cropped-BURDE_Per4.jpgdi Pierre Bourdieu

[In Homo academicus, pubbicato in Francia nel 1984, Pierre Bourdieu applica l’analisi sociologica al mondo a cui egli stesso appartiene, quello degli intellettuali, e in particolare dell’università. Rifiutando la polemica ad hominem tipica della pamphlettistica anti-intellettuale, Bourdieu indaga il mondo accademico come uno spazio di relazioni oggettive, un campo di forze costituito dagli attori e dalle istituzioni che vi agiscono, dei quali è possibile descrivere gli habitus, le traiettorie, l’illusio specifica, le poste in gioco. L’università viene così svelata come un campo di lotte in cui i docenti, differenziati per risorse e caratteristiche sociali, si scontrano per mantenere lo status quo, o per trasformare i rapporti di forza. La traduzione italiana esce in questi giorni per le edizioni Dedalo nella traduzione di Antonietta De Feo, con prefazione di Mirella Giannini e postfazione di Loïc Wacquant (collana La scienza nuova, 376 pp.). Presentiamo l’inizio del primo capitolo. La prefazione di Wacquant si può leggere sul sito Ragioni pratiche (Michele Sisto)].

 

E non vogliono che si faccia la storia degli storici. Si dedicano volentieri a trattare molto a fondo l’indefinitezza del dettaglio storico. Ma non vogliono, loro, essere considerati come parte di questa indefinitezza del dettaglio storico. Non vogliono essere parte dell’ordine storico. È come se i medici non volessero ammalarsi e morire. C. Péguy, L’argent (suite)

Se si prende come oggetto di studio un mondo sociale nel quale si è coinvolti, si è poi obbligati a confrontarsi, in una forma che si può definire drammatizzata, con alcuni problemi epistemologici fondamentali, legati alla questione della differenza tra conoscenza pratica e conoscenza scientifica e, nello specifico, alla particolare difficoltà sia di rompere con l’esperienza indigena sia di ricostruire poi la conoscenza che si ha proprio grazie a questa rottura. Si sa bene che ciò che costituisce un ostacolo alla conoscenza scientifica è tanto l’eccesso di prossimità quanto l’eccesso di distanza, e come sia difficile sanare la rottura e ristabilire questa relazione di prossimità che, a costo di lavorare a lungo non solo sull’oggetto ma anche sul soggetto della ricerca, consente di integrare tutto ciò che si può conoscere in quanto si è dentro e tutto ciò che non si può o non si vuole conoscere fintanto che si resta dentro. Si conoscono forse meno i problemi che sorgono, soprattutto riguardo alla scrittura, quando ci si sforza di trasmettere la conoscenza scientifica dell’oggetto, e che sono particolarmente evidenti quando si tratta dell’esemplificazione: una tale strategia retorica, comunemente utilizzata per «far comprendere», ma che induce il lettore ad attingere dalla sua stessa esperienza – dunque furtivamente a far ricorso, leggendo, a informazioni incontrollate – comporta inevitabilmente la riduzione sul piano della conoscenza ordinaria di quelle costruzioni scientifiche che sono state ottenute contro di essa[1]. Basta anche inserire dei nomi propri – e come rinunciarvi del tutto, visto che si tratta di un universo dove è importante «farsi un nome»? – per incoraggiare la propensione del lettore a ridurre a individuo concreto, percepito come indifferenziato, l’individuo costruito che, in quanto tale, esiste solo nello spazio teorico in cui si mettono in relazione di identità e di differenza l’insieme esplicitamente definito delle sue proprietà con tutte le caratteristiche specifiche, definite secondo gli stessi princìpi, degli altri individui.

