di Stefania Giroletti
Se nel Condominio di carne la biologia finisce per sovrastare e frantumare la biografia, fino a renderla inconoscibile e inenarrabile, in-organica, è nel suo ultimo tentativo o tentazione della prosa che Magrelli lavora ad una ricomposizione della propria storia individuale, innestandola sul ramo anonimo e plurale della geologia. Geologia di un padre accosta fin dal titolo – o meglio li annida l’uno nell’altro secondo una geometria di slittamenti che sarebbe tipica della paronomasia, figura prediletta dal poeta – la storia comune e generalizzante della terra e la figura personalissima del padre: di modo che entrambi i termini derivino dalla loro vicinanza un’ombreggiatura di straniamento, un’instabilità di definizione e al contempo l’intuizione di una relazione ineludibile.
Questo perché, come ho detto, mi interessa l’aspetto geologico del passato, anzi, per meglio dire, la geologia della biografia. (pag. 83)
(Geologia della biografia, questa realmente una paronomasia: un’appartenenza di cui seguire la ricerca negli scorci di storia proposti dal libro; nonché una dichiarazione di poetica precisa).
Da una parte geologia e padre vengono a rappresentare una comune negazione del soggetto: lo spazio asfittico di serrata alternanza di vita e morte, l’anonimato di un moto perenne, sovrastante l’io, la sua intenzionalità, il suo desiderio. La vicenda individuale pare inabissarsi nello gnif gnaf[1] geologico che ne ammutolisce la voce nei gorghi della glossolalia, dell’afasia. Il figlio allo stesso modo sente minacciato il proprio timbro dall’invadenza paterna. Essa si materializza nei disegni ad opera di Giacinto (il nome del padre) che occupano lo spazio di una prefazione al libro; per risalire fino all’immagine di copertina, la quale non solo risponde al tratto nervoso del vecchio Magrelli, bensì condensa nella sua iconografia – quella di Polifemo in procinto di ingoiare Ulisse – il senso di un rischio che percorre queste pagine e allo stesso tempo minaccia l’identità personale e letteraria dell’autore.
Dall’altra parte – e in vece dell’ accostamento proposto dal titolo – la ricerca di un nesso col padre, che non sia di passivo mimetismo o sopraffazione, verrebbe a rappresentare per l’autore la possibilità di recupero di una coscienza storica non solo personale, ma geologica, quindi la possibilità di un ri-collegamento del soggetto ad un contesto che lo sovrasta e inerisce al contempo.
Non mi girai, e rimasi a specchiarmi nel mio specchio genetico, in quel corpo da cui provenivo: la cosa più simile a me che avessi mai incontrato. Pre-me, para-me, meta-me, padre e bacello. (pag. 51)
La ricostruzione di una biografia, l’umanissima storia di una relazione filiale, intreccia in tale direzione il proprio corso allo sviluppo sotterraneo di una riflessione meta-letteraria. Nel transito che innerva e sub-stantia il libro fra motivi personali e collettivi (anonimi), emerge l’eco della poetica che orienta complessivamente il fare dell’autore: il cui cardine ruota attorno alla possibilità di giungere attraverso il soggetto a realtà generali, che lo sorpassano nella misura in cui gli appartengono. Ciò si traduce nell’affermazione della possibilità del fatto ‘lirico’ di farsi messaggio comune, chiave interpretativa pluralmente valida della realtà.
