di Federico Bertoni
Qualche tempo fa ricevo una circolare dalla scuola media in cui studiano i miei figli: il preside mi invita a ritirare le credenziali per l’accesso al nuovo sistema per la gestione interattiva della vita scolastica. Ovviamente faccio il mio dovere di bravo genitore: vado, firmo, collaboro; mi annetto l’ennesima accoppiata di userid e password ed entro nello spazio arcano del Registro, da sempre precluso ai genitori se non per i segni indiretti che ne giungevano a casa in forma di voti o note disciplinari, sui diari o sui libretti dei figli.
Ma da quest’anno la cartaccia è abolita: solo “onde e radiazioni”, come scriveva DeLillo in Rumore bianco: tutto trasferito sul registro elettronico, perfino le carriere degli anni passati fino alla prima elementare. In classe c’è una scatola di ferro chiusa a chiave di fianco alla lim, la Lavagna Interattiva Multimediale. L’insegnante la apre, ribalta il coperchio, accende un computer portatile e – volgendo le spalle alla classe – si rinchiude nel cyberspazio con le dita che battono a tutto spiano: assenze, ritardi, argomenti delle lezioni, voti, note, compiti a casa. Il fatto che i dati siano accessibili in tempo reale a me, che posso anche prenotare colloqui e non so che altro, non mi è sembrata una semplice innovazione tecnologica, “servizievole” e ideologicamente neutra. Risalendo dal piano dell’aneddoto a quello delle idee, mi sono detto che è proprio il carattere morbido, amichevole e capillare di questo piccolo cambiamento a renderlo insidioso: un ennesimo, insensibile spostamento nella soglia dell’abitudine e della percezione, di quelli che ci stanno cambiando il mondo sotto i piedi senza che ce ne accorgiamo. Viviamo in un’epoca, diceva sempre DeLillo, in cui la tecnologia “fa avverare la realtà”. È indispensabile “perché ci aiuta a creare il nostro destino. Ma è anche subdola e incontrollabile. Può andare in qualsiasi direzione”.
Alcuni giorni dopo ho anche tentato di esporre i miei dubbi nelle riunioni dei consigli di classe, ma ho intuito subito che giocavo la parte del rompiscatole; e se magari leggevo un consenso parziale e prudente negli occhi degli insegnanti, sentivo una greve massa di silenzio intorno a me, la disapprovazione (o peggio l’incomprensione) di genitori elettrizzati all’idea di poter finalmente monitorare l’andamento scolastico del figlio. Magari sono solo paranoico; magari la pensavano allo stesso modo e la mia spocchia repressa da intellettuale si è vendicata di tutte le volte in cui la tratto male. Fatto sta che nessuno ha replicato, e che alla fine l’insegnante ha allargato le braccia: “Tanto ormai è così. Non c’è niente da fare”.
Non voglio abusare della tolleranza altrui per l’autobiografia non richiesta, ma non penso che sia un problema solo mio. Certo, tenterò in qualche modo di consolare il lato anarcoide del mio carattere, intristito dal fatto che i miei figli non potranno marinare la scuola a mia insaputa, o che addirittura (il colmo della diseducazione!) dovranno farlo con la mia complicità. Però temo che in gioco ci sia altro. Non sono un filosofo né un sociologo, e quindi le mie riflessioni non hanno nulla di scientifico. Studio e insegno letteratura; ma da questa “cosa mirabile e immonda”, come la chiamava Manganelli, ho imparato a osservare con attenzione la realtà, a decifrarne miti e formazioni discorsive, a sbrogliare il vischioso double bind tra esperienza materiale, immaginario e condizionamento simbolico. Tento quindi di mettere ordine tra dati empirici e sensazioni, enucleando soprattutto tre punti:
1. Burocrazia. Una delle promesse centrali della rivoluzione informatica è stata la liberazione dalla burocrazia: snellire, semplificare, velocizzare, smaterializzare tonnellate di faldoni e scartoffie, con gran sollievo della foresta amazzonica ed euforia demente di quel Ministro della Repubblica che bruciava cataste di libri in un cortile. Mi sbaglierò, ma temo che fosse la classica promessa da marinaio. Cambiare supporto serve a poco: passare dalla carta al monitor non è una grande semplificazione se poi i dati si moltiplicano, l’informazione si ramifica e stringe le maglie per tendere al miraggio (o all’incubo) dell’archivio totale.
Se penso alla mia esperienza in università ne trovo la conferma più lampante. Ogni anno, in nome della “trasparenza” e degli “indicatori di efficienza ed efficacia”, i tecnocrati della “quality assurance” ci costringono a esibire informazioni sempre più minuziose e articolate: programmi, obiettivi formativi, risultati di apprendimento attesi, metodi didattici, descrizioni dettagliate degli esami e dei criteri di valutazione. Scherzando, dicevo a un collega che tra qualche anno ci chiederanno di indicare il colore delle mutande con cui andremo in aula. Il tutto, ovviamente, nella suprema indifferenza per i contenuti. Tempo fa ho sentito con le mie orecchie una preside di facoltà, accorata, che scongiurava i colleghi di compilare anche la versione inglese dei programmi online, dicendo che tanto bastava inserire qualunque cosa, anche “Pippo e Topolino” (o forse “Goofy and Mickey Mouse”), perché l’importante era che il sistema rilevasse automaticamente la chiusura dell’applicativo e non segnalasse l’inadempienza, portando a una penalizzazione economica della facoltà. E questo è solo amabile folclore rispetto all’escalation a cui assistiamo ogni anno. Se questa è la liberazione dalla burocrazia, preferisco davvero restare prigioniero.
