[All’inchiesta sul futuro della letteratura hanno partecipato anche Giancarlo Alfano, Alberto Casadei, e Filippo La Porta. Le domande cui Massimo Raffaeli risponde sono queste].
1) Una volta, entrando in una grande libreria, mi è venuto in mente che la foresta di simboli di cui dice una delle poesie più famose di Baudelaire poteva attagliarsi a quella distesa di libri. Di merci, perché di questo noi stiamo parlando. Di qui la domanda, che è una duplice domanda: cosa significa formulare un giudizio critico su una merce? Ovvero, più precisamente: che cosa riscatta, parzialmente o integralmente, una merce dal fatto di essere tale anche nel caso della letteratura? La mescolanza dei generi, la ormai obbligatoria contaminazione tra l’alto e il basso dell’immaginario e delle relative scritture, complica le cose in quanto le rende paradossalmente più facili proponendo una immane quantità di oggetti omogenei. Laddove tutto è mid cult, come un tempo si diceva, più nulla lo è, o viceversa. Questo fatto obbliga alla fatica di Sisifo perché carica di ulteriore responsabilità il lavoro primordiale della critica, vale a dire il “distinguere” fra qualità individuale e media generale, un compito da cui invece esonerava l’antico regime gerarchico, il quale separava nettamente letteratura di ricerca e produzione di consumo (con la parziale eccezione della poesia, che resta anche oggi in uno stato di clandestinità o semivisibilità, ora percepibile come una residua griffe aristocratica ora invece come un tratto marginale e recessivo, per così dire ‘ a perdere’, della produzione). Con le buone intenzioni e i meriti relativi all’allargamento e persino alla democratizzazione del cosiddetto Canone, credo che i cultural studies e i postcolonial studies siano in realtà corrispettivi della proliferazione libraria che diciamo postmoderna, perché descrivono, decostruiscono, propagano la forestazione intellettuale ma molto raramente (e qui mi viene il nome di una grande eccezione, Edward Said) si pongono il problema, statutario e obbligatorio per la critica, del “distinguere” per “valutare” e “giudicare”: quando mettono sullo stesso piano un reperto della cultura materiale e un romanzo di Conrad senza marcare una differenza strutturale e una gerarchia qualitativa, allora il giudizio critico viene semplicemente eluso, rimosso, con la stessa procedura tautologica che assimilasse, sul quadrante occidentale, che so, il design della Coca-Cola a un pannello di Jackson Pollock.
Fatto sta che se da una parte la critica ha molto affinato la sua procedura tecnica, dall’altra non ha più, rispetto a ieri, alcun mandato sociale a cui rispondere. Il critico è parte del mercato di cui osserva la spettacolare esorbitanza. Egli ha due chances immediate, opposte e complementari: farsene più o meno dignitosamente complice divenendo un pubblicitario o un agitprop dell’industria culturale, oppure ritrarsi e chiudersi in un lavoro puramente storico-filologico che sdegni il mercato, o si illuda di farlo, da una distanza astrale. Ma tra l’opportunismo mediatico e la clausura specialistica c’è forse una terza via, la più impervia e la meno battuta: provare, volta a volta, caso per caso, a distinguere in un’opera un contenuto di verità o di semplice necessità dall’inerzia e dall’opacità della merce che la contiene. Il che equivale a domandarsi, per usare un lessico arcaico, cosa e quanto all’interno di essa sia valore d’uso o valore di scambio. Per almeno tentare qualcosa di simile (mi è venuto da dire una volta, pensando a una clausola di Andrea Zanzotto) noi non abbiamo più appigli di quanti non ne avesse il Barone di Munchausen.