Ma, per quanto ci si possa sforzare al massimo di evitare tutte le allusioni che rischiano di funzionare nella logica ordinaria, quella del pettegolezzo, della maldicenza o della calunnia, o quella del libello e del pamphlet, che se oggi si mascherano facilmente da analisi, non rinunciano a un solo aneddoto, una sola riga, una sola parola solo per il piacere di ferire o di far bella figura, per quanto ci si possa astenere metodicamente, come qui, dal richiamare questioni già note a tutti – come gli evidenti rapporti degli accademici con il giornalismo, senza parlare di quei legami nascosti, familiari o di altro tipo, della cui scoperta gli storici faranno una questione d’onore – non si sfuggirà comunque al sospetto di fare un’azione di denuncia di cui il lettore stesso è di fatto responsabile: è lui che, leggendo tra le righe, riempiendo più o meno coscientemente i vuoti dell’analisi, o più semplicemente pensando, come si dice, «ai fatti suoi», trasforma il senso e il valore del protocollo dell’indagine scientifica volutamente censurato. Dal momento che non può scrivere tutto ciò che sa, comprese le questioni che i lettori più desiderosi di denunciare le sue «denunce» spesso conoscono meglio di lui, sebbene su un piano completamente diverso, il sociologo rischia di sembrare arreso alle più sperimentate strategie della polemica, dell’insinuazione, dell’allusione, dei mezzi termini, dei sottintesi, tutte procedure che sono particolarmente care alla retorica universitaria. Eppure questa storia senza nomi propri che il sociologo si limita a scrivere non è più rappresentativa della verità storica di quanto lo sia la narrazione aneddotica dei fatti e delle gesta dei singoli agenti, celebri o sconosciuti, alla quale si abbandona così facilmente la storia, vecchia o nuova: gli effetti della necessità strutturale del campo si manifestano solo attraverso legami personali apparentemente accidentali, basati su casualità socialmente costruite di incontri e di frequentazioni comuni e sull’affinità di habitus, in termini di simpatia o antipatia. E come non rimpiangere che sia socialmente impossibile dimostrare e far provare ciò che ritengo essere la vera logica dell’azione storica e la giusta filosofia della storia, utilizzando appieno i vantaggi legati alla relazione d’appartenenza, che consente di combinare l’informazione raccolta attraverso le tecniche oggettive dell’indagine con le intuizioni personali suscitate dalla familiarità?

Così, la conoscenza sociologica è sempre suscettibile di essere riportata a una visione primaria quando una lettura «interessata» finisce per concentrarsi sull’aneddoto e sui singoli dettagli e, non essendo fissata in un formalismo astratto, riduce a senso ordinario le parole che la lingua colta e quella ordinaria hanno in comune. Questa lettura quasi inevitabilmente parziale genera una falsa comprensione, fondata sull’incapacità di riconoscere tutto ciò che si definisce come conoscenza propriamente scientifica, cioè la struttura stessa del sistema esplicativo. Essa disfa quello che la costruzione scientifica aveva fatto, mescolando ciò che era stato separato, ovvero l’individuo costruito (singola persona o istituzione), che non esiste se non all’interno della rete di relazioni elaborate dal lavoro scientifico, e l’individuo empirico, direttamente accessibile all’intuizione ordinaria. Dissolve tutto ciò che distingue l’oggettivazione scientifica tanto dalla conoscenza comune quanto dalla conoscenza semi-colta che, come si può ben vedere nella maggior parte dei saggi sugli intellettuali – più mistificati che demistificatori –, ha quasi sempre per principio quello che si potrebbe chiamare «il punto di vista di Tersite», il semplice soldato invidioso, in Troilo e Cressida di Shakespeare, spietato nel diffamare i grandi, oppure, per rimanere più vicino alla realtà storica, «il punto di vista di Marat», di cui si dimentica che fu anche, o prima di tutto, un cattivo fisico[2]. Essere poco lucidi comporta il bisogno di ridurre, un bisogno ispirato dal risentimento, e conduce a una visione ingenuamente finalista della storia che, incapace di andare al principio ultimo delle pratiche, si ferma alla denuncia aneddotica di quelli che appaiono come responsabili e finisce per sovrastimare i presunti autori dei «complotti» denunciati, per farne cinici fautori di ogni spregevole azione e per di più farli apparire in tutta la loro grandezza[3].

