere in dubbio una dichiarazione fatta dall’io scrivente diverse pagine prima, quella sull’indifferenza agli archivi e l’odio per i documenti. La carta moschicida del ricordo, in questo caso (e in molti altri) si è dovuta arrendere a consultare una memoria esterna. Il capitolo, infatti, è composto per la maggior parte di estratti provenienti da studi di storia locale, guide per il viaggiatore, materiale informativo trovato su siti internet; questo supporto documentario è sezionato e alternato a brevi commenti di altro tono, che dovrebbero adeguare il suo nudo tono informativo alla ricerca, molto più affettiva e conoscitiva, che il consultatore si propone di intraprendere. Pofi è in un primo momento affrontata da lontano, e la curiosità con cui Magrelli spulcia le fonti sembra l’altra faccia di un’estrema cautela che confina con il timore. La brevissima epigrafe del capitolo («Piccola terricciuola è Pofi») è tratta da un testo ottocentesco, il Viaggio da Roma a Montecassino nuovamente descritto da Alessandro Guidi, pubblicato a Roma da Salviucci nel 1868; mettendo il nomen omen di Guidi e la sua guida in cima al capitolo, Magrelli, a guardare le cose retrospettivamente, sembra voler esporre subito la tonalità di questo. Un viaggio nelle tenebre non si fa saltando nel buio. E proprio di tenebre è il caso di parlare, perché l’avvicinamento a Pofi è inaugurato dal personaggio più inquietante e tenebroso del libro, la nonna (la sigaretta, la mummia, il teschio, la voragine oscura), riportata in scena con un riferimento preciso (quel «dicevo») al capitolo 4 :

Mia nonna-sigarillo, dicevo, era scesa dai monto della Ciociaria. Io non l’amavo, eppure questa donna era il segnavia dell’origine, stava a indicare il luogo da cui proveniva mio padre: il Lazio meridionale, che ignoravo, e che continuo a conoscere così poco… Cosa fare con Pofi, per esempio, il suo paesetto natale? Non ci sono mai stato, ho solo qualche immagine che lui schizzò a matita, da giovane. Stradine assolate. Cortili. Un asinello. I suoi disegni. (p. 76)

 

Poi, senza alcuna giuntura che unisca le due parti, il testo prosegue con una lunga citazione tra virgolette, tratta, ci verrà detto più avanti e dettagliato nella tavola delle citazioni, da un volume su Pofi scritto da Vincenzo Celletti: «il visitatore che raggiunge l’altura su cui sorge il centro abitato, si rende conto subito…». Il visitatore che arriva a Pofi sulla pagina di Celletti si vede proporre uno scarno elenco di date e dati: la rocca, il materiale basaltico con cui gli edifici antichi sono costruiti, le eruzioni vulcaniche da cui questo originò, «tra 430000 e 120000 anni fa», una chiesa romanica e l’affresco del Giudizio Universale lì dipinto. Qui la citazione si interrompe e cade il primo commento:

 

Un bel compendio, non c’è che dire: eruzioni e apocatastasi. Prima la lava, poi la reintegrazione dei corpi. L’importante è attenersi allo stretto necessario. Come patria elettiva, comincia già a piacermi (p. 77).

 

Giusto il tempo di proiettare sul nudo tono referenziale l’ombra delle cose prime e ultime, e la citazione riprende con le razze e i percorsi di chi popolò anticamente la zona, con le carestie e le invasioni, gli spopolamenti e le ripopolazioni, e infine con la fondazione di Pofi. Nello stesso studio storico, il cui autore, Vincenzo Celletti, viene a questo punto nominato (e inserito di contrabbando nella famiglia dell’io scrivente: ha infatti «il nome di mio nonno, il cognome di mia nonna») Magrelli scrive di aver trovato una fonte letteraria, anche se di dubbia attribuzione: un sonetto di Marino dedicato a Pofi in cui si dice, nella chiusa, che le mura del paese furono edificate da Saturno: un’altra nota del tappeto risonante è così surrettiziamente introdotta. Si passa poi all’etimologia, e le sorprese non sono poche, visto che le ipotesi riportate da Magrelli vogliono Pofi «corruzione di Proci» (quest’Odissea ce la si ritrova ovunque), oppure in qualche modo derivante dal greco ophis, serpente, perché sede di una colonia di devoti a Esculapio. Già, proprio Esculapio, col serpente addomesticato e avvolto sul bastone, veleno e contravveleno, rimedio nel male; e visto che l’io scrivente non sta in fondo cercando che di vaccinarsi del padre, questo riferimento pescato tra grigie pagine di erudizione è perfettamente adeguato al progetto ideale del libro.[iv] Il paragrafo si conclude con un’altra occorrenza di Pofi, inserita tra parentesi, ma in questo caso si tratterà solo di un equivoco che ci si affretta a fugare: «Il protagonista del romanzo di Antonio Pizzuto, Si riparano bambole, ha nome Pofi, ma non c’entra niente» (p. 78). Con che cosa non c’entra niente il Pofi di Pizzuto? In questa estraneità entrano ben poco le ragioni etimologiche, e molto di più, invece, quelle concettuali: il mondo di Si riparano bambole è percorso dal chiacchiericcio corale delle comari che trattano, instancabilmente, smisuratamente, «argomenti di genealogia teoretica, di genealogia pratica, per spiegarsi a vicenda chi era mai la tale, e con chi maritatasi, l’età presunta deduttivamente»; il ragazzino e poi giovane Pofi deve muoversi tra onde perigliose di sottane sororali, materne, ziesche e via frusciando;[v] mentre il progetto magrelliano mira alla geologia, non alla genealogia (lo dirà nel capitolo successivo), e le donne di famiglia, ad esempio la cugina Giacinta (nel capitolo 70), vanno tenute lontane proprio per la loro mitologica maldicenza.