Così il padre può divenire, nella sfumatura di una gestualità quotidiana, espressione della Storia: «è questo ciò che intendo per fascismo ‘solubile’: il modello del Capo diluito nell’acqua-madre dei gesti, delle espressioni individuali, sciolto in dosi omeopatiche, nell’esistenza quotidiana dei sudditi» (pag. 58); oppure si possono incontrare pagine in cui l’esperienza eroica di parenti sconosciuti, attivi nella Resistenza, riferita riportando ritagli di stampa che si affastellano come una digressione aperta in corpo al tema, si conclude con un ricordo strettamente familiare e un senso intimo di appartenenza: «Nel frattempo, però, in una casa amica e antica, che risuonava ancora di quei racconti atroci, per la prima volta in vita mia io mangiai funghi» (pag. 62). La storia di Magrelli passa per quella di Giacinto che sconfina, attraverso la figura della nonna-sigarillo, in una terra antica, Pofi: nella sua archeologia e geologia, nella storia comune e rituale di generazioni. Il fatto che Pofi, polo magnetico, venga poi visitata dal poeta e resa al lettore (ma anche alla propria coscienza) nel suo contemporaneo aspetto degradato, frutto di un flagello edilizio, sottolinea la caparbietà di un atteggiamento che riattivando una dialettica fra presente e passato, non teme di farne emergere le frizioni e le conseguenti denunce.
Certo una simile chiave di lettura potrebbe apparire forzata – la divaricazione ideologicamente orientata di un ricordo, le cui ambizioni non sorpasserebbero il cerchio stretto dell’io – a chi non si ponesse in ascolto del sistema d’echi orchestrato da Magrelli fra queste pagine di prosa e le poesie: il quale attesta l’esistenza di un discorso in atto fra tali forme letterarie; quindi la condivisione di una riflessione poetica precisa, che a partire da Ora serrata retinae giunge a Disturbi del sistema binario, contraddicendo lo statuto del soggetto isolato della prima raccolta e conseguentemente il suo dire tautologico e meta-letterario, per gettarlo attraverso il corpo in una trama di relazioni che ne costituiscono l’essenza, la natura singolare-plurale: dell’io e del messaggio.
Si prenda ad esempio l’urlo che modula il primo movimento di Geologia: una forma qualsiasi di dolore – in questo caso (e in maniera significativa) fisico, la scalata ardente del caffè attraverso il gesso, la bruciatura – che provoca la reazione, la scalfittura della sfera ottusa e irrelata del soggetto,
la fitta di chi chiama dall’interno, e chiama e chiama, finché la gente intorno si decide a ascoltarla, mentre lento si spande l’aroma del caffè. (pag. 5)
Il dolore, similmente alla malattia, riveste in tale libro, come accade nelle raccolte, una funzione strutturante. È l’irruzione da cui prende avvio un percorso di conoscenza: del padre come di sé, come di una verità che li include entrambi, senza spersonalizzarli.
Nel suo caso, invece, il male costituì una breccia grazie alla quale penetrare nelle difese che per tutta la vita lo avevano protetto.
La malattia come un piede di porco per scassinare i segreti di chi amiamo, la barra su cui fare leva per irrompere all’interno di un altro spazio, forzando i chiavistelli. (pag. 69)
Il duplice movimento – discenditivo proiettato verso la risalita – di Magrelli che si cala nella tomba di famiglia e parallelamente nel ricordo del padre, per tentare di emergere dalla sua figura inglobante, ricorda il percorso dell’Anti-Mazur[2], che al contempo funge da mise en abîme del movimento generale e poetico di Esercizi di tiptologia: che scava nel fango geologico e oggettivante per risalire alla storia e alla biografia del soggetto, sottolineando il legame fra le varie dimensioni. Le riprese possono essere costituite pure da brevi formule che agiscono a livello suggestivo, impedendo di scollegare quest’ultimo lavoro da un percorso-discorso che si porta avanti da anni; per citarne solo alcune en passant: via delle fornaci, Laika, biscottino della morte.
