di Franco Buffoni
[Oggi, alle 15, nell’ambito del Pisa Book Festival, terrò una lezione dal titolo “Per una teoria soft della traduzione letteraria”. Ne allego qui una sintesi].
Con Mind si intende la stessa cosa che con Geist e con Esprit? Pravda significa Giustizia o Verità? Che cosa accade quando si traduce Mimesis con Imitazione?
“Io mi domando”, si chiedeva Céline nella lettera a M. Hindus del 15 maggio 1947, “in che cosa mi paragonino a Henry Miller, che è tradotto?, mentre invece tutto sta nell’intimità della lingua! per non parlare della resa emotiva dello stile…”.
Lo stile, per Céline, era dunque “intraducibile”, come – per Croce – era “intraducibile” la poesia. Sono posizioni che, facendo leva sul presupposto della unicità e irriproducibilità dell’opera d’arte, giungono a negare la traducibilità della poesia e della prosa “alta”. Tali concezioni sono l’espressione di un idealismo oggi particolarmente inattuale, contro il quale l’estetica italiana di impianto neofenomenologico (da Banfi a Anceschi a Formaggio a Mattioli) si è battuta (direi, vittoriosamente) partendo dalla constatazione che le dicotomie (fedele/infedele; fedele alla lettera/fedele allo spirito; ut orator/ut interpres; verbum/sensus; “traductions des poètes”/”traductions des professeurs”) – da Cicerone a Mounin – inevitabilmente portano a una situazione di impasse, configurando, da una parte, l’intraducibilità dello “stile” e dell'”ineffabile” poetico, e dall’altra la convinzione che sia trasmissibile soltanto un contenuto. Naturalmente il fatto che sia trasmissibile soltanto un contenuto è una pura astrazione, ma è dove si giunge partendo sia da presupposti “idealistici”, sia da presupposti “formalistici”.
Non mi pare che la situazione dicotomica di impasse muti analizzando successive quérelle, come quella tra Meschonnic e Ladmiral, alias tra sourciers e ciblistes, o tra una tendenza naturalizzante – “target-oriented” – che spingerebbe il testo verso il lettore straniero “naturalizzandoglielo”; e una tendenza estraniante – “source-oriented” – che trascinerebbe il lettore straniero verso il testo. Secondo questa impostazione, lo scontro tra scuole traduttologiche somiglierebbe a quello in atto nel mondo del restauro: farlo vedere il più possibile, o nasconderlo il più possibile.
Se si prescinde dalla simpatia che certe definizioni possono più di altre suscitare, credo sia chiaro che – proseguendo con una impostazione dicotomica – si aggiungono soltanto nuove coppie – come addomesticamento/straniamento, visibilità/invisibilità, violabilità/ inviolabilità a quelle da secoli esistenti: libertà/fedeltà, tradimento/aderenza, scorrevolezza/letteralità. Come avviene con Lawrence Venuti, autore di The Translator’s Invisibility, malgrado sia senz’altro di alto livello il suo costante riferimento a Schleiermacher e alla scuola ermeneutica novecentesca che a lui si ispira.
“Come riprodurre, allora, lo stile?” Il nocciolo del problema, a mio avviso, sta proprio nel verbo usato per porre la domanda: riprodurre. Perché la traduzione letteraria non può ridursi concettualmente a una operazione di riproduzione; essa dovrebbe piuttosto essere considerata come un processo, che vede muoversi nel tempo e – possibilmente – fiorire e rifiorire, non “originale” e “copia”, ma due testi forniti entrambi di dignità artistica.
Uno studio fondamentale a riguardo è Il movimento del linguaggio di Friedmar Apel. Il concetto di “movimento” del linguaggio nasce dalla necessità di guardare nelle profondità della lingua cosiddetta di partenza prima di accingersi a tradurre un testo letterario. L’idea è comunemente accettata per la cosiddetta lingua di arrivo. Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire. Il testo cosiddetto di partenza, invece, è solitamente considerato come un monumento immobile nel tempo, marmoreo, inossidabile. Eppure anch’esso è in movimento nel tempo, perché in movimento nel tempo sono – semanticamente – le parole di cui è composto; in costante mutamento sono le strutture sintattiche e grammaticali, e così via.
In sostanza si propone di considerare il testo letterario classico o moderno da tradurre non come un rigido scoglio immobile nel mare, bensì come una piattaforma galleggiante, dove chi traduce opera sul corpo vivo dell’opera, ma l’opera stessa è in costante trasformazione o, per l’appunto, in movimento nel tempo. In questa ottica, la dignità estetica della traduzione appare come il frutto di un incontro tra pari destinato a far cadere le tradizionali coppie dicotomiche, in quanto mirato a togliere ogni rigidità all’atto traduttivo, fornendo al suo prodotto una intrinseca dignità autonoma di testo. Un principio già anticipato da Blanchot attraverso l’immagine della “solenne deriva delle opere letterarie”.