Inoltre, quelli che campeggiano al confine tra la conoscenza colta e la conoscenza comune – saggisti, universitari-giornalisti e giornalisti-universitari – hanno un interesse vitale a confondere tale confine e a negare o annullare ciò che separa l’analisi scientifica dalle oggettivazioni parziali, attribuendo a singoli individui o a lobby – come si è visto nel caso del direttore di una trasmissione televisiva letteraria[4] o nel caso dei membri dell’École des Hautes Études legati a «Le Nouvel Observateur» gli effetti che coinvolgono in realtà tutta la struttura del campo. Sarà sufficiente che ora si lascino andare a una lettura guidata dalla semplice curiosità, interpretando esempi e casi particolari secondo la logica del pettegolezzo mondano o del pamphlet letterario, per ridurre la spiegazione sistematica e relazionale, che è propria della scienza, alle procedure più ordinarie della polemica riduttiva, la spiegazione ad hoc attraverso argomenti ad hominem.

Un primo effetto dell’analisi (che si può trovare in Appendice 3) del processo (o della procedura) con cui si raggiunge la notorietà giornalistica è che viene subito segnalata l’ingenuità di tutte le denunce personali che, con il pretesto di oggettivare il gioco, vi sono tanto più pienamente implicate quanto più tentano di mettere le apparenze dell’analisi al servizio degli interessi associati a una posizione in questo stesso gioco. Il funzionamento dell’hit-parade letteraria non lo si deve al singolo agente (nel caso specifico, Bernard Pivot), per quanto possa essere abile e influente, o a una particolare istituzione (trasmissione televisiva, rivista), e neppure all’insieme degli organi giornalistici capaci di esercitare un potere sul campo della produzione culturale, ma all’insieme delle relazioni oggettive che costituiscono questo campo e precisamente quelle che si stabiliscono tra il campo della produzione per i produttori, e il campo della grande produzione. La logica tipica dell’analisi scientifica trascende ampiamente le intenzioni e le volontà individuali e collettive (il complotto) degli agenti più lucidi e potenti, quelli indicati dalla ricerca dei «responsabili». Detto questo, sarebbe del tutto sbagliato trarre da queste analisi un motivo per cancellare qualsiasi responsabilità individuale nella rete di relazioni oggettive in cui ciascun agente è coinvolto. Contro chi, nell’enunciato delle leggi sociali trasformate in destino vorrebbe trovare l’alibi di una fatalista o cinica rassegnazione, occorre ricordare che la spiegazione scientifica, che fornisce i mezzi per comprendere e perfino giustificare, è anche quella che può portare al cambiamento. Una conoscenza matura dei meccanismi che governano il mondo intellettuale (impiego volutamente questo linguaggio ambiguo) non dovrebbe avere per effetto di «liberare l’individuo dal fardello imbarazzante della responsabilità morale», come teme Jacques Bouveresse[5]. Al contrario, essa dovrebbe insegnargli a situare le sue responsabilità là dove si situano realmente le sue libertà e a rifiutare ostinatamente le vigliaccherie e ogni minima rinuncia con cui si finisce per piegarsi alla necessità sociale, a combattere in se stesso e negli altri l’indifferentismo opportunista o il conformismo disincantato, che accetta di dare al mondo sociale tutto quello che gli chiede, tutte le piccolezze della rassegnata compiacenza e della complicità sottomessa.

È ben noto che i gruppi non amano «chi fa la spia», forse soprattutto quando la trasgressione o il tradimento può dirsi che siano tra i loro più alti valori. Gli stessi che non esiterebbero ad acclamare come «coraggioso» o «lucido» il lavoro di oggettivazione quando riferito a gruppi estranei e antagonisti, saranno portati a gettare sospetto sui requisiti di lucidità di chi pensa di essere in grado di analizzare il proprio gruppo. L’apprendista stregone, che decide a suo proprio rischio di interessarsi alla stregoneria indigena e ai suoi feticci, invece di andare a cercare in terre lontane le rassicuranti attrazioni di una magia esotica, deve aspettarsi di veder ritorcere contro se stesso la violenza che ha scatenato. Karl Kraus era in una posizione tale da poter formulare la legge secondo cui l’oggettivazione ha tante più chance d’essere approvata e celebrata come «coraggiosa» nelle «cerchie familiari» quanto più gli oggetti ai quali si applica sono lontani nello spazio sociale; e anzi egli affermava, nell’editoriale del primo numero della sua rivista, «Die Fackel», che colui che rifiuta il piacere e i facili benefìci della critica distaccata per indagare l’ambiente immediato – dove è consigliabile che consideri sacra qualsiasi cosa – deve aspettarsi i tormenti della «persecuzione soggettiva». In questo senso potremmo essere tentati di riprendere il titolo Libro da bruciare che Li Zhi, mandarino rinnegato, dava a quelle opere autodistruttive in cui venivano rivelate le regole del gioco mandarinale. Non per lanciare una sfida a quelli che, sebbene disposti a insorgere contro ogni autodafé, metterebbero al rogo qualsiasi opera percepita come oltraggio sacrilego contro le proprie credenze[6], ma per evidenziare semplicemente la contraddizione che si trova nel divulgare i segreti tribali e che è così dolorosa solo perché la pubblicazione (anche parziale) di ciò che è molto privato è anche una sorta di confessione pubblica[7].