 

Salto qualche passaggio, che alla lettura aumenterebbe l’impressione che qui si tenti una specie di storia universale sub specie Pophitatis, e arrivo alla stretta finale del capitolo 48. «Su internet», Magrelli scopre che a Pofi c’è un «prestigioso Museo Preistorico», che intrattiene rapporti scientifici con grandi istituzioni europee («dunque, mio padre a Pofi non è solo…», commenta l’io scrivente), e sulla pagina riporta ancora materiale informativo proveniente dalla pagina web del museo, in cui si parla dei reperti lì conservati, di antichissime manifatture, e infine di «manufatti litici più elaborati, in cui assume particolare significato tipologico e cronologico l’amigdala» (p. 79). Amigdala è un termine che designa una pluralità di referenti, dagli oggetti preistorici a varie parti del corpo umano, e queste entità così diverse per funzione possono stare sotto lo stesso lemma per una questione di somiglianza morfologica, ossia di immaginazione analogica: hanno tutti grossomodo la forma di una mandorla (amigdala, in greco, vuol dire appunto mandorla). Questa coincidenza verbale e figurativa consente a Magrelli di proseguire introducendo, ancora senza alcuna spiegazione, un nuovo capoverso racchiuso tra parentesi:

 

(Per quasi quindici anni: tonsille, Bastava niente, e le sentivo gonfiarsi, tra febbri e tosse. Così di seguito fino alla mia piena maturità, secondo un quadro eziologico che continuava a apparire indiscutibilmente puberale. Airbag. Ma la scoperta definitiva avviene in Francia, quando, ammalato, apprendo che le chiamano “amygdales”. Come pietre scheggiate dalle popolazioni primitive, come punte di frecce, come reperti del cenozoico, questi due pendenti continuano a far bella mostra di sé nella bacheca della mia gola) (p.79).

 

Questo brano è prelevato dal Condominio di carne, dove occupa per intero il capitolo XVII; solo il titolo (La gola) è tralasciato da Magrelli. L’amigdala litica, reperto della terra paterna, viene messa in gola, e entra così a far parte del corpo proprio-improprio che abbiamo analizzato nel libro del 2003. Tramite l’amigdala, per azione magica, la terra paterna è ciò che per anni e anni ha fatto ammalare Valerio, e ciò che lo ha trattenuto, molto oltre il limite atteso, in un quadro clinico da preadolescente: un’ancora (e pensiamo a Musil), un freno, un ostacolo ignoto nel cammino verso la maturità (la maturità, afferma a un certo punto l’io scrivente nel capitolo ???, citando King Lear, e precisamente un discorso rivolto da Edgar al vecchio padre, è tutto: e “tutto”, continua Magrelli, è proprio quel che a suo padre mancò). Questo è l’unico esempio di riutilizzo di materiali del Condominio che si commenta in queste pagine, ma penso possa bastare a suggerire quanto l’operazione sia importante. Il discorso sui «miei mali» che permettono una percezione psicostorica del passato trova in Geologia di un padre una continuazione, o meglio un’estensione all’indietro, vero l’origine.