Si potrebbe persino affermare che il movimento nel tempo, in questo processo di traduzione letteraria, possa avere inizio prima ancora della redazione della stesura “definitiva” dell’”originale”, allorché al traduttore è possibile accedere anche all’avantesto (cioè a tutti quei documenti da cui il testo “definitivo” prende forma), impadronendosi così del percorso di crescita, di germinazione del testo nelle sue varie fasi. A riguardo Pareyson parla di “formatività” del testo; un poeta potrebbe parlare di “adesione simpatetica”, da parte del traduttore, non tanto al testo finito e compiuto, quanto alla miriade di cellule emotive che lo hanno reso possibile.
Il testo, dunque, si muove verso il futuro all’interno delle incrostazioni della lingua, ma anche verso il passato se si tiene conto degli avantesti. Si pensi agli ottantamila foglietti da cui provengono le quattrocento pagine del Voyage au bout de la nuit di Céline, alle Epifanie da cui discende il Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, ai Cahiers su cui si forma la Recherche… E questo nella consapevolezza della stratificazione delle lingue storiche. Un concetto che Bianciardi esemplifica con chiarezza “architettonica” all’inizio della Vita agra, allorché descrive il palazzo della biblioteca di Grosseto. Che in precedenza era stata casa insegnante dei compagni di Gesù, e prima ancora prepositura degli Umiliati, e alle origini Braida del Guercio… .
Trasferendo al linguaggio questa descrizione si ottiene l’effetto-diodo, come osservando dall’alto una pila accatastata ma trasparente di strati fonetici e semantici.
In estrema sintesi, dunque, la proposta per una teoria soft della traduzione letteraria consiste nella considerazione unitaria di due grandi tradizioni traduttologiche: quella estetica e quella linguistico-teorica. Insieme a costituire l’ossatura della traduttologia contemporanea. In un processo che può svilupparsi armonicamente attraverso l’interazione di cinque fondamentali concetti: il concetto di ritmo, quello di avantesto, quello di intertestualità, quello di poetica e quello di movimento del linguaggio nel tempo.
[Immagine: Andreas Gursky, Biblioteca (1999) (gm)].
condivido in pieno, fermo restando che a decidere poi è il valore di chi traduce.
“Nessuno infatti mette in dubbio la necessità di ritradurre costantemente i classici per adeguarli alle trasformazioni che la lingua continua a subire”.
Mi piacerebbe che l’autore o uno zelante commentatore chiarisse e motivasse questo punto, a mio avviso molto meno banale di quanto possa sembrare.
Fuori dai diritti d’autore, si continua a tradurre per far cassa e sfogare un impellente bisogno di espletare curatele, non certo per adeguarsi alla lingua dei lettori (quale lingua? quali, e quanti lettori? e perchè poi dovrebbe essere così necessario fare in modo che si incontrino a scadenze programmate?)
In regime di copyright, altro che urgenza, altro che costante necessità: la traduzione è un impresa titanica.
“la traduzione è un impresa titanica”
vedo che lo è anche scrivere correttamente nella propria lingua.
Tema davvero molto interessante. Dal mio punto di vista, poiché una lingua esprime il modo con cui chi la parla guarda e decodifica il mondo, è impossibile una traduzione che riproponga al lettore straniero la copia esatta dell’originale: perciò ogni traduzione è un’interpretazione, una riscrittura (si pensi, in questo senso, alla magistrale opera di Calvino sui testi di Queneau). Difficile stabilire i confini della fedeltà al testo tradotto, visto che tradurre è sempre un po’ tradire.
Nella mia modesta esperienza di traduttore casuale di poesia dall’inglese, solo un poeta di almeno pari livello puo’ tradurre (sentire + smontare + re-codificare in altra lingua al minor costo possibile) un altro poeta. Saluti. GiusCo.
@ Il fu GiusCo
non dimenticherei il comune sentire, il livello non riuscirei a quantificarlo.
@ Franco Buffoni, buon lavoro – come augurio. La dimensione “avventurosa” di penetrare un altro mondo ed arricchire il proprio, la traduzione è necessaria, relazionale, trasforma: “un poeta potrebbe parlare di “adesione simpatetica”, da parte del traduttore, non tanto al testo finito e compiuto, quanto alla miriade di cellule emotive che lo hanno reso possibile”, per me questo è decisivo.
Ringrazio per questi interventi. A Un lettore posso rispondere che sì, suo piano pratico-editoriale, i suoi argomenti sono gli argomenti di cui discutere. Occupandomi di teoria della traduzione, preferisco abbracciare una speculazione di tipo estetico, che qui per altro sono riuscito solo a schematizzare. Ma se ai lettori interessa posso in futuro proporre altri post sul tema.