cropped-Orelli.jpgdi Pietro De Marchi

[Due giorni fa è morto Giorgio Orelli (1921-2013). Quello che segue è il discorso che Pietro De Marchi, professore di Letteratura Italiana presso l’Università di Zurigo e maggior studioso di Orelli, ha pronunciato ieri durante il funerale del poeta ticinese, a Ravecchia (Bellinzona)(mg)].

Qualcuno si congratulerebbe con la manzoniana Provvidenza; altri preferirebbero evocare il montaliano dio del caso. Come che sia, per tutti noi che siamo qui oggi è stata una fortuna, chissà se meritata, di aver conosciuto e frequentato Giorgio Orelli. Ed è stato un privilegio avere goduto della sua amicizia, per un breve o lungo tratto della nostra vita.

Giorgio Orelli non amava molto ricorrere ai superlativi. I bambini sì, potevano usarli senza limiti, e dire “il mio nonno è morbidissimo”, il sasso “è calduccissimo”, “il rosa è bello perché è bellissimo”. Ma parlando tra adulti lo spreco di superlativi era sconveniente, perché incoraggiava l’enfasi e la confusione, e non la conoscenza vera e profonda. Non faremo dunque torto al suo senso della misura, alla sua affettuosa e ironica comprensione di sé e degli altri, e metteremo la sordina alle nostre parole. Ma andrà pur detto che Giorgio Orelli è stato un grande poeta, uno dei più grandi in lingua italiana negli ultimi settant’anni, e un grande maestro di letteratura e di critica.

In questi giorni di commozione e di raccoglimento, è quasi inevitabile che torni alla mente il celebre passo della Commedia, nel quale il pellegrino dantesco incontra il suo maestro Brunetto Latini e gli dice che, se il suo desiderio fosse pienamente esaudito, lui non sarebbe già escluso dal consorzio umano, ma vivrebbe ancora nella vita bella, nella vita serena: “ché ‘n la mente m’è fitta, e or m’accora, / la cara e buona imagine paterna / di voi quando nel mondo ad ora ad ora / m’insegnavate come l’uom s’etterna”.

A molti, nella Svizzera italiana e in Italia, Giorgio Orelli ha insegnato che cos’è la poesia, senza bisogno di alzare la voce o di salire in cattedra. Con le sue raccolte poetiche, da Né bianco né viola a L’ora del tempo, da Sinopie a Spiracoli, dal Collo dell’anitra agli ultimi testi editi in varie sedi, Giorgio Orelli ci ha fatto capire che un soffio della vita vera può posarsi su quella cosa inerte che è una pagina bianca solo se il poeta asseconda i meriti del linguaggio e riesce, nei momenti di grazia, ad avvicinare il suono e il senso. Allo stesso modo, con i suoi saggi di critica verbale, Giorgio Orelli ci ha mostrato che la lettura che rende davvero giustizia agli autori è la lettura lenta, quella che entra fin dentro le fibre delle parole, e scopre con pazienza i segreti di costruzione di un testo. E qui la sua ammirazione per Dante non aveva davvero confini.

Giorgio Orelli è stato per molti anche un grande amico, ed era un piacere e un divertimento rinnovato ad ogni incontro starlo ad ascoltare mentre discorreva di cose letterarie o del suo cerchio familiare, di sport o di politica, di funghi o di formaggi, con osservazioni acute e argute e ricorrendo ad aneddoti che raccontati da lui e con la sua gestualità si trasformavano in preziosi gioielli di narrativa orale. La sua cordialità e la sua umanità si rivelavano anche nel suo dono di saper comunicare con la stessa naturalezza con le persone di età e di estrazione più diversa. Il suo rigore morale, maturato in anni in cui occorreva saper scegliere, era quello di una persona aperta e franca, indipendente e intransigente. In questo, l’uomo Giorgio Orelli non era inferiore al poeta e allo scrittore.

Negli ultimi anni, chi gli è stato vicino e sapeva che una sua raccolta di versi era pronta o quasi pronta cercava, con tutto il garbo possibile, di convincere Giorgio Orelli ad affidarla finalmente a un editore. Qualcuno addirittura gli ricordava, un po’ per celia, quello che Alessandro Manzoni, citando Petrarca, ripeteva al suo amico parigino Claude Fauriel, per incoraggiarlo a portare a termine e a far conoscere il risultato dei suoi studi: “Non lassar la magnanima tua impresa”. Giorgio Orelli aveva già scelto il titolo del suo ultimo libro di poesie: L’orlo della vita. E anche in questo caso, come per L’ora del tempo, era stato Dante a suggerigli il sintagma che avrebbe dato un sovrappiù di senso all’intera raccolta. Ma non c’era nulla da fare: Giorgio Orelli sorrideva, sapeva bene, meglio di tutti, che il tempo era il suo maggior rivale, ma non si scomponeva più di tanto.

Questa vicenda, di un libro non pubblicato, perché forse non ancora perfetto in tutte le sue parti, stando al suo severo giudizio, ci fa comprendere tante cose di Giorgio Orelli e del suo modo di concepire la vita e la letteratura, nel loro giudizioso accoppiamento. La lezione più importante è che non si deve avere fretta. I libri, come disse una volta, “si fanno con la vita”, e dunque neppure l’approssimarsi della fine deve indurci ad assecondare pressioni esterne, per quanto forti.