 

Ma ancora una volta, forse non è tutto qui. Amigdala si chiama anche una parte del cervello umano che gioca un ruolo importantissimo nel vaglio delle emozioni e nell’attivazione di altre parti del cervello, e poi dell’organismo, in caso di stimoli sentiti come pericolosi: l’amigdala fa funzione di campanello d’allarme e procura quella combinazione di reazioni biochimiche che siamo soliti chiamare paura. Se è vero che il testo di Magrelli funziona su una logica non strettamente causale, ma piuttosto analogico-risonante, non sarà forse eccessivo richiamare quest’altro senso e funzione dell’amigdala, tanto più che il capitolo 48 si avvicina rapidamente, adesso, alla sua cruciale agnizione, o sovrapposizione:

 

Poi, finalmente, arriva il passo-chiave: «Qui sono esposti soprattutto i reperti preistorici provenienti dal territorio di Pofi: le faune, i manufatti e i resti umani di Cava Pompi: Uomo di Pofi, datato tra 400000 e 300000 anni».

Acqua, fuochino, fuoco! Eccolo, l’Uomo di Pofi: era mio padre! È lui che sto cercando, mentre mi limito a studiare da lontano la sua culla preistorica. È nella notte della mia infanzia, tra 400000 e 300000 anni fa, che si annida il mio diretto progenitore, con armi, vasellame, ossa, rituali.

L’Uomo di Pofi, ossia il POFANTROPO! (p.80)

 

Il Pofantropo, nominazione scherzosa incontrata sul limite della sezione centrale del libro, qui comincia a prendere corpo, ed è questo il punto in cui in maniera più decisa, consapevole e disorientante viene fatto giocare un fortissimo anacronismo, accompagnato da un altrettanto sorprendente incrocio o scambio o identificazione tra soggetto e oggetto della ricerca: la culla preistorica del padre, contemplata da lontano e attraverso lo schermo, diventa la notte dell’infanzia immemorabile del protagonista, nella quale «si annida» il progenitore, sepolto e integrato in una parte irraggiungibile di colui che ha generato.[vi] Sarà in questo strato di tempo profondissimo che offusca tutte le distinzioni tra interno e esterno, prima e dopo, padre e figlio, che la ricerca dovrà addentrarsi. Eppure il corredo (quasi un corredo funebre) di oggetti di cui l’Uomo di Pofi viene circondato allaccia relazioni semievanescenti con oggetti che si incontrano nel corso della narrazione di episodi della vita di Valerio con Giacinto, ambientati dunque nel tempo ordinario della biografia. Le armi:il libro non dice che il padre le abbia usate, nemmeno in guerra, ma certo ne ebbe sotto mano diverse, anche basandosi solo sui racconti del figlio: pistole, un fucile da caccia, un pistolone di ceramica che stava sopra un armadio, col divieto di toccarlo, finché il figlio non lo mandò in mille pezzi. Il vasellame: Geologia di un padre si apre su un servizio da caffè e inanella molti altri vasi, quasi tutti infranti per distrazione, tentazione o progetto. Le ossa: un teschio esce dalle pagine del Condominio di carne per accomodarsi in quelle del libro più recente. E, infine, di rituali non c’è certo scarsità; tra poco ne vedremo alcuni. Dalla cripta del padre-figlio molti spiriti si levano e aleggiano negli altri tempi e spazi del libro.

 

Grandi mammut ghiacciati

 

Il capitolo successivo, il 49, è quello in cui i due filoni attinti da Magrelli per i prelievi testuali da montare sulla pagina, quello letterario e quello tecnico-informativo, vengono intrecciati in un esercizio attivo (si tratta di una riscrittura) dal forte sapore cerimoniale e rituale. Questo esercizio è una specie di autoiniziazione ai misteri del tempio condotta lontano dal tempio. Come al solito lo si dovrà seguire con una certa accuratezza. «Per avvicinarsi al senso preistorico delle mie radici», scrive il protagonista, e accorciare un po’ la distanza, geologica e non genealogica, che lo divide da suo padre, «Giove furente, Saturno pofantropico» col quale sembra non poter avere alcun contatto né affinità («che c’entro io»?) si deve cominciare da «due strani versi di Guillaume Apollinaire», che lo scrivente afferma, senza altri chiarimenti, di ricordare:

 

Ora questi pensieri morti da millenni

Avevano il gusto insipido dei grandi mammut ghiacciati (p. 82).

