di Peppino Ortoleva
Credo di non essere il primo a notare la presenza crescente nella conversazione, in particolare ma non solo delle giovani generazioni, della parola bello riferita non tanto a singoli oggetti, tanto meno specificamente artistici, o a paesaggi, quanto a realtà complesse e mete di viaggio, come un Paese, una regione e soprattutto una città. Quante volte capita di ascoltare, e anche di partecipare a, confronti e perfino animate discussioni sulla maggiore o minore bellezza di una città rispetto a un’altra; e di constatare tra l’altro, nonostante l’intensità del dibattito o forse a confermarla, la difficoltà di individuare precisi termini di comparazione.
Naturalmente il tema della “bella città” ha una sua lunga storia ma credo che raramente sia stato così pervasivo nella conversazione corrente, anche perché ci troviamo di fronte a generazioni per le quali il viaggiare costituisce uno dei pochi e principali lussi che fanno da controbilanciamento alle condizioni difficili del vivere, per le quali il “dove sono stato” è spesso una delle poche esperienze di vita da esibire per orgoglio. Mi è capitato più volte di intervenire in questo genere di discussioni, per chiedere agli interlocutori che cosa per loro fosse una “bella” città, e in generale ho avuto delle risposte piuttosto generiche, prevalentemente orientate sul “ci si sta bene”, “non so, c’è un clima che mi piace”, “appena arrivo lo sento che sono a…”.
L’interessante forse non è tanto provare a spiegare che cosa si intenda veramente per bello in questo caso, ma piuttosto cercare di effettuare una sorta di smontaggio degli elementi che convergono nel dar vita alla sensibilità e al gusto (seppure in sé caleidoscopico) di cui quest’idea di bello sono espressione.
1. Una prima componente di questa sensibilità possiamo farla emergere in un esempio apparentemente marginale ma secondo me parlante. Mettiamo a confronto due diversi modi di rappresentare la visita a una città e insieme di guidarla, uno dominante fino a trenta-trentacinque anni fa (è proprio il post-68 il punto di partenza del cambiamento di sensibilità di cui parlo), l’altro prevalente oggi. Mi riferisco alla sostituzione del paradigma dominante della guida turistica, tra la forma classica , di cui i Baedeker sono stati il paradigma e di cui tuttora, per restare al caso italiano, i volumi del Touring rappresentano un eccellente esempio, con un nuovo tipo di guida che si è imposto sul mercato negli ultimi quindici-vent’anni e di cui è un esempio trainante la Lonely Planet (ma il modello è talmente vincente che sono molte le collane che seguono una linea simile).
Le guide del Touring, nella tradizione dei Baedeker, facevano e fanno riferimento a un modello di visitatore “ideale” che si suppone abbia alcune solide nozioni di base di storia e soprattutto di storia dell’arte, e sia disponibile a fare propri i giudizi della critica accreditata. Il sistema degli asterischi (che è stato ripreso dalla critica cinematografica, a fini non dissimili) indica le priorità da seguire nella scelta dei luoghi, ed è basato su un consenso critico solido e a volte anche un po’ conservatore. Anche se per ogni nuova edizione si tiene conto delle nuove valutazioni della critica, e in generale dello stato degli studi, non c’è spazio per giudizi soggettivi degli autori, se non implicitamente e rispettando la retorica dell’obiettività. Inoltre e soprattutto, queste guide propongono prevalentemente itinerari visivi e sequenziali. Presuppongono un visitatore che viaggia per vedere, usando lo sguardo come senso primario, se non unico. E un visitatore che guarda una serie di luoghi e una serie di opere in successione. Come il museo tradizionale (cioè, in realtà, tardo-ottocentesco) è una sequenza di quadri e/o sculture, ordinate generalmente per secoli e nazioni in sale numerate, così anche le località piccole vengono presentate come “sequenze” di testi da percorrere in successione, mentre quelle più grandi o ricche di arte vengono suddivise in itinerari, anche questi numerati, da seguire a piedi individuando man mano le opere di architettura, scultura, eventualmente di pittura che si possono incontrare, e i luoghi storicamente rilevanti. In itinerari di questo genere, i ristoranti, indicati tipicamente in corpo minore e in una parte diversa del volume, o quanto meno in uno spazio distinto all’interno delle diverse schede di località, si presentano come pausa, un intervallo possibilmente buono e gradevole, ma parte di un’esperienza nettamente separata da quella della visita alle bellezze artistiche o anche paesaggistiche. Secondo questo modello, la città è tanto più bella quanto più è “ricca”, di opere d’arte e quindi di stelle; in subordine quanto più è coerente, il che significa che si presenta nel suo insieme come un oggetto di apprezzamento di tipo critico/artistico.