2) La mia impressione è che il flusso narrativo, ad ogni livello e attraverso qualunque canale, abbia quasi totalmente surrogato e oramai sostituito il regime discorsivo e argomentativo che dovrebbe essere appannaggio di una società e della sua pubblica opinione. Ne è spia, all’interno della letteratura italiana, l’equivoco che assimila il romanzo alla narrativa tout court, mentre quasi tutte le opere che in Italia recano sul frontespizio la parola “romanzo” non sono romanzi ma, appunto, opere di varia narrativa. (Che la nostra letteratura da sempre ne abbondi, a partire dalla grande novellistica, mentre resti gravemente deficitaria nella forma-romanzo, ne è riprova ulteriore). Che cosa distingue narrativa e romanzo? La sistematica immissione di elementi riflessivi, argomentativi, saggistici, nella linearità dell’inventum, cioè nella vicenda raccontata. Chiedo scusa per la banalità, che purtroppo non sembra essere più tale: cosa resterebbe dei Promessi sposi se si limitassero alla peripezia di un matrimonio impedito? E ancora: perché Manzoni, dopo un lieto fine che fu per decenni la gioia di tutte le professoresse democristiane, sente il bisogno di gelare il lettore e di riaprire il contenzioso con l’appendice della Colonna infame? A differenza della narrativa, il romanzo è il genere che ha incorporato ogni possibile modalità del discorso critico. Se oggi, nonostante una crisi durissima, l’Occidente crede ancora con Candide al dottor Pangloss che lo persuade di vivere nel migliore dei mondi possibili, è naturale che si appaghi di tante belle storie più o meno intriganti, più o meno edificanti. Storie che a tutto possono servire meno che a pensare. Un nostro scrittore, Franco Cordelli, ha mostrato nel romanzo Il Duca di Mantova (2004) la fattispecie italiana di tale pregiudizio narrativo, con l’apoteosi di un Signore (padrone dei mezzi televisivi e perciò del suo stesso paese) nel cui corpo glorioso confluiscono tutte le storie possibili che poi, di riflesso, si dipartono da lui per tornare alla folla plaudente nei modi di una immonda, universale, eucarestia: purtroppo il romanzo di Cordelli attende ancora i suoi lettori.
3) Non so se sono in grado di rispondere alla domanda, non ho le competenze multidisciplinari che ci vorrebbero. Posso immaginare che anche questo fenomeno discenda da un generale deficit del pensiero critico. Ricordo, innanzitutto, che l’etimologia di “storia”, teste Tucidide, rimanda alla “indagine” e cioè a un lavoro eminentemente intellettuale. Ora, nel libri di storia che a tempo perso mi capita di leggere, trovo che la parola “storia” non compare quasi più nel titolo e al massimo viene confinata nel sottotitolo: noto altresì che i titoli in questione sono molto accattivanti, talvolta astrusi o demagogici come quelli della narrativa corrente. A occhio e croce, non mi pare un buon segno.
4) E’ ovvio (sto parlando della corporazione dei critici) che chi rincorre l’industria culturale prima o poi fa la fine dell’insetto nella carta moschicida. Ed è ovvio (qui sto invece parlando della corporazione degli insegnanti) che chi rincorre i palinsesti mediatici ne viene presto abbacinato e ammutolito. Scrivo sulla base di una personale e duplice esperienza, perché mi occupo di critica su giornali e periodici da più di trent’anni e insegno nella scuola secondaria superiore da quasi altrettanti. Per stare all’annosa endiadi di Umberto Eco, andrebbero evitate sia le scorciatoie, suicide, dell’accomodamento nell’ordine esistente sia l’atteggiamento emunctae naris di chi grida volentieri alla fine del mondo per entrare in una sua inverosimile clandestinità. Su questi temi ha scritto delle cose sensate Romano Luperini, valutando il lavoro del critico e dell’insegnate (oggi, in realtà, di qualsiasi intellettuale) alla pari di un traduttore e di un mediatore. Costui, se fa sul serio il suo mestiere, non può essere che un critico nell’accezione elementare del termine, in quanto è chiamato di continuo, nella sua fatica di ogni giorno, a “distinguere” per “valutare” e giudicare”: nulla e più nessuno lo sostiene dall’esterno ma deve provarci, è costretto a scommetterci a costo di sentirsi non più uno specialista bensì un pastore d’anime, una sorta di curato o di rabbino come spesso accade al sottoscritto. E’ vero che la letteratura nella scuola tende a liofilizzarsi, a frantumarsi in una miriade di occasioni dissimili o asimmetriche, ma è pure vero che la letteratura in quanto tale, la nuda pagina di uno scrittore o di un poeta, può ancora colpire nel profondo chi sia messo in condizione di farne esperienza. Voglio dire che essa può spezzare inopinatamente degli stereotipi, mutare un orizzonte d’attesa o un punto di vista, mobilitare le passioni e i pensieri di una persona, specialmente se ancora molto giovane. Lavorare sugli specifici del linguaggio e dell’immaginario letterario continua a sembrarmi un buon antidoto (tanto volte mi viene il sospetto che sia l’unico o l’ultimo a disposizione) non solo alla subalternità mediatica ma anche, e soprattutto, al lessico “logotecnocratico” (come argutamente lo chiamava Cesare Cases) o insomma ai protocolli monetaristi, fra crediti e debiti, di cui si compiace il Pensiero Unico che oggi egemonizza la scuola e l’università italiana.