 

Si tratta dei versi 32-33 di Palais, una poesia di Alcools. Gli attori principali del testo sono «mes rêveuses pensées», che si dirigono in abito di gala al palazzo di Rosamunda, «au fond du rêve». Il palazzo è «don du roi», e «comme un roi nude s’élève / Des chairs fouettées des roses de la roseraie». I pensieri sognatori o fantasticatori si dirigono a una dimora regale che sta in fondo, nel punto più basso, o anche alla fine, del sogno, e si erge come un gigantesco corpo sovrano sulla carne delle rose frustate, in un’atmosfera onirica che unisce il sontuoso al crudele. Ai pensieri verrà offerto un banchetto, dove verranno imbanditi, come arrosti («rôtis»), «pensées mortes dans mon cerveau / Mes beaux rêves mort-nés en tranches bien saignantes / Et mes souvenir faisandés en godiveax»; i pensieri sognatori si trovano offerti come cibo a sé stessi, carni arroste e fatte in polpette. «Or ces pensées mortes depuis del millénaires / Avaient le fade goût des grands mammouth gelés / Les os ou songe-creux venaient des ossuaires / En danse macabre aux plis de mon cervelet».[vii] Un autodivoramento cannibalico con grandi vassoi di carni macellate, preistoriche carni di sogno e di pensiero.

 

Subito dopo i due versi, Magrelli scrive così:

 

Ebbene, per avvicinarmi al senso preistorico delle mie radici, ho elaborato un cervellotico esercizio di scrittura, o meglio di riscrittura, forse, chissà, solo a fini propiziatori. Partito da due pagine di un semplice manuale di paleontografia, ho cercato di adattarle alla mia vita. Ecco l’originale, a firma Yvette Gayrard-Valy: (p. 82)

 

Segue un paragrafo tra virgolette in cui si racconta del viaggio, in territorio russo, per raggiungere il cadavere di un mammut semiemerso dal, e semisommerso nel, terreno, il difficile e faticoso lavoro per liberarlo (è necessario costruire una specie di forno e riscaldare il terreno) e, fattolo a pezzi, portarne via i monumentali resti.[viii] Poi Magrelli continua:

 

ed ecco il mio adattamento. La proposta di lettura consiste nel sostituire all’immagine del “mammut”, quella del “bambino”, con tutto ciò che ne consegue. Questo perché, come ho detto, mi interessa l’aspetto geologico del passato, anzi, per meglio dire, la geologia della biografia (p. 83).

 

La riscrittura rituale («forse, chissà, solo a fini propiziatori») si esercita sì, lo si incomincia a capire, sul brano manualistico, ma in questo brano si deve sentire l’afflusso sotterraneo della poesia di Apollinaire sulla carne preistorica dei pensieri morti e sulla danza macabra delle ossa intorno al cervelletto: solo grazie a questa carica, a questo ingresso di energia, il mammut dei paleontologi può diventare il bambino che Magrelli è stato in un tempo sottratto al ricordo e reso mitico; solo grazie alla parola letteraria, ancora medianica nonostante tutto, il documento può dare accesso alla vita fossilizzata. E nello stesso tempo è proprio dal documento, e dalla scrittura scientifica, che si decide di partire, il che vuol dire anche forse da una ricerca disciplinare verificabile, dai protocolli sottoposti a pubblica discussione, portata avanti dal lavoro collettivo: insomma, per certi versi il contrario della produzione e ricezione letteraria. Ma che la parola letteraria abbia nel procedimento ideale e costruttivo di Magrelli un’importanza enorme è confermato anche dal fatto che il tentativo autogeologico, avviato in questo capitolo da Apollinaire, prima di riportare l’esercizio di riscrittura della fonte evochi un altro nume tutelare proveniente dalla letteratura, e una frase che Magrelli si porta dietro da anni, di opera in opera (peccato non poterne seguire qui la migrazione e i riadattamenti). Si tratta di Karl Kraus:

 

C’è una frase che rende tutto ciò in maniera mirabile. Difficile da tradurre, io la intendo così: «Più noi proviamo a guardarla da vicino, più lei ci osserva da lontano». Il suo autore, Karl Kraus, si riferiva alla parola e alla sua potenza estraniante. A me invece, in un primo momento, è venuto in spontaneo applicarla all’impressione che provoca in noi lo sguardo di una bestia. Mi sbagliavo: si trattava dell’infanzia. Da qui, la mia Variazione fossile (p. 83).[ix]

 