Se osserviamo ora le guide “di nuovo tipo”, ci rendiamo conto in primo luogo che fanno riferimento a un pubblico, o più precisamente a un modello di pubblico completamente diverso: fatto di persone con una grande varietà di interessi possibili anche se magari unificate da alcuni valori di base (la curiosità, il piacere della diversità, la socievolezza). I percorsi che queste guide propongono mostrano una minore attenzione ai valori critici generalmente riconosciuti, e una maggiore attenzione ai particolari sorprendenti, alle novità, alla varietà. Tendono a integrare le informazioni relative all’arte con quelle relative all’offerta musicale e teatrale, e il tutto con indicazioni dettagliate sui luoghi dove mangiare o bere, divertirsi: in sostanza presentano ogni città, o almeno ogni quartiere, come una realtà unitaria. E rispetto alla quale la vista non è necessariamente il senso prioritario, anzi spesso si ama introdurre un luogo a partire dagli odori caratteristici, privilegiando una sfera sensoriale generalmente trascurata. I diversi itinerari offerti a queste fasce di pubblico possono includere, in pari misura e senza soluzione di continuità, angoli caratteristici e suggerimenti di acquisto, chiese e ritrovi notturni, ristoranti e monumenti. In questa chiave, il prodotto artistico non è più un’opera che si trova dentro un luogo ma che nel suo valore potrebbe prescinderne almeno parzialmente; è parte integrante del luogo, e dalla sua collocazione trae, in misura non piccola, il suo senso.
Le “nuove” guide presentano i loro itinerari da un dichiarato, e a volte ostentato, punto di vista soggettivo, spesso ironico (in particolare verso i luoghi comuni, reali o presunti, del turismo “di massa”) e a volte anche polemico. La visita si presenta insomma non come una sequenza lineare di sguardi su singoli oggetti, ma un racconto complessivo del quale tutti gli oggetti entrano a fare parte.
Le “nuove” guide tendono a costruire, più che degli itinerari, dei percorsi narrativi: che contengono racconti di esperienze fatte, ma sembrano soprattutto proporsi come falsariga per i futuri racconti di chi la guida la usa, un po’ come la cartolina è stata a lungo il paradigma a cui si ispirano gli scatti fotografici effettuati on location.Percorsi narrativi che il web è venuto poi negli ultimi anni moltiplicando, costruendo attorno alle esperienze di viaggio, alle immagini fisse e in movimento che ne vengono tratte, delle situazioni di club, convergenti con quell’altro fenomeno centrale della vita estetica contemporanea che è il cult. In effetti si può parlare in queste guide, e a maggior ragione nell’epoca del web, di città “di culto” che si sovrappongono anche se non necessariamente coincidono con le “belle città”.
2. La contrapposizione tra i due modelli di guida ci permette di fare emergere delle innovazioni, certo, di marketing, certo, di retorica, ma io credo più sul fondo di gusto dominante e di “struttura del sentire” per riprendere la vecchia espressione di Raymond Williams. Quali sono le componenti essenziali di questo cambiamento? Schematicamente possiamo parlare da un lato di una crescente esigenza di personalizzazione, dall’altro di esaltazione dell’esperienza nel senso olistico del termine.
Per personalizzazione intendo qui il bisogno di accreditare il piacere dell’incontro con un luogo e in particolare con una città non a un modello ideale di visitatore magari ristretto numericamente ma “universale” idealmente, bensì al singolo, per quanto numericamente vasto e magari anche culturalmente standardizzato. E’ qui che incontriamo la connessione tra il processo di cui stiamo parlando e quell’altro fenomeno cui accennavo poco fa che è il cult. Per me capire il cult significa non tanto sforzarsi di definire un concetto quanto di individuare un messaggio di accompagnamento (si può tracciare un’analogia con il famoso messaggio-cornice che in Bateson accompagna il giocare, ma “messaggio di accompagnamento” allude al biglietto nella scatola di cioccolatini, che penso sia l’analogia più efficace). Il cult è una meta-comunicazione che accompagna un’opera come un luogo, una moda passata (è inutile ricordare il fenomeno vintage) come l’esaltazione di una figura poco conosciuta: Niklas Tesla può essere cult e non a caso al cinema può essere interpretato da David Bowie, Thomas Alva Edison no. Il messaggio di accompagnamento del cult non dice “guarda questo, è bello”, ma, con formula meno ingiuntiva e più colloquiale, “guarda questo, è mio”, e tendenzialmente “guarda questo, sono io”, con l’invito implicito “guardiamolo, è nostro; anzi siamo noi”.