5) Che il termine realismo sia molto più ambiguo di quanto non sembri, lo prova il fatto che, già mezzo secolo fa, un critico sentì il bisogno di coniare la definizione alternativa di “effetto di realtà”. Ora, sul bancone del supermercato o delle librerie noi troviamo tutto e il contrario di tutto, una gamma infinita, un diapason che vibra dalla fiction al reportage. Non credo che la lotta sia più tra un fatuo postmodernismo (ilare citazionismo, effetti speciali, ri-uso sistematico del repertorio dei defunti) e invece un mimetismo capace cogliere la realtà rugosa e in terza dimensione. Henrique Vila-Matas, Don DeLillo, Winfried G. Sebald o Paolo Volponi non sono affatto rubricabili fra gli scrittori realisti eppure, per l’incandescenza dell’immaginario, costoro sono più realisti di chi scrive Romanzo criminale o Gomorra. Non si tratta di aderire a una poetica ovvero a una realtà precodificata, ma si tratta del grado di complessità e di criticità, dunque di verità, con cui un’opera si struttura e si pone nei confronti dell’esperienza reale. Non è più possibile, presumo, istituire una rigida separazione fra la letteratura di “parole” e la letteratura di “cose” come faceva quasi un secolo fa Luigi Pirandello celebrando Verga. La letteratura italiana nel lungo periodo sconta o gode, a seconda dei punti di vista, di una distanza siderale dai parlanti, la grammatica di Pietro Bembo (Prose della volgar lingua,1525) è ancora una grammatica dell’uso rigorosamente scritto, quasi un secondo latino, e non è un caso che la storia della letteratura italiana coincida in sostanza con la storia della questione della lingua. In Italia non si può parlare di una comunità linguisticamente omogenea di scriventi e/o utenti se non a partire dai pieni anni cinquanta del secolo scorso, per l’avvento della televisione. Sì, Fortini rinfacciava a Pasolini (in Diario linguistico, un epigramma del ’65) il calore sospetto e l’ambigua libertà del suo plurilinguismo opponendogli per paradosso la “sublime lingua borghese, più morta di un inno sacro”. Meglio l’una o l’altra, qui e ora? Dipende. Cioè dipende da una serie troppo ricca (controversa e sempre reversibile) di dati testuali e contestuali per potersi illudere di ricavarne una indicazione unilaterale.
6) Se non ricordo male, di Canone si è cominciato a parlare da noi una quindicina di anni fa a proposito del libro, credo sopravvalutato, di Harold Bloom, Il Canone occidentale (’94). Costui stilava una lista di autori eminenti, una ventina da Dante a Samuel Beckett, ma più che un florilegio il suo sembrava l’elenco dei libri (“imperdibili”, come dicono i pubblicitari) da portare nel rifugio antiatomico per il dopo-Bomba, insomma era una cosa molto americana. Sono al corrente del fatto che, a casa sua, Bloom è stato tacciato di eurocentrismo, di razzismo, di machismo e di misoginia ma purtroppo chi lo ha messo alla gogna, in America, partiva da posizioni settarie e fortemente identitarie (afroamericanismo, femminismo ecc.), per cui il risentimento oscurava il giudizio di valore tanto sulle opere selezionate da Bloom quanto sulle possibili alternative. Non ne so altro, né riesco a immaginare, per la mia personale ignoranza, quale peso possano avere sulla letteratura italiana gli scenari della globalizzazione e delle grandi migrazioni in atto. So bene però che una Tradizione (categoria dinamica che preferisco di gran lunga al Canone) non può non risentire del mutare delle condizioni di spazio-tempo in cui essa viene recepita, agita e interpretata. A quanti la volevano per sempre intangibile (i classicisti) e a quanti la volevano invece sconciata (gli avanguardisti), Michele Ranchetti replicava che la Tradizione andrebbe continuamente, semplicemente, interrogata.