2. Pubblico/privato. L’erosione dei confini e la confusione dei ruoli mi sembrano sintomi di un processo di ormai lunga durata, cioè la crisi profonda delle funzioni e degli spazi istituzionali. Nell’ambito specifico della scuola, il ruolo delle famiglie sta slittando da una partecipazione sensata alla più delirante invadenza, come se la graduale, vergognosa delegittimazione sociale dell’istituzione scolastica e degli insegnanti implicasse una sorta di compensazione, una forma di supplenza abusiva da parte dei genitori. L’istituzione funziona sempre peggio, è trascurata e sottofinanziata, fatica a reggere le sfide e i ritmi del mondo moderno, e allora intervengo io, cittadino di buona volontà. È il tipico caso in cui le migliori intenzioni spalancano la via dell’inferno: manca la carta igienica e allora verso di buon grado il cosiddetto “contributo volontario”, dimenticando che la scuola è gratuita e che deve essere finanziata dallo Stato; mio figlio è sommerso di compiti e allora passo il pomeriggio ad aiutarlo, ostacolando una già complicata conquista dell’autonomia; e ora, con il registro elettronico, posso aprire quando voglio una piccola finestra virtuale per mettere il naso nella classe, ronzando pericolosamente (ma sempre con le migliori intenzioni!) intorno a quel principio sancito dalla Costituzione che si chiama “libertà d’insegnamento”.
È il solito, impercettibile spostamento dei confini. Buona fede e buona volontà sono le maschere di enormi cambiamenti che corrono sotto la soglia dell’attenzione. In un certo senso, il successo del grillismo oggi (e di una certa parte del berlusconismo ieri) è dovuto a questa crisi territoriale, all’erosione delle frontiere tra pubblico e privato: io onesto cittadino (!?), io professionista, io abile imprenditore scendo in campo e saprò gestire la cosa pubblica in modo più efficace dei politici di professione − che tanto sono tutti ladri, signora mia. A volte mi chiedo se le vere crisi, le rivoluzioni epistemologiche, quelle grandi “rotazioni di coordinate dell’uomo nel mondo” di cui parlano i libri di storia siano mai esistite, o se invece siano cesure simboliche mitizzate a posteriori. So solo che da quando sono nato non vedo altro che rivoluzioni silenziose, impercettibili, brulicanti come batteri o radiazioni elettroniche. È l’aria che respiriamo. La sostanza elettrica della cultura. Gli incubi centrali con cui siamo cresciuti, contaminazioni del corpo e del mondo – Aids e fallout atomico in primo piano. La realtà ci cambia sotto i piedi ma non ce ne rendiamo conto; ci chiediamo perfino dove eravamo noi mentre tutto accadeva, e l’unica risposta che troviamo è una sterile nostalgia sentimentale per il buon tempo che fu, quando si telefonava con il gettone dalla cabina o si verbalizzavano gli esami con carta e penna.
3. Controllo. È un processo di questo tipo che ha modificato insensibilmente un altro grande spettro dell’immaginario postmoderno, cioè l’ossessione paranoica del controllo, che sta prendendo una piega molto diversa rispetto alle rappresentazioni stereotipate del senso comune. Ovviamente, in un mondo che sta sgretolando la frontiera tra pubblico e privato il concetto di privacy è automaticamente problematico, esposto a una crisi di statuto epistemologico più che di giurisdizione e di prassi normativa. Di per sé, il fatto stesso che esista un concetto di questo tipo, che siano state codificate leggi e istituiti organismi di garanzia, significa che la privacy non esiste o che è fortemente minacciata nella sua stessa definizione e nel suo campo di applicazione. Ma − ripeto − l’insidia mi sembra più sottile.
Una volta c’era il Grande Fratello. Quello che ci guardava, sapeva tutto, ci teneva sotto tiro. Era l’ennesima riprova delle capacità mitopoietiche della letteratura, del fatto che un romanzo di per sé non eccelso potesse imporre all’immaginario contemporaneo una figura di straordinaria efficacia che intercettava (e in parte profetizzava) alcune inquietudini profonde del nostro tempo. Ma lì, quando è nato, il Grande Fratello era solo una sinistra parodia del Piccolo Padre: era l’equazione tra controllo e potere, la bieca ma in fondo semplice violenza del sistema, tra gelidi apparati biopolitici e squallide scenografie pseudo-staliniane. Si vedeva perfino il suo volto, con tanto di baffoni e sguardo magnetico, ingigantito e moltiplicato da un ingenuo culto della personalità. Forse, per un riflesso condizionato, ci capita ancora di pensare a Lui quando vediamo le telecamere a ogni angolo di strada, quando torniamo su un sito internet che ha memorizzato la ricerca precedente e ci propone prodotti simili che potrebbero interessarci. Ma in fondo è un’analogia fuorviante, il calmiere normativo dei luoghi comuni. Non è tanto il fatto che il genio del capitalismo abbia trasformato questo cupo incubo della Guerra fredda in un orgasmo da autoesibizione, nel miraggio di una rutilante vita in diretta sotto le telecamere, non tra le scenografie del socialismo reale ma tra quelle del mercato globale, con chili di trucco e mobili Ikea. Il punto è l’evoluzione morbida, la delega capillare, la moltiplicazione e la diffusione microscopica dei dispositivi (e dei soggetti) di controllo. A un altro livello, è esattamente lo stesso meccanismo che sta trasformando l’università e la scuola in grandi corporation burocratiche, dove si lamenta una subordinazione dei docenti ai tecnocrati quando invece il processo è molto più sottile, perversamente efficace: sono i docenti stessi che si stanno trasformando in burocrati. Non occorre nemmeno scomodare Foucault per capire che il potere si è minutamente ramificato e che la vecchia paranoia è un falso obiettivo, o forse un apparato di risarcimento simbolico. Per fortuna, o purtroppo, non dobbiamo più temere un Grande Fratello che controlla le nostre vite da qualche occulta centrale del potere. Perché quel controllo viene delegato a noi, alle nostre protesi tecnologiche sempre più invasive e potenti, a un sapere tanto più esteso quanto più incapace di far presa sul piano dell’esperienza. Ormai i piccoli fratelli siamo noi.
[Immagine: Charlie Brooker, Black Mirror, prima serie, secondo episodio (gm)].