Parlo di messaggio di accompagnamento anche perché le attività che accomunano i partecipanti a un cult comprendono un aspetto di messa in scena, di azione. “Guarda questo sono io”: è inscindibile da un problema di presentazione del sé, proprio di una fase in cui il medium come protesi-diretto prolungamento della persona è diventato letteralmente indossabile.
Ma è il cult è anche di un gesto di socializzazione, questo ci deve fare ricordare
– che nel cult è spesso incluso anche un sotto-messaggio seduttivo, in quanto il “noi” significa incontro e condivisione almeno potenziale proprio a partire dal primo “regalo”: dimensione seduttiva che troppo spesso si dimentica;
– che (aspetto importante ma che rischia di essere anche un po’ fuorviante) il cult può portare con sé anche una varietà di altri messaggi “di accompagnamento”, vere e proprie strizzate d’occhio, cosa che si presta a introdurre elementi ironici o decisamente parodistici.
L’estetica del cult non ha regole precise, è piuttosto una sensibilità diffusa ma esiste e ha una storia: uno snobismo potenzialmente di massa, dove tutti i piccoli gruppi sono in sé minoritari ma il fenomeno cult non lo è, e non ci sono insistenze sul fatto che lo sia. In altri termini la personalizzazione è l’altra faccia di una funzione socializzante. Se la cultura di massa classica portava con sé secondo Morin “l’accesso delle masse all’individualità”, il generalizzarsi del cult segnala insieme l’affermarsi di un diritto all’individualità e il continuo timore di vederla schiacciata dalla standardizzazione.
L’affermarsi della sensibilità cult e il passaggio di mentalità di cui sto cercando di ripercorrere le fila sono legati da molti nessi: l’affermazione del singolo come portatore dei valori-guida in opposizione alla figura prescrittiva del lettore-visitatore-spettatore ideale; la relativa arbitrarietà, perfino casualità, delle scelte; la dichiarata improduttività del tempo dedicato a questi scambi, che lo pone tra il gioco e appunto il godimento estetico.
3. C’è un altro aspetto, dicevo, nel mutamento di sensibilità del quale le guide turistiche e la conversazione socializzante sul bello delle città sono un segnale: è l’esaltazione olistica dell’esperienza. Le (non) definizioni della bella città che richiamavo prima sottolineano proprio questo: se la bellezza e il piacere di cui ci parlano non è scomponibile in elementi distinti, non è dicibile se non in modo assai vago questo non è certo dovuto a un ineffabile di fronte a cui l’io si arrenda, alla maniera del Sublime, ma al fatto che quello di cui si parla è avvertito in primo luogo come un “vissuto”. Altre forme di bello si guardano o si ascoltano, la città si vive, si può raccontare non descrivere, e sapendo che il racconto è comunque parziale perché la città è la sede e la fonte di un’infinità di narrazioni possibili, nessuna delle quali esaustiva.