7) Rinvio, in primis, alla terza e alla quinta fra le risposte precedenti. Non credo proprio sia possibile un ritorno all’engagement nelle sue forme classiche, esperite fra il J’accuse di Zola e la seconda guerra mondiale. Le cose si sono molto complicate e, per più di un verso, confuse. Che non basti più la normale distinzione tra realismo e fiction, che si parli anzi di autofiction e docufiction, è conferma del fatto che con l’eclissi dell’impegno è venuto meno uno statuto certo di realtà. Prima che un dato stabile, la realtà appare oggi come il risultato transeunte, cangiante, di infinite variabili. Pertanto, non è che la letteratura possa essere politica o impolitica in sé, come fosse per decreto dell’autore o di una comunità di lettori. Semmai la letteratura è sempre le due cose insieme, politica e impolitica, potendo alternare tassi variabili di transitività o di intransitività sia nella prospettiva di chi la scrive sia in quella di chi la legge. E’ politica, la letteratura, quando il suo immaginario introietta l’ordine discorsivo di una Polis o sa accedere alla Polis in termini più o meno espliciti, mentre è impolitica quando le mediazioni interne o portate dall’esterno moltiplicano la distanza tra sé e la Polis. Ad esempio, ho l’impressione che Paul Celan risulti meno oscuro al lettore di oggi di quanto non lo fosse quarant’anni fa ma ho la netta sensazione che per le poesie o i collages dei bardi surrealisti sia vero il contrario.
8) Non sono convinto che la letteratura italiana di oggi sia poi così debole, in assoluto. Non è debole la poesia, specie se confrontata con la produzione francese e, mi permetto di aggiungere, angloamericana (e, al riguardo, c’è un Oscar Mondadori di quasi mille pagine, coi testi a fronte, che dà il senso di una generale mediocrità o, con tutte le reverende eccezioni, di un’affollata vacuità). Non è debole, nemmeno, la saggistica letteraria che nel ventennio recente ha presentato un’intera parure di critici militanti (qui basti il caso-“Alias”) di qualità non trascurabile. E’ invece debolissimo il romanzo, il quale vive, oggi come ieri, di singole e vistose eccezioni ma nella permanente assenza di uno standard appena passabile: le cause (perenne questione della lingua, tarda e parziale formazione di una borghesia nazionale, retaggio autoritario e clericale) sono già state tutte quante addotte dalla storiografia, ma esiste un motivo ulteriore che in un’intervista di diversi anni fa Pier Vincenzo Mengaldo ha chiaramente individuato nel fatto che il romanzo tende a prosperare di solito nei paesi ad alto tasso di conflittualità interna (Stati Uniti, America Latina, Israele, Europa dell’Est): se ne deve dedurre, credo fondatamente, che l’Italia a dispetto di certe apparenze è un paese vocato alla omologazione e ad una preoccupante normalizzazione interna.
9) Sono un troglodita tecnologico, uso il computer da pochi anni e tuttora lo ritengo una prosecuzione della dattilografia con altri mezzi. Navigo qua e là per la Rete, mi introduco nei blog, anche quelli di carattere letterario, leggo e certe volte partecipo ma prevalgono in me la prudenza e una cronica diffidenza, in quanto sono abituato a scrivere per la carta stampata, dove è ancora è immaginabile un interlocutore in carne e ossa, e invece temo un mezzo che invia le scritture a persone del tutto ignote, neanche immaginabili. Tuttavia mi sono chiesto se ci sia e quale eventualmente sia l’utilità dei blog e delle riviste in Rete. Certo, la comodità, la rapidità, l’incremento esponenziale sia nel reperire le informazioni sia nell’accesso diretto, queste sono cose buone e giuste che condannano ipso facto alla metafisica del cartaceo chi volesse ignorarle e magari pretendesse di tornare indietro per rinchiudersi in quella che fu detta la Galassia Gutenberg (la quale, oltretutto, sta là dentro, accessibile all’impronta). D’altro lato, si corrono dei seri rischi e non ancora abbastanza valutati, a conferma di quanto diceva uno studioso di scienze sociali, Pino Ferraris, un compagno di via di Raniero Panzieri, che infatti lamentava l’assenza di una critica delle macchine che fosse all’altezza di Internet. Ma, a prescindere dai contenuti (talora, è ovvio, di eccezionale qualità), che cosa promettono, che già non esista sulla carta stampata, Carmilla, Nazione indiana o Le parole e le cose? Mi verrebbe da rispondere le stesse cose che promette Facebook, appunto la velocità, l’immediatezza, lo stato di potenziale ubiquità, specie per chi non abbia veri e propri testi da proporre ma intervenga d’acchito, d’impulso. Il rischio è quello della impulsività, della