Grazie, prof, per il suo articolo, che da ex insegnante in pensione (almeno il registro elettronico me lo sono evitato!) sottoscrivo in pieno. E’ vero, nella scuola vige il più completo disinteresse per i contenuti e un ossessivo controllo della forma. Ho sempre difeso la libertà d’insegnamento, provando per esempio molto piacere a leggere per intero i testi letterari con i ragazzi in classe, con una buona risposta da parte loro in termini di interesse e coinvolgimento, ma quello che interessava alla burocrazia scolastica e al dirigente era: quanto programma svolgevi, quali e quante verifiche assegnavi, come misuravi quel che avevano appreso ecc. Cose note, sento da lei penetrate perfino nell’università. C’è da dire che ho sempre continuato a lavorare come mi suggeriva la mia natura (e come me tanti insegnanti, per fortuna), ma che spreco di energia negli adempimenti burocratici. Mi auguro che una consapevolezza sempre più diffusa di quanto lei sottolinea nel suo pezzo inciti alla resistenza! Quanto al controllo… pervasivo. Nella mia scuola una impiegata della segreteria era capace di chiamarti negli uffici, a scapito della lezione iniziata, per dirti che una certa alunna si aggirava nel parco e non era entrata a scuola: prof, che dice, telefoniamo alla famiglia? Chiamo io o chiama lei? Poi è invalso il principio dell’sms da inviare automaticamente ai genitori in caso di alunno assente. Piccoli…
Pienamente d’accordo con Federico: come padre e come insegnante di letteratura, davvero su tutto (assurdità della burocrazia, peggiorata e non risolta dai mezzi informatici, nelle università come a scuola; deleteria ‘supplenza’ delle famiglie nella crisi della scuola; subdolo controllo sociale esteso a ogni livello – con risultati paradossali e spesso controproducenti, in ogni caso diseducativi). Con un ‘lo sappiamo, l’ha già detto Foucault’, tendiamo a dar scarso peso a fenomeni come questi: che invece davvero stanno cambiando la nostra vita (e, in parte, ai tempi di Foucault, quando eravamo ragazzini noi, erano impensabili).
Anch’io ho qualche perplessità sul registro elettronico: è molto utile per certi versi, inquietante per altri. Inoltre non elimina assolutamente la carta: dove insegno io (un istituto tecnico) assenze, presenze e giustificazioni sono gestite in entrambe le modalità, digitale e cartacea, l’una deva fare da riscontro all’altra. Arrivi in classe, fai l’appello e devi segnare gli assenti e annotare le giustificazioni sul registro cartaceo, poi sull’elettronico, con grande dispendio di tempo ed energia. Il registro personale del professore, invece, non esiste più: argomenti delle lezioni, voti e assegnazione di compiti sono solo sul digitale. Molti miei colleghi, dimostrando un commovente attaccamento a quell’oggetto tanto emblematico della nostra professione, si sono comprati a proprie spese un registro cartaceo o addirittura se lo sono creato, con l’aiuto del righello… io non arrivo a questo, però, alla vigilia del ricevimento genitori mi stampo la pagina coi voti, perché non di rado succede che manchi il collegamento internet, e allora, che gli dici ai genitori? Inoltre, programmi, relazioni, verbali dei consigli di classe, di tutto va fatta la stampa, in un tripudio di burocrazia e in uno spreco di carta superiore al passato…
Controllo ed autocontrollo, così come sfruttamento ed autosfruttamento, debbono coincidere: ecco la distopia socio-economica posta in atto per opera del “mostro mite” (laddove questo è ‘mostruoso’ perché produce oscenità, ma è ‘mite’ perché si presenta così attraente, avvolgente e affabile che è difficile resistergli). Del resto, è ancora vivo nella memoria il ricordo del precedente ministro della Pubblica Istruzione, il ‘drone’ Profumo (drone in quanto, esattamente come l’attuale ministro ed il relativo governo, telecomandato dai “mercati” e in quanto privo di qualsiasi contenuto culturale e ideale autonomo), allorché espose, nel corso di un dibattito in rete organizzato dal quotidiano “la Repubblica”, le sue idee in materia di politica scolastica: idee che riprendevano quelle formulate a suo tempo dall’impagabile Lombardi, con il quale Profumo condivideva la medesima estrazione e la medesima impostazione confindustriale. Da quel dibattito si poté apprendere, pertanto, che anche per il titolare del dicastero della Minerva, come per tutti i tecnocrati neoliberisti, l’informatica è la chiave risolutiva di ogni problema scolastico. Sennonché la goffa enfasi pubblicitaria con cui il ministro presumeva di annunciare, all’insegna del primato dell’informatica, cambiamenti epocali nel modo di studiare e di fare scuola, oltre ad emanare un forte puzzo di stantìo per i luoghi comuni cui attingeva, rivelava una preoccupante carenza nella comprensione dei processi specifici di insegnamento e di apprendimento, carenza che anche il ministro Carrozza non sembra per nulla intenzionato a sanare. I ‘droni’ che sia Monti sia Letta hanno piazzato al ministero della Pubblica Istruzione assicurano peraltro che faranno il possibile per introdurre Web e digitale nelle classi: “I libri si spostano sui tablet…si possono scaricare (non gratis, le cose hanno valore)…alla fine si risparmia, pur considerando l’acquisto dei tablet”. Come emerge da queste enunciazioni, è palese l’intento di fare della scuola un campo aperto agli investimenti e al ‘business’ delle imprese private, in questo caso di quelle che producono i tablet (tutte straniere). Ma per i ‘droni’ questo non è un problema: l’importante è che le scuole siano piene di tablet e che i genitori possano accedere al registro elettronico, anche se i cessi sono senza carta e senza tavolette.
Anche ‘sta storia dei tablet… ho visto sul sito di Repubblica una foto, che ritraeva, penso, la splendida realtà a venire, disgraziatamente non ancora realizzata: bambini di scuola elementare seduti in classe, ciascuno con un tablet posato sul banco, niente carta, niente matite colorate, niente lapis o gomma. I bambini sorridevano felici. E io mi domando: che ne sarà della manualità? E degli occhi di quei poveri bambini?