Credo che l’esaltazione dell’esperienza come valore in sé sia un’altra componente della sensibilità emergente. E accenno qui molto schematicamente ad alcuni aspetti:
-la svolta in alcuni generi della cultura di massa verso forme di narrazione nelle quali è essenziale l’esperienza diretta, tanto più se connessa all’insieme dei sensi: non intendo soffermarmi sul reality show, ma sulla trasformazione profonda del documentario, che da genere dell’obiettività per eccellenza, rinuncia dichiarata alla soggettività, sta passando in alcune delle sue espressioni di maggiore successo all’esaltazione del vissuto personale, anche nelle sue anomalie. Soprattutto e non casualmente il documentario di viaggio. E’ il caso di Dans tes yeux, nel quale la non vedente Sophie Massieu ci accompagna in un giro del mondo fatto (per noi) di immagini ma nel quale il suo paradossale “punto di vista” ci fa leggere il mondo in modo sorprendente anche per il diverso quadro sensoriale che guida la percezione. In una direzione convergente va l’applicazione del linguaggio della graphic novel al reportage, che esalta non solo la soggettività della narrazione ma la rinuncia allo strumento apparentemente ovvio della ripoduzione meccanica;
-più in generale l’onnipresenza e soprattutto la disponibilità generalizzata degli strumenti di riproduzione audiovisiva portano con sé una banalizzazione di fatto del mediato, che costituisce l’autentico tramonto del secolo dei media, cosa che favorisce la ri-valorizzazione di tutto ciò che è “dal vivo” e a maggiore ragione di tutto ciò che è “dal vissuto”;
-d’altra parte e complementarmente dobbiamo considerare la superfetazione della documentabilità delle esperienze, che prolunga la rivoluzione della Kodak, elemento essenziale dell’estetica di massa del Novecento, e insieme la rovescia; se l’estetica della Kodak come faceva notare Sontag era prescrittiva, tendeva ad allineare il punto di vista del fotografo dilettante a quello del professionista, l’estetica della telecamerina mobile è ludica, moltiplica all’infinito i punti di vista possibili e ne fa la base e il linguaggio di moltissimi racconti: dal più realistico al più fantastico ma tutti potenzialmente destinati a circolare su Facebook, con l’ironia implicita ma anche il piacere del “dimostrare” propri del social network;
-il viaggio sta insieme emergendo al centro del transmedia story telling, luogo dove diversi linguaggi e infiniti punti di vista si combinano in un grande puzzle che alla fine è il mondo in quanto tale; uno story telling dove l’industria culturale si prolunga direttamente nell’autoproduzione e viceversa. E il bello alla fine è l’esperienza del viaggio in quanto tale: la città ne è insieme la sintesi e una tappa.
Se teniamo conto di tutte queste osservazioni, dire “questa città è bella” vuole dire a. ci sono stato; b. ci ho vissuto (non sono la stessa cosa); c. non tutte le esperienze che ci ho vissuto sono narrabili e d’altra parte se tornassi in questa città penso che potrei vivere molte altre esperienze che mi piacerebbe poter raccontare. Una “bella” città è un potenziale inesausto, come lo è il mondo, ma tanto più affascinante perché non ha la banalità che tante parti del mondo hanno. E’ un gioco non ancora giocato ma di cui si è intravisto il piacere possibile. Ed è il mio gioco.
4. Secondo Rousseau a furia di leggere romanzi le persone non sopportavano più di vivere in campagna e muovevano irresistibilmente verso le città: questo è un processo che ha attraversato gli ultimi due secoli per intero, e si è accentuato man mano che al romanzo si sostituiva il cinema e poi si aggiungeva la televisione. Non solo e non tanto perché i romanzi avevano luogo nelle città ma anche e soprattutto perché nelle città si potevano vivere i romanzi.
Il processo descritto da Rousseau ha preso gli ultimi due secoli e oltre. Ci sono delle specificità degli ultimissimi decenni, oltre quelle segnalate prima, che ci aiutano a capire il cambiamento di sensibilità che sto molto sommariamente tracciando?
Mi avventurerò rapidamente in alcuni temi che meriterebbero ben altro approfondimento.
L’ipersocializzazione del sociale
Uno riguarda il senso che attribuiamo alla città.
Oggi, proprio mentre la rappresentazione del sociale in termini di mercato puro sembra non avere alternative, siamo (soprattutto agli occhi delle persone che hanno meno di quaranta-quarantacinque anni) nei fatti davanti a una de-socializzazione della vita economica, con il denaro che produce denaro e le cose che producono cose, e l’economia che non ha più posto né per le persone (o almeno per percentuali agghiaccianti di loro) né per un sistema articolato di relazioni sociali. Questa de-socializzazione spinge l’economia verso un’area sempre sempre più desertificata del vivere. A tale processo però corrisponde quella che possiamo chiamare una ipersocializzazione della vita sociale, e non sembri un gioco di parole, una ricerca della rete non solo tecnologica ma psico-relazionale come bisogno in sé, non necessariamente finalizzato e in gran parte sottratto alle regole dello scambio.
In questo quadro la città, istituzione reticolare per eccellenza a cominciare dal sistema di sistemi che permette la sopravvivenza di chi ci abita, riscopre oggi più che mai un uomo letteralmente politikòs “per natura” come diceva Aristotele, che non è solo attratto dall’urbano secondo l’intuizione di Rousseau ma concentra sulla città insieme un bisogno profondo quasi una pulsione (come le api diceva sempre Aristotele tendono all’alveare) e io credo che la sensibilità al “bello” urbano sia un’espressione anche e soprattutto di questa pulsione, come il bello delle persone del sesso che ci attira. Se questo è vero, allora le espressioni spesso vaghe su perché una città ci piace potrebbero sottintendere in primo luogo un sentirle come il nostro alveare preferito, a partire da un bisogno che è simile tra tutti ma che (come accade per la pulsione erotica) si differenzia poi tra i soggetti.