Talvolta pare sia Geologia ad offrire una lettura retrospettiva dei versi dell’autore, squarciando un retroscena in cui si palesa la natura privata di alcune situazioni o atteggiamenti poetici: come l’indicare nel padre la radice di quell’atteggiamento che a lungo ha caratterizzato la scrittura del poeta romano stesso, ovvero il tentativo di opporre l’armonia della carta alla cacofonia del reale
Non appena abbandonava il mondo della carta, il disordine faceva irruzione nella sua esistenza. (pag. 73)
In questo modo il libro-diario ribadisce la natura privata di una scrittura che si desidera universale, accomunante per lo meno, ma senza sopraffare l’individuo, la voce singola. L’intertestualità dona all’opera uno spessore, che rende possibile enumerarla quale parte attiva nella lotta ingaggiata dall’autore contro gli sconfinamenti nel narcisismo o al contrario nella retorica di alcune espressioni contemporanee del genere lirico. Magrelli aggiunge tasselli, anche attraverso questo libro di prose, alla costruzione di una voce lirica che non incontri nell’io il proprio limite, bensì il transito di una parola accomunante. Ciò a seguito di una concezione relazionale del soggetto, da costruirsi attraverso la riattivazione di una coscienza storica che sia individuale e generale al contempo: di nuovo il transito fra biografia, storia, geologia.
Che una simile opera di ricostruzione non sia semplice, lo attesta la forma del testo, di cui l’autore stesso tratteggia un ritratto metaforico, in una delle parentesi metapoetiche che contribuiscono a rendere singhiozzante il ritmo della narrazione:
Il mucchio di biglietti e bigliettini dove ho trascritto i miei appunti per quasi dieci anni, sembra una cesta piena di pulcini: che pigolio sale da quel paniere, in cui ho raccolto e conservato tanti foglietti! Sapevo che ogni voce era una gola che domandava cibo. Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un’infinita matassa di storie. (pag. 89).
Si tratta di storie mutilate, abbozzate: la fisionomia frantumata dell’opera, il suo aspetto ‘inconcluso’ deriva dalla materia altrettanto scivolosa e smerigliata di cui è composta, dall’intermittenza del ricordo e dalla difficoltà del confronto. Tradisce al contempo l’impossibilità di governare una narrazione degli eventi da parte dell’autore, che a volte pare ritirarsi in un atteggiamento passivo rispetto alla propria storia: soprattutto col procedere delle pagine i legami fra i capitoletti si fanno labili, a volte pretestuosi, allacciati alla ripresa fisica di una parola, cui segue un brusco spostamento di prospettiva. Parallelamente la scansione temporale del racconto è disordinata: sono continui ed improvvisi gli sbalzi fra un passato remoto, quello prossimo e il presente della narrazione. L’effetto è straniante. A ciò si aggiunga l’interferenza di voci fuori campo, che affiorano a livello del testo provocando una sorta di effetto collage.
Ma l’abito a tratti postmoderno della narrazione risulta straniato e contraddetto dal senso che una simile impalcatura di citazioni viene a rappresentare per lo scrittore. Magrelli se ne serve per simulare una smorfia ironica (ma inetta), una ‘distrazione’ nei confronti della reale difficoltà di far emergere la propria figura da quella paterna, di evitare quindi la sovrapposizione, l’ingerenza, tanto quanto il rifiuto: frapponendo materiale neutro e gestibile da parte del poeta, ai gorghi del racconto. Poco vale la costruzione di una simile barricata: la maggior parte dei capitoletti si orchestra su due tempi, nei quali spesso si percepisce la simmetria instabile delle forze pendere verso la figura magnetica di Giacinto:
Guardavamo nella stessa direzione, lui dritto innanzi a sé, io risucchiato indietro. (pag. 74)
Sono suggestive le pagine in cui Magrelli, scoprendosi mimo di alcuni atteggiamenti paterni – bruciare d’ira nei confronti degli oggetti, fino a ridurre a carcassa una stampante inefficiente, riproducendo nei movimenti l’accanirsi funesto e ridicolo del padre su una scatola di biscotti che non riusciva ad aprire – lascia che l’invasione affluisca fino al lessico, il quale sprofonda in una scurrilità intestina, piuttosto estranea al dettato del romano:
è un’unica, inarrestabile colata di fango e di merda.