Non sono nostalgica né aliena dalla tecnologia. Penso però che tutto questo entusiasmo sia malsano, e che sia sbagliato pensare, o fingere di pensare, che un bel tablet sul banco risolverà i problemi della scuola. Riguardo poi alle superiori, e riguardo alle materie umanistiche. Si dice: “I ragazzi potranno cercare direttamente sul tablet…” e io mi domando: cosa cercheranno? Il testo della Divina Commedia? La biografia di Carlo Magno? Cosa potrà dare loro, questo, di meglio rispetto a ciò che gli dà il loro libro di carta? Sostituire la ricerca su internet all’apprendimento di nozioni ormai consolidate servirà realmente? Si devono ancora apprendere contenuti o basta navigare da un sito a un altro? Meglio googlare o sottolineare il buon vecchio manuale?
Certo, un compito importante della scuola è quello di aiutare i giovani a muoversi su internet distinguendo, per esempio, i siti attendibili, le informazioni sicure…
La diffusione delle tecnologie digitali non ha razionalizzato, non ha ottimizzato, non ha semplificato nulla (le divinità moderniste di Latour). Il mondo del lavoro avrebbe dovuto ricevere dal digitale uno sgravio uno sconto di pena: home-working, riduzione del tempo di lavoro… Questi gli annunci. In realtà ha “complicato” il lavoro lo ha esteso al tempo libero, lo ha moltiplicato, ha prodotto precarietà. La metafora della tecnologia come protesi è fallace, giustamente occorre investire maggiormente su altre come quelle della “delega” come dice giustamente Bertoni e Latour prima di lui. E credo sia utile non flirtare con i modernismi e le loro promesse.
Nel referto autobiografico che viene proposto all’attenzione si legge: “Alcuni giorni dopo ho anche tentato di esporre i miei dubbi nelle riunioni dei consigli di classe, ma ho intuito subito che giocavo la parte del rompiscatole; e se magari leggevo un consenso parziale e prudente negli occhi degli insegnanti, sentivo una greve massa di silenzio intorno a me, la disapprovazione (o peggio l’incomprensione) di genitori elettrizzati all’idea di poter finalmente monitorare l’andamento scolastico del figlio. Magari sono solo paranoico; magari la pensavano allo stesso modo […]. Fatto sta che nessuno ha replicato, e che alla fine l’insegnante ha allargato le braccia: ‘Tanto ormai è così. Non c’è niente da fare’”. In effetti, questo esempio di cronaca scolastica è altamente generalizzabile e mette in luce che il nucleo specificamente culturale delle riforme dell’istruzione negli ultimi decenni è il potenziamento e l’estensione del ruolo della famiglia nella vita della scuola, che implica, conseguentemente, il ruolo sussidiario dello Stato nella responsabilità della formazione dei giovani. Accade così che tutta una serie di ruoli in precedenza attribuiti allo Stato siano scaricati sulla famiglia, la quale viene presentata, ad un tempo, come il soggetto delle scelte di orientamento della canalizzazione scolastica, come il soggetto in funzione del quale viene orientata la stessa spesa pubblica nel campo dell’istruzione e come il soggetto con cui sono chiamati ad interloquire gli insegnanti nella definizione del progetto formativo. Ma vi è di più: la scuola diviene lo strumento ortopedico per operazioni di controllo, come quella di cui è menzione, che coprono l’assoggettamento della scuola alla performatività tecnologica del sistema sociale neoliberista ‘glocalizzato’ (globalizzato e localizzato). In altri termini, la scuola pubblica tende a porsi, in questa visione, come prolungamento ed estensione del ruolo educativo della comunità locale e della famiglia e la stessa relazione didattica si declina come una relazione determinata dalla famiglia la quale, in forza di quel ‘monstrum’ neoliberista che è la legge sull’autonomia scolastica, chiede e riceve un prodotto formativo corrispondente alle attitudini dei figli, conforme al suo contesto culturale e atto a riprodurre i suoi valori sociali. Il problema del ruolo della famiglia, che era effettivamente uno dei nodi irrisolti delle politiche scolastiche precedenti, viene così risolto sul terreno della ricerca di un nuovo patto tra la scuola e le famiglie: il rischio è però che, riconoscendo a queste la qualifica di proprietarie dei loro figli, la scuola si neghi come spazio pubblico di formazione alla cittadinanza e restringa il suo ruolo di istituzione portatrice di valori universalistici per divenire strumento localistico del mercato del lavoro e di una inedita “genitocrazia”, il cui sapore postmoderno rivela un forte retrogusto premoderno.
Inoltre, pur ponendosi nell’ottica della centralità della famiglia, occorre considerare che un simile modello educazionale (non educativo) appare fondato, ‘rebus sic stantibus’, sull’ipotesi controfattuale, invero quanto mai ottimistica, che la famiglia abbia non solo le competenze, ma anche l’intenzione di cooperare con la scuola praticamente a tutti i livelli. In tal modo il modello di scuola che emerge sembra essere quello che la identifica non tanto come la sede nella quale una comunità di professionisti ricerca, progetta e pone in atto strategie di insegnamento/apprendimento, quanto piuttosto come il centro di erogazione di un servizio a domanda individuale, in cui l’offerta formativa deve, ancora una volta, adeguarsi a richieste che si presume siano già nettamente definite. Orbene, non è necessario fare appello a raffinate analisi sociologiche per constatare che, in realtà, la tendenza prevalente è di segno opposto. Se è vero che il registro elettronico, in quanto ‘panopticon’ fondato sul connubio tra una scuola sempre più formalista e sempre più fiscale ed un familismo sempre più ottusamente securitario e tendenzialmente repressivo, può giocare in questa fase sul principale fattore del gioco socio-politico, ossia sulla paura, è altrettanto vero che tra le famiglie italiane è sempre assai forte la tendenza a delegare all’istituzione scolastica interventi educativi di cui un tempo esse erano le titolari esclusive. Sicché, se è concesso fare in questa materia un riferimento scherzoso (ma realistico), fra la mamma Doris Day, che nel film “Non mangiate le margherite” si offre di partecipare a tutte le attività parascolastiche dei propri figli, e il papà David Niven che, di fronte all’ennesimo tentativo di coinvolgimento operato dalla direttrice, risponde a quest’ultima: «Cara signora, la scuola è stata inventata perché per un certo numero di ore della giornata i figli stiano lontani dai genitori e i genitori dai figli», non vi è alcun dubbio che la famiglia media italiana stia dalla parte di David Niven.