La sociologia concede troppo poco all’illusione perché il sociologo possa immaginarsi per un solo istante nel ruolo dell’eroe liberatore. Nondimeno, mettendo in atto tutte le acquisizioni scientifiche disponibili per tentare di oggettivare il mondo sociale, lungi dall’esercitare una violenza riduttrice o un imperialismo totalitario – come a volte succede, in particolare quando la ricerca del sociologo si applica a quelli che vogliono oggettivare senza essere oggettivati –, egli offre un’occasione di libertà; e può almeno sperare che il suo trattato delle passioni accademiche sarà per altri ciò che è stato per lui, uno strumento di socio-analisi.

 


[1] Ho completamente preso coscienza di questo problema quando alcuni dei miei primi lettori mi chiesero di «fare esempi» in analisi da cui avevo consapevolmente escluso ogni informazione «aneddotica», anche fra le più note negli «ambienti ben informati», quelle stesse che il giornalismo o la saggistica sensazionalistica intendono rivelare.

[2] Si veda C. C. Gillispie, Science and Polity in France at the End of the Old Regime, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 290-330; trad. it., Scienza e potere in Francia alla fine dell’Ancien Régime, il Mulino, Bologna 1983.

[3] Tra gli altri, si può citare l’ultimo venuto di questo filone, Hervé Coutau-Bégarie, le cui analisi dell’École des Annales svelano, con assoluta ingenuità, la violenza repressa generata dall’esclusione intellettuale e dalla distanza provinciale: «I nuovi storici hanno dunque un progetto coerente e ideologicamente adatto al pubblico al quale è destinato […]. È questa espansione che spiega il successo dei nuovi storici. Inoltre, essi sono partiti alla conquista dell’editoria e dei media prevedendo di ottenere ciò che Régis Debray ha chiamato «visibilità sociale»; H. Coutau-Bégarie, Le phénomène nouvelle histoire, Economica, Paris 1983, pp. 247-248.

[4] Il riferimento è a Bernard Pivot, conduttore dello show televisivo Apostrophes dedicato alla letteratura e al dibattito culturale, che fu criticato in una famosa intervista da Régis Debray, consigliere presidenziale e autore di un libro di denuncia degli intellettuali, Les scribes [N.d.T.].

[5] J. Bouveresse, Le philosophe chez les autophages, Éditions de Minuit, Paris 1984, p. 93.

[6] Per una sorta di autodafé simbolico, con ogni probabilità non concertato, tutti i giornali viennesi hanno osservato il silenzio più assoluto su «Die Fackel», per tutta la durata della vita di Karl Kraus.

[7] L’interpretazione dei sogni, che Freud considerava la sua opera scientifica più importante, contiene, sotto la logica manifesta del trattato scientifico, un discorso profondo, in cui Freud, attraverso una serie di sogni personali, intraprende un’analisi dei suoi rapporti, inestricabilmente mescolati, con suo padre, con la politica e con l’università. Si veda in particolare C. E. Schorske, Fin de Siècle Vienna: Politics and Culture, Knopf, New York 1980, pp. 181-207; trad. it., Vienna fin de siècle: politica e cultura, Bompiani, Milano 1981.

[Immagine: Pierre Bourdieu (gm)].

 

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