C’è un piccolo trattato sulla lettura condensato in queste poche frasi. Leggere è per prima cosa tradurre e intendere qualcosa in un certo modo, superando le difficoltà che questo messaggio pone; nello stesso tempo è applicare quel che si è inteso a un oggetto diverso dall’originario; e poi poter cambiare idea su quest’applicazione, e proporne un’altra senza tornare a quella iniziale. Insomma, leggere è trasformare un tema in una variazione; è «da qui», dice Magrelli, dall’infanzia come terzo oggetto supplementare di un aforisma di Kraus, dunque già da una variazione su Kraus, che viene la Variazione fossile. Questa, dal canto suo, è sì variazione sul tema della pagina di manuale, e quindi ragionevolmente arricchita dell’epiteto “fossile”, ma è anche un paradossale processo variativo fossilizzato, un mutamento geologico fotografato, i cui tempi lunghissimi sono stati raccorciati in mezza pagina. Un movimento immobile, si direbbe, e, come si vedrà, orchestrato secondo tutte le modalità dell’enigma. Un altro rebus, stavolta di sole parole, dopo quelli di sole immagini costituiti dai disegni di Giacinto e dalla sua prefazione. E un fermo immagine, ancora con Kraus, in cui l’estraneo e l’intimo arrivano ad infiltrarsi reciprocamente: il mostruoso mammut (di Apollinaire) estinto da millenni che può essere la memoria sepolta di un bambino, e viceversa. Ecco il testo:

 

La via è stata lunga: quarantasette anni a piedi da casa a casa. Ma il 4 giugno, spuntando attraverso l’oblio, compare il cranio. Il tronco e gli arti sono ancora sepolti nei sogni e nei terrori. È un’enorme massa congelata impossibile da dissotterrare. S’impone una soluzione: riscaldare il suolo e far fondere il ghiaccio. Tutt’intorno viene costruita una capanna di fogli, penne e matite, simile a una fornace alimentata da fascine di versi.

A poco a poco, in un fetore spaventoso, le carni si ammorbidiscono, la pelle si stacca, i visceri appaiono. Nello stomaco, ciocorì, zabaione e biscotti Gentilini: il suo ultimo pasto. E nella terra, masse di peli. Per quarantadue settimane gli scienziati, inviati a Roma dall’Accademia dei Ricordi di Pofi, sezionano e tagliano la carcassa. Soltanto il 10 giugno il lavoro può dirsi finito. I pezzi più grossi sono stati riposti in sacchi di pelle. Novanta chili di ossa, carne e visceri.

È il 16 giugno 1988 quando Magrelli abbandona le terre dell’infanzia trasportando, con due libri trainati da cavalli, il primo esemplare scoperto in tempi moderni. (pp. 83-84)

 

L’abbondanza di indici temporali e spaziali coincide, in questo brano, con un fondamentale disordine del tempo e dello spazio. Rileggiamo cercando di fare qualche ipotesi. Come si combinano i quarantasette anni e la data del quattro giugno che troviamo nella seconda frase? Il 4 giugno 2004 potrebbe essere la data della morte di Giacinto, e i quarantasette anni l’età di Valerio a quella data; da casa a casa, più che indicare un tragitto da una dimore all’altra, potrebbe descrivere in pochissime parole il ritmo di una vita, nei suoi tragitti anulari quotidiani (come a dire dalla mattina alla sera). Se la proposta di soluzione dell’enigma è giusta, il giorno della morte di Giacinto sarebbe quello in cui il cranio, la testa fossile del figlio-mammut emerge dal grembo della terra, che ancora trattiene in resto del suo corpo. Non è un’infanzia biografica quella che affligge, potremmo dire, questo reperto, perché nessun accenno si fa alle dimensioni ridotte del corpo, del quale anzi, alla fine, si riporteranno via in sacchi novanta chili di ossa, carni e visceri. È invece una sorta di infanzia psichica e prenatale, e la morte del padre coincide con l’uscita della testa da questa infanzia. Si tratta, insomma, di una nascita, o di una rinascita. Che avrà bisogno di energiche cure maieutiche. È davvero salito alla superficie, Valerio, dopo la morte di Giacinto; come nell’esergo musiliano, e come già nell’Anti-Mazur, la prosa di Esercizi (e ci risiamo) di tiptologia ricordata in precedenza. Come l’Anti-Mazur, il figlio di Geologia di un padre è sprofondato così tanto nella terra nera dei sogni e nei terrori da sbucare, alla fine, dall’altra parte, alla fine del sogno come il palazzo di Apollinaire. Ma c’è da completare l’opera, o meglio da mettere in forma, in parole, la narrazione del suo compimento.