Se finora la formazione delle nuove generazioni è spesso riuscita ad opera di volenterosi docenti innovatori, solo parzialmente riconosciuti, la prospettiva è ora ancor più desolante ed inquietante. Desolante perché impone nei fatti un ritorno alla pura e semplice lezione frontale e qualsiasi eventuale potenziamento formativo è posto in capo ai risparmi della scuola stessa. Inquietante perché alla luce della mole di impegni sistematicamente ‘delegati’ dal parlamento al governo si tende ad esautorare ogni prospettiva di tutela a livello sindacale e di promozione della professionalità a livello associazionistico. Il rischio è quello di una saldatura tra i processi di galoppante deprofessionalizzazione ed una miope tecnofilia (quando non tecnolatria) informatica. Il risultato è una ‘modernizzazione’ doppiamente conservatrice: sia perché separa le conoscenze culturali soggettive dalle condizioni economico-sociali a cui sono connesse, sia perché manca, in tal modo, l’obiettivo di una crescita consapevolmente critica di docenti e studenti, offrendo un campo fin troppo vasto a nuovi modelli, non importa se voluti o non voluti. La preoccupazione è allora quella di dover assistere ad uno spettacolo nel quale molti insegnanti sono (siano?) indotti, come osservava Spinoza a proposito degli uomini in genere, a “combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la propria salvezza”.
Caro Bertone, non ha per nulla abusato della nostra pazienza raccontando questa sua parte di autobiografia, perché non poteva aiutarci a coglier meglio di così il punto.
Io ho deciso di insegnare perché solo in questo mestiere pensavo – insegnando letteratura – di poter compiere e veder compiere in classe un gesto persuaso in se stesso, una protesta contro la Rettorica. (La lettura di Michelstadter mi ha segnato, come vede). Ma preciso: ogni tanto, nei momenti di grazia. Siamo poi solo poveri cristi, e questo Carlo non l’ha accettato. Infatti un insegnante dovrebbe accettare anche un poco di Rettorica, altrimenti tanto vale rifiutare semplicemente di entrare dentro un’istituzione. Però un po’ di verità va salvata. Anche qualcosa più che un po’.
Eppure gli insegnanti di fianco a me si trasformano un pezzo alla volta in burocrati, come in un orropilante film horror gli uomini si trasformano in zombie. Io con loro. Non c’è bisogno di spiegare perché, come funzioni questa minuta infiltrazione di certe logiche nel tessuto sociale, perfino nella psiche individuale. L’accenno a Foucault fa capire a tutti noi di cosa stiamo parlando.
Ma il punto è questo: Foucault ci aiuterebbe a capire, ma quanti hanno accesso ai suoi filosofemi? Ma, dice giustamente lei, non c’è bisogno di leggere Foucault. Però c’è almeno bisogno di spiegarlo a molti. Ma no, neanche questo: c’è bisogno di spiegare certi tratti della società che lui ha capito molto bene (l’autore non conta, Foucault sarebbe d’accordo). Dobbiamo riuscire a far capire in parole semplici cosa CI sta accadendo. (No, lo so, sto aprendo una voragine: impegno politico, coscienza delle masse, … quasi provo spavento). (Lo so, so anche questo: come si fa a spiegare cose sottili e complesse come queste con parole semplici?).
Provo a dire almeno questo. Lei parlava di sua “spocchia repressa”, che attribuiva agli altri genitori una compiacenza, se non entusiasmo, verso il nuovo registro, compiacenza ed entusiasmo che lei non condivideva. Io punto sulla sua spocchia repressa di intellettuale. Non la sto offendendo: tanto è anche la mia e poi in fondo è l’ipotesi migliore. Significa che lei ha visto male, in verità molti di quei genitori potrebbero essere dissuasi dalla grande illusione. Forse hanno solo bisogno che qualcuno dia loro coscienza. Con molta meno enfasi e messianesimo: che gli spieghi le cose sine ira et studio. Partiamo dunque dal presupposto che quella in realtà sia una “zona grigia” su cui agire.
Però non facciamo della lotta contro il registro di classe elettronico un feticcio (anche io sono abbastanza convinto che sia una lotta contro cui non vale la pena spendere energie, ormai). Se no sappiamo cosa capita: il cuore del problema va perso, i contendenti cominciano a erigere trincee contrapposte fra conservatori e progressivi…
Anche le cose che dice su Grillo e le rivoluzioni sono verissime, e se molti le capissereo forse non staremmo qui a constatare come sia possibile una così alta adesione della zona grigia a nuovi verbi salvifici. Ma non è questo che volevo ancora dire.
Volevo dire che la società del controllo sta devastando le coscienze dei ragazzi (squillo di trombe, qui: è arrivato il moralista). L’impossibilità di diventare adulti imparando a situare la propria identità tra conformità e trasgressione è completamente saltata, per le ragioni che dice lei (autonomia nei compiti, marinare la scuola, ecc…). Aggiungerei altri fattori di inquietudine.
E’ di quest’anno la norma che vieta il fumo nelle scuole. Che vuole farci, mica posso oppormi. Il fumo fa male. E’ brutto vedere allievi e professori che fumano insieme o, come sentii dire in una scuola, vedere “il professore che dà da accendere all’allievo”.
Ma quella che una volta era una trasgressione simbolica e antropologica ora è diventata un gesto vietato per ragioni di salute. Uno dei tanti episodi di medicalizzazione e patologizzazione cui assistiamo nella società attuale (quello dei disturbi specifici dell’apprendimento e dei bisogni educativi speciali è un altro capitolo dello stesso romanzo). Si dirà: fumino altrove, non a scuola. No, il punto è che si stanno reprimendo tutta una serie di vizi assurdi, cacciandoli lontano dal nostro sguardo come la polvere sotto il tappeto. Usciranno, esplodendo, da qualche altra parte. Malamente.