Ma sì, distruggili per sempre quei cazzo di biscotti!. (pag. 42)
La ricerca attraverso il padre è ad ogni modo quella di sé:
Desiderio di rievocarlo: perché? Forse perché mi manco. (pag. 49)
E rimane inconclusa, abbozzata, di andamento claudicante come la forma della narrazione. Non si tratta di una meta raggiunta, bensì di una direzione indicata, connotata da una precisa etica: quella di definirsi quale un presente costruito sulla difficile dialettica fra passato e futuro. Essa è condensata nell’immagine di Magrelli strattonato fra le realtà polari di suo padre e suo figlio:
e io diviso fra loro, lacerato, tirato per la manica di qua e di là. (pag. 106)
Stare fra loro, lottando per un equilibrio è la difficile proposta del libro, l’azione in corso, lo sforzo di una consapevolezza privata, da cui derivare la coscienza di una propria precisa posizione nella realtà contemporanea; nonché, per quanto riguarda il poeta, nei confronti della tradizione letteraria. Un padre infatti, nel prisma di possibilità aperto dall’utilizzo dell’articolo indeterminativo – e assecondando un accostamento classico, quasi usurato – verrebbe a condensare pure il concetto di tradizione. Indirettamente quindi la storia di tale rapporto filiale sottende quella parallela e taciuta di Magrelli autore coi padri della letteratura, in un’ottica che si distanzia tanto dalla soppressione euforica dell’autorità, quanto dal citazionismo ludico postmoderno, per riformulare i termini di un confronto complesso e cosciente con il passato, dal quale vedere emergere e distaccarsi la propria immagine. Continuando anche in ciò un discorso applicato nella propria produzione poetica.
Il recupero di una dimensione storica quindi riguarda contemporaneamente l’uomo e l’autore; si traduce nell’indicazione di una direzione etica e contemporaneamente poetica precisa, da ascoltare fra le righe di questa prosa, la quale non rappresenta unicamente una memoria personale, bensì il tentativo della memoria.
Così, spento il motore, avverto accanto a me la presenza di un vecchio signore muto, con borsalino e lenti gigantesche. Passano dieci minuti desolati. Continua a riposare. Poi una vocetta squillante, vicino al finestrino, mi fa segno di aprire. È mia figlia undicenne, d’oro zecchino, che mi porta un bicchiere di caffè già zuccherato. Non vedendomi arrivare, e immaginando il protrarsi dell’attesa, hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere. Mi fa ciao con la mano e se ne va, lasciandomi da solo a singhiozzare. (pag. 130-131)
Ho trovato molto interessante questo contributo di Stefania Giroletti. Arrigo Stara in un suo scritto su Magrelli (‘Radici di carne’, in “Italianistica”, 2004), ha interpretato le prose di “Nel condominio di carne” come un sismografo del nostro tempo, in cui ogni interiorità psichica sembra dissolta e in cui non ha più senso parlare di ‘somatizzazione’. Con Magrelli, per Stara, si è posti quindi dinanzi ad un nuovo inconscio, da ricercare non più dentro l’individuo, ma fuori, sul suo corpo, sulla sua pelle, nel ‘condominio di carne’ costituito dal suo organismo. Forse i tic corporei scomposti del padre, nell’ultimo libro, ne sono l’equivalente sulla scala del “dialogo” tra generazioni. Sempre più per parlare dell’inconscio è necessaria una dimensione non solo linguistica ma corporale. A recuperare la dimensione corporea nel discorso psicoanalitico, (e, potenzialmente, letterario) sottraendola alle derive banalizzanti della Nietzsche-Renaissance e all’orizzonte a volte cosmetico dei Body Studies, è lo psicanalista brasiliano Armando Ferrari, che in “L’Eclisse del corpo” afferma che la fisicità è il primo vero oggetto di indagine della mente.