 

I materiali con cui si costruisce il forno che servirà a ammorbidire il terreno congelato sono quelli della scrittura, e il combustibile sono le poesie, le fascine di versi radunati e legati insieme; le poesie scritte, prima di tutto, e poi anche quelle lette. Valerio Magrelli scrive per alimentare il forno che riporterà alla luce, rimetterà al mondo, Valerio Magrelli, o permetterà a lui stesso di portare a casa la parte fossile di sé. Forse poche volte l’autore romano è riuscito come nelle righe che seguono a presentare e insieme a estraniare un’immagine del suo operato, in versi e in prosa. Ripercorrendo la sua opera è possibile trovare numerose coincidenze e corrispondenze con quanto si dice qui: l’esposizione delle carni, la pelle, i visceri, addirittura il fetore (si pensi a quella pagina del Condominio di carne in cui al protagonista viene mostrata la testa del suo femore, dopo la sostituzione con una protesi, e alla sottolineatura dell’odore; e non è l’unico caso). Sulla falsariga del brano assunto come base, anche qui c’è un’équipe di scienziati, che partendo da Pofi raggiungono Roma, sede, evidentemente, del rinvenimento paleontologico; si era detto che l’avvicinamento al paese paterno veniva condotto da Magrelli con ogni cautela, ma qui addirittura sembra che l’intero viaggio si capovolga e cambi di senso, perché sono gli scienziati dell’Accademia dei Ricordi di Pofi che viaggiano fino a casa di Valerio, ed è dunque Pofi che organizza una spedizione a Roma, per disseppellire, ripulire, e far nascere Valerio affinché possa un giorno, finalmente, andare a Pofi. La carcassa dell’enorme bambino fossile[x] viene sezionata senza pietà per quarantadue settimane, ossia il tempo limite di una gravidanza a termine (quindici giorni dopo la data presunta del parto, calcolata dai ginecologi), e quindi l’insaccamento dei pezzi più grossi, ossa carne e visceri, coincide con l’uscita dal grande sacco, il sacco della terra, e della madre.

 

Nel 1988 Valerio Magrelli aveva 31 anni. Perché proprio quest’anno è stato scelto per datare l’abbandono delle terre dell’infanzia (che, d’altra parte, potranno essere lasciate soltanto alla morte del padre: e anche questo è un caso di fortissimo anacronismo)? Difficile dirlo. Meno difficile ipotizzare che i due libri usati per trasportare i novanta chili del corpo (sezionato dal vero e per metafora) di «Magrelli» siano i primi due volumi di versi di Valerio Magrelli, Ora serrata retinae, del 1980, e Nature e venature, del 1987. Ma il 10 e il 16 giugno, perché sono chiamati a fare, sembrerebbe, da spartiacque, da tappe decisive? Qui devo molto alla cortesia di Magrelli, il quale mi ha informato che il 10 giugno è la data in cui ha avuto il grave incidente stradale in seguito al quale gli sono state impiantate le viti nel bacino, e ha che il 16 giugno è il giorno del suo matrimonio. E per una straordinaria coincidenza, il 16 giugno è il Bloomsday; il giorno in cui Joyce ebbe il suo primo (o secondo) appuntamento da Nora Barnacle, da cui uscì uomo (sono sue parole), il giorno che Joyce scelse per mettere Leopold Bloom sulle tracce di Stephen Dedalus, il giovane artista che lo stesso Joyce era stato, di modo che i due, unitisi, formassero un «duumvirato», una pseudocoppia di padre e figlio legati da un vincolo non genetico.

 

Liberandosi, espellendosi faticosamente dalla terra dei sogni e dei terrori, in questo paragrafo di riscrittura («forse, chissà, solo a fini propiziatori») Valerio si mette al mondo, è l’artefice della propria nascita, diventa suo padre e suo figlio. E per l’insistenza su una nascita fuori dall’ordinario, invertita o contro natura, il capitolo 49 consuona fortemente con il capitolo 15, dove si narra la morte del padre. Nel capitolo 14, lo si è già sottolineato, l’io scrivente, di fronte allo scatolone delle agende del padre, dopo aver dichiarato di non averle lette, si vedeva però costretto a confessare di averlo fatto, almeno in parte, e di aver trovato negli appunti degli ultimi mesi di vita una vera ossessione per la defecazione. Quegli appunti del vecchio padre diventano una chiave: «quell’insistere sul processo della deiezione, mi ha svelato retrospettivamente il senso stesso della sua morte, o meglio, della Morte» (p. 26).

 

Ora, dopo aver tanto tagliuzzato il testo di Magrelli, dopo aver vagato per spazi liminari e di incerta paternità, dopo aver sistematicamente eluso e nascosto la sua bellezza, è arrivata per me l’ora di risarcirlo. Trascrivo qui di seguito la scena della morte del padre, osservata dal figlio al suo capezzale, senza commento, invitando soltanto a confrontarla con le linee dei discorsi fatti fino a qui.