Sarà un filosofo fuori moda, ma Bataille, in quel meraviglioso libercolo di poche decine di pagine che è “Il dispendio”, illumina la presenza di quel residuo non razionalizzabile, non esauribile nel circolo dialettico perfetto e chiuso di tesi, antitesi, sintesi (maledetto Hegel…) che è nelle vite di tutti noi: energia in pura perdita, sfogo necessario all’esistenza, al nostro stesso bios.
Quando i ragazzi marinano la scuola (nella mia regione si dice “tagliare”), non fanno che dar sfogo a quell’energia in “dépense”. Fino a oggi. Perché da oggi li reprimeremo, occhiuti.
Ultimi aneddoti. Nella mia regione, Piemonte, il governo Cota si è inventato i test antialcol per i docenti. Con scuole che hanno i ben noti problemi finanziari, non vi dico quanto costa questa puttanata (scusate, mi è scappato). Ho girato parecchie scuole in questi anni. Mai conosciuto alcolizzati cronici fra i colleghi. In ogni caso li riconosci da lontano, di solito dall’odore. Se uno si fa un cicchetto prima di entrare a scuola forse andrebbe aiutato. Oggi invece gli si dà la caccia, e insieme a lui, si dà la caccia a tutti quegli altri insegnanti che magari hanno bevuto tre invece che una birra la sera prima fra amici. Poco importa che sul lavoro siano impeccabili: col mestiere che fai devi essere morale ed efficiente, guai a te…
Lo Stato ci obbliga a fare corsi di aggiornamento sulla sicurezza e sull’antincendio. L’impegno è di diversi pomeriggi. In alcune scuole viene diffusa in aula magna una voce registrata su cd che spiega le norme (giuro). Poi ci fai su anche l’esamino.
Mi auguro che non scoppino mai incendi o ci siano problemi seri di sicurezza in nessuna scuola, perché nessuno di noi saprebbe come affrontare CONCRETAMENTE i problemi.
Questa è scuola, signori.
Speriamo di resistere.
Pardon, Bertoni!
Bertoni, il suo articolo è splendido. Vorrei soltanto aggiungere – ed è ovvio ma è bene precisarlo – che in molti casi questo panottico multidimensione, rotante in cui a turno facciamo una volta i sorveglianti e l’altra i prigionieri, lo abbiamo reso possibile non tanto per via del progresso tecnico, quanto per via del mercato che si è sviluppato in ogni direzione. Perché il legame stretto e nefasto è sempre tra costi e benefici apparenti. E perché, stando al tema della scuola, se uno scarto nel progresso culturale che faccia leva sull’umano e sui mezzi a disposizione ti costa due, l’introduzione senza scopo e a freddo della tecnica che dia comunque l’apparenza del progresso culturale ti costa solo zero virgola uno. E siamo sempre alla forma e alla qualità della politica in questo tempo povero e sfortunato…
(Piccolo gioiello autobiografico. Nel paese accanto a quello in cui vivo, che conta la bellezza di novecento abitanti di cui la gran parte vecchi con poche possibilità di movimento, un sindaco, forzista o leghista non ho capito bene, e d’altra parte non c’è altra possibilità da queste parti, testa oppure croce, il sindaco ha fatto installare un sistema di videosorveglianza, telecamere installate sugli edifici e collegate a una rete comunale, attraverso il wi-fi per cui se uno ha accesso, mettiamo un assessore, un tecnico o lo stesso sindaco, può monitorare ciò che succede nella sola e desolata piazza del paese, attraverso un i-phone, o uno smartphone, non so bene – comunque guardando nel proprio telefonino. E nel frattempo, a pochi metri di distanza dalla piazza desolata, una biblioteca, molte migliaia di volumi, importante e utilissima considerata soprattutto la zona, una risorsa che è lì soltanto perché una nota critica morta recentemente ha donato tutti i propri libri, una simile cosa, la si lascia a se stessa e a due tre volontari che molto volenterosamente la tengono ancora in vita. Ma poi la si lascerà morire, è evidente, perché sai cosa c’è i soldi non ci sono e poi, biblioteca, puah roba da comunisti…! Mi fermo altrimenti incomincia la lista delle aberrazioni di provincia, che sono miniature di quelle nazionali. Chiedo scusa, tanti saluti…)
Piccolo mondo antico.
Telefono al liceo dei miei figli per sapere gli orari di ricevimento dei genitori. Risponde una bidella, che gentilmente mi spiega: “Lei viene qui da me, in guardiola. C’è un librone con tutti i nomi e le ore di ricevimento dei professori, si segna, e via.”
E il librone è proprio un librone: grande tipo registro dickensiano, rilegato in cartone, nero orbace, a righe…la bidella – anzianotta, col grembiule, la permanente, la ciabatta – te lo apre davanti, cerca i nomi col dito…poi ti segna con la matita, ti saluta, torna in guardiola al suo uncinetto…
In agguato, la lavagna elettronica, il tablet, il wifi, le infinite cavolate moderniste si sfregano i maligni elettroni.
Grazie per i commenti. Aggiungo solo che il registro elettronico è stato solo un pretesto, l’occasione che ha fatto condensare alcuni pensieri che mi ronzavano in testa da tempo. Quindi niente feticci o crociate, ci mancherebbe altro. E nessun atteggiamento luddista o antimoderno da parte mia, anche se penso sia sbagliato identificare automaticamente modernità e tecnologia, che può prestarsi agli intenti più normativi e reazionari. Nello specifico, non è tanto l’introduzione del registro elettronico che mi ha allarmato, ma il fatto che sia accessibile a me e agli altri genitori, con tutto quello che ne consegue. Per dire una banalità, il problema non è la tecnologia in sé (sono solo macchine, cose senza vita) ma l’uso che ne facciamo, e soprattutto l’uso che ci viene imposto da una visione tecnocratica e aziendalista delle istituzioni pubbliche, che per una serie di ragioni finiamo per interiorizzare e praticare meccanicamente. Chissà che non resti spazio, almeno, per qualche piccolo boicottaggio situazionista che metta in luce la bêtise della burocrazia. Ricordo che un mio collega compilò il registro delle lezioni in una lingua immaginaria di sua invenzione, e ovviamente nessuno se ne accorse…
Vediamo però anche gli aspetti positivi. Sul registro elettronico non potresti scrivere in una lingua inventata perché gli alunni e le loro famiglie, andando a cercare gli argomenti trattati e le lezioni assegnate, se ne accorgerebbero subito. In questo caso il registro elettronico offre un servizio ed è una forma di trasparenza.