Se questa chiave interpretativa è sensata, possiamo anche dire che oggi l’urbano in quanto tale tende ad assumere (altra componente della sua estetizzazione) un valore mitico-simbolico rispetto al quale la vita economica è insieme opposta e complementare. E’ opposta perché, come dicevo, progressivamente desertificata, e delocalizzata: quanto conta oggi la grande finanza nel paesaggio del vivere? Dove stanno i data farm di Google e a chi importa? Chi saprebbe localizzare dove sono le enormi concentrazioni industriali della Tata in India, e a chi tra i tanti che sono stati affascinati da Mumbay o da Bangalore, questo importa? Ma la vita della produzione e del mercato è anche complementare ai valori simbolici connessi all’urbano, perché nel mito delle grandi e belle città ci può essere una componente economica, non tanto concreta quanto essa stessa mitica: è comunque la stessa grande finanza che ha creato le global cities, Londra, New York e oggi Shanghai, anche se col tempo è diventata sempre meno visibile; molte città “creative” dalla Bay Area a Bangalore, alla stessa New York devono buona parte del loro fascino non tanto agli artisti quanto ai più celebrati “rivoluzionari” delle Information and Communication Technologies. Una totale de-economizzazione del sociale resta ancora oggi impensabile, forse anche sul piano estetico.
La rete e la città
Il web e la città si presentano come i due poli opposti e complementari (ma anche nel senso di poli elettrici tra i quali scorre una continua tensione) di questo processo iper-socializzante, la città diventa l’esperienza concreta della super-socialità immateriale propria della rete info-telematica, così come questa stabilisce una continuità del contatto che l’esperienza urbana non può avere (soprattutto quella delle belle città lontane dalla nostra).
L’esperienza del bello urbano è sempre più dipendente dalla rete per essere preparata, continuata, e anche resa narrabile. D’altra parte è significativo che l’esperienza estetica della rete sia sempre più “ambientale”, tenda cioè a configurarsi nei termini di uno spazio non tanto da esaltare per la sua “virtualità” secondo la retorica ciberspaziale di vent’anni fa quanto da vivere nei modi del viaggio fisico (anche se come ricordavamo prima proprio la sua immaterialità rende il “vero” viaggio fisico comunque un’esperienza auratica).
A differenza della banalità diffusa secondo la quale la specificità della rete starebbe nella produttività dell’utente, a me interessa sottolineare il movimento dell’utente stesso, la componente nomadica della sua percezione, che rende la rete simile a un viaggio e anche il viaggio simile alla rete. In questo senso il bello urbano e il bello della rete, per esempio l’esperienza estetica del navigare in You Tube, non solo si rispecchiano ma si danno senso a vicenda.
Inoltre, nella fase attuale il muoversi nella città e il muoversi nella rete, per così dire, si moltiplicano l’uno per l’altro, la città diventa un territorio attraversato con (e spesso per mezzo) degli strumenti forniti dalla rete, la rete diventa uno strumento sempre più direttamente funzionale al vivere corrente e in movimento; con la componente ludica che viene massimamente esaltata proprio da questo incontro: non a caso le app più scaricate per tutti gli apparecchi mobili dagli smartphone ai tablet eccetera sono appunto giochi.
Prima di chiudere un’ultima rapidissima osservazione: la nuova sensibilità centrata sul viaggio e sulla città nasce da un passaggio di mentalità profondo, che vede il mondo non come una grande unità riconducibile ad alcuni princìpi unitari, ma come una somma di differenze inesauribile, tutte portatrici di un proprio punto di vista, tutte irriducibili, tutte da valorizzare in proprio. Da questo punto di vista il valore “estetico” del viaggio implica un valore etico, che del resto è alla base di alcune delle forme descritte sopra dal documentario in soggettiva alla graphic novel , e lo stesso l’estetica della bella città: l’insieme delle esperienze inesauste si presenta anche un insieme di possibili aperture all’umano. Anche per questo la curiosità e la disponibilità verso ciò che non ci somiglia si presentano (lo abbiamo visto parlando delle “nuove” guide) come doveri. Con tutti i rischi che questo tipo di sovrapposizione tra sistemi di valori di diversa origine porta sempre con sé.
[Immagine: Gerhard Richter, Stadtbild (gm)].