 

Io continuavo a guardarlo come un cane che divori ogni particola di un osso. La sua immagine era il mio osso, e i miei occhi-denti (piraña, allora) andavano rosicchiando, mio malgrado, minutissimi dettagli. Un neo sul braccio sinistro mai visto fino a allora, la zona sotto il mento mal rasata, i bottoni del pigiama.

Il respiro diventava sempre più difficoltoso. Restai solo a tenerlo, e lo vedevo concentrato come non mai, dietro la maschera per la respirazione, con gli occhi chiusi. Intento a respirare, avrei creduto: ma non era così. Non mi vedeva nemmeno. La cosa che più mi commosse, e mi commuove ancora, è il modo in cui si faceva forza con un braccio, seduto sul lettino, spingendo con la mano sinistra come per tirarsi su. Chi si appoggia sul braccio così?, mi dicevo. Quando ci si appoggia sul braccio così?, mi chiedevo. Dove ci si appoggia sul braccio così?, mi scervellavo. Adesso lo so, ma in quel momento sarebbe stato impossibile pensarlo. Ci si puntella così per defecare. Questo, dunque, è il segreto dei segreti. Mio padre cacava se stesso, ossia cacciava via quel tremendo bolo che ormai era diventata la sua vita. Non cercava di trattenerla, al contrario: soffriva proprio perché non riusciva a estrarla. Espelleva se stesso dal mondo, e io, che non lo avevo mai visto al gabinetto, dovevo assisterlo in quel gesto postremo.

Era il contrario di quanto avviene in sala parto. La differenza sta nella mancanza della madre. Per questo, il morente è chiamato a impersonare due ruoli insieme: è la fattrice e il neonato, l’espulsore e l’espulso. Si tratta di ripassare dall’altra parte, e il cunicolo è stretto, e nessuno, proprio nessuno, può aiutarti. Il punto è questo: devi farlo da solo, affrontando una dilatazione topologica dello spazio in cui la coscienza-oloturia è chiamata ad estroflettersi.

Non ci furono grida o contrazioni, bensì il paziente estrarsi di sé da sé, come nel caso della bottiglia di Klein, laddove il contenente si travasa nel contenuto. E tutto nella tristezza delle feci, il cui congedo diuturno mio padre andava annotando con tanta straziante acribia. Pian piano è uscito tutto dalla vita, sgusciando via, alla fine, fino in fondo. Il braccio, poi, non gli è servito più., e ha smesso di far leva. L’ho visto sparire sotto i miei occhi. Sarà sbucato dall’altra parte del mondo (pp. 27-28).[xi]

 


[i] Si legge sul primo risvolto: «In sopracoperta: La grotta di Polifemo, di Giacinto Magrelli, elaborazione grafica di Zest». Riccardo De Gennaro, recensendo il libro su «Alias» del 20 gennaio 2013, ha segnalato che Zest è il nome d’arte del figlio di Valerio Magrelli (grafico, come si è già avuto modo di accennare), e che la sua “elaborazione” è «garanzia della continuità della saga familiare». Ma, e anche questo lo si è già visto, l’intero libro è un lavoro o una “rielaborazione” sull’eredità.

[ii] Per un’indagine di quel che significa avere figli nell’opera di Magrelli si può vedere il bel saggio di C. Bonsi, Amputarsi, mutilarsi, abdicare… una lettura di “Children’s corner” di Valerio Magrelli, in «Per leggere», XI, 20, primavera 2011. Segnalo inoltre che Elegia (in DSB), testo in cui l’io si trova, di sera, «nella stanza dei miei figli» e li ascolta «cinguettare», porta in esergo i noti e durissimi versi coi quali Philip Larkin ci consegna This Be The Verse: «L’uomo passa all’uomo penuria. / Si approfondisce come un’insenatura. / Esci prima che puoi, / e non aver figli tuoi» («Man hands on misery to man. / It deepens like a coastal shelf. / Get out as early as you can, / And don’t have any kids yourself»). «Quanto ai versi di Philip Larkin, – avverte Magrelli nella nota a piè di pagina – che ho ritradotto, mi seguono da anni: ho deciso di impiegarli come esergo, perché ai miei occhi essi indicano il divario tra ciò che sarebbe stato giusto, e ciò che invece è stato vero» (p. 40).

[iii] Anche in questo caso, però, siamo in presenza di una ripresa e parziale riscrittura; una prima versione del racconto contenuto in questi tre capitoli era già uscita su rivista ed era stata poi raccolta nel Violino di Fankenstein.

[iv] Ma visto che tra breve farà la sua apparizione Karl Kraus, non sarà male apporre qui una chiosa pertinente che viene dalla sua penna: «Morì morsicato dal serpente di Esculapio». Parole che si leggono nella sezione Umori, parole, di Detti e contraddetti (a c. di R. Calasso, Milano, Adelphi, 1992, p. 162).