Cara Marisa, il registro semplifica alcune cose (le assenze, le medie finali) e ne complica altre (la connessione può essere lenta, a fare alcune cose di fatto ci si mette il doppio del tempo…)
Sì, dare accesso ai genitori può anche significare trasparenza.
Ma il mito della trasparenza, o come si dovrebbe dire oggi nella Neolingua, “accountability”, è un’arma a doppio taglio, pericolosissima.
Siamo troppo occhiuti, dobbiamo tenere tutto sotto controllo. Siamo ossessivi. Ma questo l’ha spiegato bene Bertoni.
Aggiungo questo: è un ulteriore slittamento dalla sostanza alla forma. Prima bastava fare una bella lezione e scarabocchiare qualcosa sul registro. Presto potrebbe capitare che i genitori esigano anche di conoscere i contenuti della lezione. E’ in effetti un loro diritto. E dovrai curare di spiegarlo per benino, lo leggeranno terzi. E con quanta analiticità? e vorranno sapere se hai usato o no la Lim? e il testo della verifica, non è in effetti pubblico? e le domande che hai fatto nell’interrogazione, non lo sono anch’esse? Il fatto è che prima tutta quest’opera di trascrizione formale la facevamo solo nei momenti cruciali, per esempio nell’esame finale, sui verbali. Ora saremo costretti a farlo, probabilmente, sempre.
C’è bisogno di dire che il tempo potrebbe essere occupato in cose migliori, per esempio nella vecchia e bella lezione di italiano?
Saluti
Rispondo telegraficamente. In due precedenti interventi, ho espresso delle perplessità sul registro elettronico, sul dispendio di tempo, sulla burocrazia montante, sul fatto che non è assolutamente vero che si risparmia carta. Ma bisogna essere sereni e vedere anche ciò che c’è di buono. Non trovo nulla di male a render conto a famiglie e ragazzi di ciò che facciamo. Non mi farei paranoie eccessive, basta scrivere l’essenziale ed essere precisi. Certo, è lavoro in più.
In questo post si sollevano questioni molto serie; ma forse sono troppe questioni complesse, perché si possa discuterne in un post. Già non è facile discutere dell’impatto dei cambiamenti tecnologici sulle istituzioni educative e sull’educazione come attività. Se poi si discute di questo per parlare d’altro (per metonimia o per metafora), allora si rischia di complicare ulteriormente le cose. E non sono sicuro che questo sia utile.
Sono stato educato in scuole e università dotate di poche tecnologie e dove il personale docente e non docente era libero di gestire il proprio tempo secondo il proprio giudizio ed era sottoposto a pochi controlli e pochi standard. Adesso lavoro in un’istituzione educativa dove la tecnologia ha un ruolo centrale e il personale docente e non docente è sottoposto a molti controlli e rigidi standard. Durante questi anni ho sperimentato e riflettuto sui due modelli e sulla transizione in corso; non ho ancora le idee chiare. Per discutere di queste cose o agire su di esse, trovo però sia meglio stare dentro la realtà ed evitare l’atteggiamento così bene identificato in questo passaggio del post, che vorrei citare interamente:
“La realtà ci cambia sotto i piedi ma non ce ne rendiamo conto; ci chiediamo perfino dove eravamo noi mentre tutto accadeva, e l’unica risposta che troviamo è una sterile nostalgia sentimentale per il buon tempo che fu, quando si telefonava con il gettone dalla cabina o si verbalizzavano gli esami con carta e penna.”
I rischi della tecnologia usata come eccesso di controllo, oppure come creazione di mito del controllo sono stati già ampiamente detti, e non ci torno. Vorrei quindi aggiungere una timida voce se non a favore (del registro elettronico, della tecnologia o quant’altro – del resto, l’ha già ben detto nella sua pur breve replica l’autore del post, è molto questione di atteggiamento, non di medium in sé), diciamo di perplessità rispetto all’elevare un coro di voci di proteste (intellettualmente motivate e pure condivisibili, peraltro) quando si parla di innovazione tecnologica a scuola.
Perché forse sfugge che la scuola italiana è ancora formata da un discretissimo numero di docenti che nei fatti non usa la tecnologia, né la ritiene, in alcuna forma, una componente significativa né della propria esistenza, né di quella di chi sta loro intorno. Cioè, in altre parole, vive ancora molto al di fuori dalla società nella quale pur ricopre il ruolo di formatore dei cuccioli di uomo.
Non farò esempi, ciascuno li conosce da sé: resta il fatto che mentre in altri settori della P.A. è stato fatto un lavoro di immigrazione tecnologica di base già quindici anni fa, la scuola, e in particolare la componente docente, ne è rimasta fuori, in un verde pre-mondo assai simile alla foresta di Fangorn (senza nemmeno essere tutti Barbalberi, peraltro).
E’ giusto? E’ sbagliato? Non lo so. Mi pare scollato dal mondo, in ogni caso. E per questo, in una istituzione educativa, non mi piace.
Sullo specifico degli esempi citati, registri elettronici e tablet, posso dire che, rispetto al primo caso, basta procurarsi una buona connessione (non è difficile, né costoso) e, per esempio, decidere, prima di aprire l’accesso ai genitori, di sperimentare per un anno (lo stiamo facendo nella mia scuola) l’uso del registro come strumento che semplifichi la vita. A noi la sta semplificando, senza eccessi. Non ci vuole molto per farlo, basta un preside sensato.