non-necessità, insomma il rischio del dare fiato alla bocca, l’antipode esatto del pensiero critico. Perché l’immediatezza, l’assenza di mediazioni, sarà pure una bella virtù ma rimane una virtù di tipo sommamente anti-intellettuale. Lo si voglia riconoscere o no, la spontaneità non è né innocua né innocente e una rivista on line dovrebbe guardarsene come dalla febbre quartana. Purtroppo non mi pare che succeda, anzi capita il contrario se è vero che il cartaceo viene chiazzandosi da tempo di box e microrecensioni, più che altro interiezioni e reazioni emotive, che sembrano stralciate nude e crude dalla Rete. L’effetto seduttivo, di leggerezza e di perfetta non chalance, incide sugli automatismi di chi scrive e di chi legge mentre viene formandosi un senso comune. C’è un giornale, “Il Foglio”, che ne ha fatto un proprio segno di riconoscimento: qui una critica cinematografica (e saltuariamente letteraria) recensisce nella sua rubrica il film della settimana con lo stile negligé che userebbe per le amiche convenute dalla parrucchiera. Costei non è la prima né la sola, se dalla cattedra del “New York Times” la critica letteraria più acclamata d’America (e però opportunamente battezzata da Norman Mailer one-woman kamikaze), sto parlando di Michiko Kakutani, predilige una medesima retorica dell’immediatezza e della negligenza, sia pure sostenuta da una cultura decisamente superiore e virata, stavolta, nel torbido di una malvagia predisposizione. La stessa di chi vuole “valutare” e soprattutto “giudicare” senza mai darsi la pena di “distinguere”. Al che siamo da capo, vale a dire alla critica propriamente detta che nel suo continuo ciclo di ascendenza e discendenza, anche dentro la modernità più estrema, ha saputo mantenere qualcosa che non le impedisce, per nostra fortuna, l’eterno ritorno.
Luglio 2012
[Immagine: Isaac Cordal, Cement Eclipses, Barcellona 2011 (gm)].
«Un nostro scrittore, Franco Cordelli, ha mostrato (…) l’apoteosi di un Signore (padrone dei mezzi televisivi e perciò del suo stesso paese) nel cui corpo glorioso confluiscono tutte le storie possibili che poi, di riflesso, si dipartono da lui per tornare alla folla plaudente nei modi di una immonda, universale, eucarestia: purtroppo il romanzo di Cordelli attende ancora i suoi lettori.»
Il romanzo di Cordelli attende i suoi lettori, ma non le denunce giudiziarie. Sarà allora il caso di ricordare, a proposito di “attriti” fra la letteratura e la realtà, anche se risale ad alcuni anni fa, la denuncia di Previti nei confronti di Cordelli per questo romanzo, “Il duca di Mantova” giustappunto, che allude a Berlusconi e al suo ‘entourage’. Come hanno dimostrato gli attacchi giudiziari contro scrittori del livello di Franco Cordelli e di Antonio Tabucchi (anche lui allora fortemente impegnato nel denunciare la corruzione e la violenza, non solo simbolica, della forma più putrescente del regime capitalistico, rappresentata dal blocco berlusconiano e leghista), la legge, che dovrebbe servire a proteggere i deboli dalla oppressione e dalle sopraffazioni del potere, può diventare, grazie al mutamento dei rapporti di forza tra le classi che si è verificato, uno strumento di intimidazione e sopraffazione verso i deboli: in altri termini, tende a configurarsi (o si cerca di usarla da parte dei potenti del momento) come la veste giuridica del potere proprietario, della sua affermazione autoritaria, della sua coazione di classe e della sua repressione economica.
Lo scrivente può addurre, a riprova di questa amara considerazione, una vicenda politico-giudiziaria ancora in corso, che lo vede imputato per diffamazione, avendo egli a suo tempo analizzato e smascherato l’ideologia sostanzialmente (ma anche in parte formalmente) nazifascista della Lega Nord e avendo in tal modo suscitato non, come egli si attendeva, una risposta argomentata espressa magari in una forma critico-polemica vivace, ma una reazione furibonda che si è tradotta in una denuncia sul piano legale, accompagnata da un’esorbitante richiesta di indennizzo dell’ordine di cinquantamila euro.
Sul punto 9, direi che i blog letterari promettono una qualità che ormai si sognano diversi inserti culturali, per non parlare di una maggiore fruibilità, non nel senso della facilità di comprensione (il che, poi, non vedo perché debba essere per forza considerato un dato negativo), quanto per un fatto di accessibilità. Inoltre in rete si dà molto spazio alla forma racconto, per dirne una, che si presta particolarmente alla lettura su schermo (per la brevità) e che in italia ha sempre trovato poco spazio sulle riviste tradizionali.