[v] Cito da A. Pizzuto, Si riparano bambole, a c. di G. Alvino, con una nota di G. Contini, Palermo, Sellerio, 2001, p. 21.

[vi] Se si accetta che uno dei gesti tipici dell’operare magrelliano sul metallo della parola sia una specie di percussione che risveglia le risonanze più nascoste di questa e ne riporta in luce la tramatura semantica come fosse una musica, allora non sembrerà inaccettabile aggiungere qui un altro senso del termine “mandorla”. Nella pittura sacra, la mandorla è un elemento dal contorno ogivale – legato ancora una volta per analogia morfologica al sesso femminile – destinato a contenere un’immagine, spesso quella del Cristo (il Figlio unito al Padre e da lui distinto). Che cosa vede apparire Valerio nella mandorla della sua tonsilla, dell’arma del padre, della terra madre? Tanto il padre quanto il figlio. Ma soprattutto, il buio, la nerità attiva. Viene alla mente allora una grande poesia di Celan, intitolata proprio Mandorla, di cui riporto i primi versi: «In der Mandel – was steht in der Mandel? / Das Nichts. / Es steht das Nichts in der Mandel. / Da steht es und steht. // Im Nichts – wer steht da? Der König. / Da steht der König, der König. / da steht er und steht». («Nella mandorla – cosa sta nella mandorla? / Il nulla. / Nella mandorla sta il nulla. / Lì sta e sta. // Nel nulla, chi sta? Il re. / Lì sta il re, il re. / Lì sta e sta». Cito da P. Celan, Poesie, a c. e con un saggio introduttivo di G. Bevilacqua, Milano, Mondadori, 1998, p. 414).

[vii] Cito da G. Apollinaire, Poesie, a c. di R. Paris, Roma, Newton Compton, 1971, pp. 110-114.

[viii] Ecco il brano: «la via è stata lunga: seimila chilometri in slitta da Irkutsk alla Berezovka. Ma il 14 settembre, attraverso i larici, appare il cranio. Il tronco e gli arti sono ancora sepolti nella terra e nel ghiaccio. È un’enorme massa congelata impossibile da dissotterrare. S’impone una soluzione: riscaldare il suolo e far fondere il ghiaccio. Tutt’intorno viene costruita una capanna di legno, simole a una sauna riscaldata da due fornelli. A poco a poco, in un fetore spaventoso, le carni si ammorbidiscono, la pelle si stacca, i visceri appaiono. Nello stomaco, serpillo, ranuncoli e genziane: il suo ultimo pasto. E nella terra, masse di peli. Per sei settimane i tre scienziati, inviati in Siberia dall’Accademia delle Scienze di Pietroburgo, sezionano e tagliano la carcassa. Soltanto il 10 ottobre il lavoro può dirsi finito. I pezzi più grossi sono stati riposti in sacchi di pelle. Mille chili di ossa, carne e visceri. È il 15 ottobre 1901 quando Herz, Sevastianov e Pfizenmayer abbandonano Kolymsk trasportando, con dieci slitte trainate da cavalli, il primo esemplare scoperto in tempi moderni» (pp. 82-83).

[ix] L’aforisma krausiano, molto citato, amatissimo, per esempio, da Walter Benjamin, suona così nell’originale: «Ja näher man ein Wort ansieht, desto ferner blickt es zurück». Questa la traduzione di Calasso, che lo interpreta in maniera molto diversa da Magrelli: «Quanto più da vicino si osserva la parola, tanto più lontano essa rimanda lo sguardo» (Detti e contraddetti, cit., sezione Pro domo et mundo, p. 252).

[x] Già in Nature e venature, uscito, lo ricordiamo, nel 1987, Magrelli aveva parlato di «natura fossile del bimbo», nell’ultimo verso della poesia intitolata Nei disegni dei bambini (p. 146).

[xi] Non un commento, per mantenere fede alla promessa, ma un semplice allegato. Trascrivo la poesia Il partoriente, da ET: «Presenza e assenza. / Mutazione geologica. / Io che cedo sotto il suo peso. / Subsidenza, / e il mio lento sprofondare. / ma in verità non cedo / sotto un peso, poiché gli sono sopra, / scendo, sto sopra e scendo, Toboga, / e il suo peso è un tirare / dal basso, un prendere forma attirandomi / giù, sabbia da sabbia, / perch’io riappaia capovolto come / filiale di me stesso / al capo opposto / di questa clessidra genetica» (p. 230).

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