In assoluto, non sottovaluterei però le potenzialità di colloqui a distanza etc in contesti (sono per esempio il 70% degli istituti superiori, che NON sono licei) nei quali i genitori non possano venire a colloqui per serie e motivate ragioni che si chiamano: orari di lavoro, distanza senza patente und so weiter. Io lavoro in una scuola il cui bacino di utenza ha un raggio (un raggio) di 40 km e assicuro che l’uso della tecnologia non serve a creare piccoli fratelli ma genitori attenti pure a distanza.
Per quanto riguarda i libri e i tablet, dico solo che da noi li stiamo sperimentando quest’anno.
Costo libri di una prima solo cartacea: 410 Euro (se nuovi ovviamente). Costo libri nella prima-tablet: 389 Euro, di cui 300 di tablet variamente agevolati (dietro presentazioni certificati etc). La quota di 89 euro comprende: copia e-book; copia pdf; copia cartacea rilegata. Secondo me, messa in questi termini rigorosamente economici, non c’è storia.
E’ opportuno rammentare, a fronte di approcci al tema che si sta discutendo meramente pragmatici e settoriali o politicamente ingenui e tendenzialmente acritici, che le strategie educative delle forze neoliberiste, attuate con le riforme dei sistemi scolastici nazionali, costituiscono parte integrante del progetto neoliberista. In questo senso, la questione del registro elettronico è veramente un ologramma istruttivo ed emblematico di tali strategie. Occorre quindi rivolgere l’attenzione, per comprenderne il significato e la funzionalità, ai caratteri distintivi di tali politiche, poiché esse rappresentano un tentativo importante di dare risposta alla crisi della forma-scuola. Questi caratteri possono essere compendiati in cinque punti: qualità, diversità, scelta, autonomia scolastica, affidabilità. Alcuni di essi, ad esempio l’autonomia scolastica, sono comuni, come è noto, alle politiche dei governi ispirati da un liberismo più temperato. Le forze neoliberiste più coerenti, dal canto loro, pongono un accento più deciso sul mercato come meccanismo di regolazione sociale e sulla trasformazione dell’istruzione da bene collettivo in bene privato con la correlativa destrutturazione dei sistemi scolastici nazionali ereditati dalla fase precedente del capitalismo, cioè, in sostanza, con la destrutturazione della scuola di massa, responsabile, secondo tali forze, dell’abbassamento dei livelli qualitativi della formazione a causa di un egualitarismo tanto astratto quanto antieconomico. Come dimostra la centralità che, all’interno delle strategie educative promosse dalle forze neoliberiste, ha la libertà di scelta, quella a cui si assiste è, a giudizio degli studiosi più accreditati, la cosiddetta “terza ondata”, che segna l’avvento della “genitocrazia” e fa séguito alla prima, caratterizzata da una visione della scuola come strumento di riproduzione delle gerarchie sociali esistenti, e alla seconda, legata all’affermazione dei princìpi della meritocrazia.
Sennonché, dal punto di vista teorico, la trasformazione più importante che la globalizzazione neoliberista determina è quella che si compie sul piano culturale con la subordinazione del discorso educativo al discorso economico, subordinazione che si può anche definire, usando un termine tratto dalla critica di Habermas alla società occidentale, come “colonizzazione” del discorso educativo da parte dell’economia. La nuova grammatica che tale colonizzazione istituisce è fondata sul culto dell’efficienza, sul sistema della ‘qualità totale’ (e, quindi, sul relativo accreditamento e sulla certificazione di qualità della singola scuola), sulla ‘deregulation’ anche in campo educativo e sulla equiparazione degli utenti del servizio scolastico ai consumatori. Così la teoria del “capitale umano”, che è sottesa ad un simile approccio, una volta identificati gli studenti con i clienti o con i prodotti e la scuola con l’azienda produttrice, inquadra i rapporti fra produttori e consumatori in un’ottica meramente economica: la scuola ha un fine economico (quello di formare la forza-lavoro), opera secondo modalità economiche (ossia sulla base della concorrenza tra scuole e all’interno della singola scuola) e produce la merce-istruzione. È evidente come l’applicazione del linguaggio del mercato e degli scambi mercantili sia l’effetto della potenza ‘all-pervading’ della forma-merce non solo all’interno dell’economia, ma all’interno dell’intera società: non è eccessivo affermare che ciò segna il passaggio da un’economia di mercato ad una società di mercato (nel linguaggio marxiano ciò corrisponde al passaggio dalla fase della ‘sussunzione formale’ alla fase della ‘sussunzione reale’ delle varie sfere sociali da parte del capitale). Ma è altrettanto evidente che un siffatto economicismo, se è organicamente solidale non solo all’individualismo proprietario e ad un’antropologia di tipo smithiano-bentamita, confligge inevitabilmente, oltre che con l’idea della scuola come servizio pubblico e come educazione alla cittadinanza democratica, con la libertà di insegnamento sancita dall’articolo 33 della Costituzione. Occorre infine considerare che, se è vero che la scuola è (e io sono convinto che debba essere) cognitivamente e metodologicamente lenta di fronte ai processi di accrescimento e accelerazione della massa di conoscenze scatenati dalla rivoluzione informatica e telematica, è ancor più vero che, non essendo essa il luogo della espansione, della circolazione e della interconnessione, in forme sempre nuove, delle conoscenze, bensì il luogo in cui alcune conoscenze vengono trasmesse e classificate, le conoscenze offerte dal mondo esterno sono qualitativamente inferiori a quelle scolastiche, poiché sono ‘deboli’, scarsamente codificate e grammaticalizzate. La scuola è dunque inconciliabile con la velocità e con la flessibilità operazionali, ossia con quegli automatismi, esaltati dagli artefici della sua destrutturazione, che sono diretti a distruggerne la funzione educativa, come ha ben argomentato Lucio Russo nel suo sempre attuale saggio intitolato “Segmenti e bastoncini”, mettendo in luce la progressiva deconcettualizzazione dell’insegnamento praticata dalla scuola italiana.
@Michele Alberto
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