E però qualcosa già conosciamo di questo libro che sarà, se edito, come ci si augura, il suo testamento poetico. Alcune anticipazioni sono comparse in riviste, in miscellanee, in plaquettes accompagnate da illustrazioni di artisti. L’ultima uscita pubblica di Giorgio Orelli nella sua Bellinzona fu a metà giugno, in occasione della presentazione di un libro d’arte che comprendeva due suoi testi. Il più recente, intitolato Ragni, verrà senz’altro giudicato, come parve subito a chi lo ascoltò letto da lui in quella circostanza, tra i vertici della sua poesia e della poesia di questi decenni, non solo in lingua italiana. Se per Leopardi Silvia era stata la “cara compagna dell’età mia nova”, i due microscopici “inquilini abusivi del soffitto” di casa, a Ravecchia, erano per Giorgio Orelli gli “strani compagni della mia vecchiaia”, e il loro scendere dall’alto penzolando nel vuoto portava il poeta a riflettere sul “peso d’essere,” sul mistero dell’esistere. A Giorgio Orelli bastavano anche due piccoli ragni neri immobili nel gran bianco del soffitto per viaggiare con gli occhi della mente, senza forzature, dalla realtà alla metafisica.

Oltre al ricordo della sua figura alta ed elegante, del suo sguardo sempre partecipe e curioso delle persone e delle cose, della sua conversazione schietta e inventiva, ci restano i suoi testi: le sue poesie e i suoi racconti; i suoi accertamenti verbali, così istruttivi anche per chi cerca di imparare qualche segreto dell’arte dello scrivere; le sue traduzioni poetiche, e anche i molti articoli e interventi sparsi su riviste e giornali, pubblicati in libri o cataloghi di mostre. Giorgio Orelli è stato così ricco di umanità e di poesia che, come lui stesso scrisse salutando il suo maestro Gianfranco Contini, “torneremo infinitamente a incontrarlo con riconoscenza e gratitudine”.

Chiesa di San Biagio, Ravecchia (Bellinzona), 12 novembre 2013

[Immagine: Giorgio Orelli (mg)].

3 thoughts on “Per salutare Giorgio Orelli

  1. «Nel mese a me più avverso, di novembre / tra incredibile luna e vapori / di svenevole azzurro / venne a me un azzurro più fermo. Sùbito fuori da Mendrisio, al bivio / per Varese. “Non ci siamo mai visti, ma / ci conosciamo, – disse – sono Isella”. / O azzurra fermezza di occhi di re / di Francia rimasti con gioia in Lombardia». Chissà perché, pensando a Giorgio Orelli e guardandone la foto che introduce il ‘post’, mi sono venuti in mente di getto, sia pure a parti invertite, i versi in cui Sereni descrive il suo commosso incontro con il filologo Dante Isella. D’altronde, come negare che circoli un”aria di famiglia’ tra i poeti e gli studiosi di poesia che, a partire da Domodossola (Gianfranco Contini), passando da Luino (Sereni) e da Varese (Isella), per giungere a Lugano (Orelli), hanno dato vita, spessore, novità e sostanza alla nostra cultura letteraria? In particolare, Orelli, così attento nell’auscultazione di ciò che anima le intime “fibre delle parole”, così ricco di grazia musicale nell'”avvicinare il suono e il senso” della poesia – come ben dice Pietro De Marchi -, si è caratterizzato, all’interno di quella ‘famiglia’, per una sua ironica forma di ambiguità, incorniciando l’essenza della propria condizione esistenziale nel paesaggio nebbioso e lacustre della sua terra. Lo ricordo a Gallarate, negli anni ottanta del secolo scorso, quando tenne presso la biblioteca civica una conferenza sulla poesia e, fra le molte cose degne di nota e di riflessione che consegnò all’attenzione del pubblico, vi fu anche la segnalazione di quello che a suo giudizio era, e forse è, il verso più bello della “Divina Commedia” (sempre all’insegna del binomio tra suono e senso): “La notte che le cose ci nasconde”. Poeta dalle solide radici (dantesca, manzoniana e montaliana), si imprime nella memoria di chi lo ha conosciuto con la forza, la nobiltà, la cortesia, l’eleganza e l’arguzia promananti, oltre che dalla sua figura di professore di lettere al Liceo Classico di Lugano, dalla sua personalità di gran signore. Se è vero, come canta il Foscolo nei “Sepolcri”, che «involve / tutte cose l’obblío nella sua notte» (ma guarda un po’: ancora la rapinosa sequenza ‘o-e, o-e, o-e’…), è pur vero che non possiamo rinunciare alla speranza che i poeti ci insegnino ancora «come l’uom s’etterna».

  2. Per chi, come il prof. de Marchi, ha potuto vivere accanto all’Orelli, la percezione rapinosa della perdita dev’essere profonda, il ‘terrore d’ubriaco’ montaliano.
    Per me, piemontese, che dalla Svizzera e dal Ticino ho imparato tante cose, c’è la rancura, il dispetto di un occasione a lungo mancata, quello di un incontro, di un dialogo, di un confronto e di una confessione che, leggendo le cose di Orelli, mi piaceva vanamente vagheggiare. Intuivo nel suo percorso di stile e di risoluzioni una traccia amica che mi scorreva accanto, la occasionalità (mainmise del Bene sul Male) di un mentore che oggi m’è crudelmente sfuggita e definitivamente negata.

  3. Buon viaggio poeta sensibile, hai coronato la mia laurea (“Il suono della poesia”) con i tuoi versi e mi hai scritto parole riconoscenti. Grazie

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