cropped-Petrus-16.jpgdi Fabio Pusterla

[Questo testo è inedito].

per Claudio

Piove a piccole gocce quasi incerte; alte sul bianco
rilucono le statue di Sant’Ursus, e i loro gesti
dorati contro il cielo, precipitati di stelle.
Tu leggi, leggi bene, con calma
in questo scrigno barocco fitto sull’altipiano,
parole di laguna e di musica, e intanto lasci scorrere
la tua storia di cercatore narratore, la tua voce
ferma, segnata dal fumo e dal tempo
della vita. Più tardi, lungo l’Aare,
una folaga solitaria ascolterà distratta
altre vicende di quotidiana miseria, nella nostra
comune devastazione italiana assenza d’orizzonti
improbabile ineludibile speranza
e sua evidente scomparsa
colpevole.

Oggi un disperato disgraziato a Milano
uscito dal suo dolore entrato nel suo dolore
con un piccone, per strada, come sai,
al momento due morti, un terzo grave in attesa,
il cordoglio delle più o meno competenti autorità,
all’angolo gazebo di sciacalli che non meritano nomi,
e noi qui a vedere l’acqua che passa tra le rive,
nell’ombra. Ma la voce
che avevi leggendo, quella luce che correva
da parola ad ascolto, da orecchio
a coscienza di sé, Robert Walser che incede
timido nella neve e poi si sdraia,
una memoria improvvisa di Kafka: cos’è questa voce,
orizzonte imprevisto che sale più alto
di statue, ombra, luce, di noi e della nostra
storia individuale collettiva, che dice
di andare, prendere fiato e ci oltrepassa?
Ecco quello che ho letto su un muro a Lugano,
la cosa che resta del sogno: «la testa
è integra, il muro è crepato». Lo so anch’io,
non è vero; eppure qualcuno l’ha scritto, e forse
in qualche modo ci somiglia. Persino in questa
bassa marea bassa pressione bassura di tempo
cosa ci guida? Una sintassi, un ritmo?
O il pensiero dei figli,
un rullare di basso, accordi e dissonanze
non ancora non ancora rassegnate?

*

A Roma, dici ridendo, qualcuno
scambiava per egiziano te abruzzese
girovago, ti regalava
pesci secchi sottobanco,
pastelle. Anche Ursus,
secondo i libri, veniva dall’Egitto;
soldato ribelle di Roma, poi decapitato,
della Legione Tebana. Avrà apprezzato
i grassi pesci di questi fiumi del nord?
Tra ribellione e rivolta: dove collocarlo?
E dove collocare noi, naturalmente, su che rive
di che fiume smarrito, di che tempo
imperfetto.

[Immagine: Marco Petrus, Corso Sempione, particolare (gm)].

 

29 thoughts on “Lettura a Klosterplatz

  1. Piangiamo pure nobilmente in poesia le nostre miserie, perché no. Ma l’aristocrazia dei benestanti dello spirito malinconico lascia il comando del mondo alle carogne e agli aguzzini (oggi in doppio petto).

  2. D’Andrea, credo che Abate accusi Pusterla di solipsismo tardoromantico borghese (giù di lì), ovvero colpevole apoliticità.

    Io posso solo dire che anche in assenza di affermazioni immediatamente o mediatamente politiche, certe interrogazioni dubitose hanno il peso esistenziale di affermazioni.

    “In questa
    bassa marea bassa pressione bassura di tempo
    cosa ci guida? Una sintassi, un ritmo?
    O il pensiero dei figli,
    un rullare di basso, accordi e dissonanze
    non ancora non ancora rassegnate?”.

    Senza almeno supporre un qualche remotissimo stampo dentro cui ci muoviamo tutti io in tutta sincerità non riuscirei nemmeno a impegnarmi politicamente o socialmente. Dopo tutto questo Novecento siamo così prossimi all’insensatezza che…
    (@ Abate, non è polemica con lei, è il tentativo di vedere le cose da un altro punto di vista).

    Posso chiedere (all’autore? a chi lo conosce meglio di quanto lo conosca io?) se questa interrogazione metafisica ha qualcosa di luziano (da “Nel magma” in poi)? La sento nell’attitudine generale alla domanda ma anche in certe ritmate ripetizioni (quella appena citata e poi “E dove collocare noi, naturalmente, su che rive / di che fiume smarrito, di che tempo / imperfetto”), vero stilema di certo Luzi (“in quale punto / la separazione è posta? / in quale freme?”; “in tutta la già incerta / frontiera tra notte e giorno, / da un capo all’altro, in nessun punto…?”).

    Grazie e complimenti

  3. @ abate

    a giudicare dall’inintelligibile acrimonia del suo commento, mi chiedo se per lei essere fuori luogo non significhi trovarsi relegato nella porzione inferiore di questo blog.

  4. Bene. Allora, dopo il commento ellittico, passo a quello esplicito. Davanti a una poesia, anche bella (coi criteri letterari d’oggi, certamente), non mi adatto al giochetto alla FB del mi piace e stop. Per me questa poesia di Pusterla non dice quello che oggi la poesia *dovrebbe* dire. Per esprimere il mio dissenso però, mai userei le categorie di «solipsismo tardo romantico borghese» o di «colpevole apoliticità». Questi sono termini vuoti. Oggi il solipsismo ha altro senso rispetto al passato (siamo tutti da tempo – almeno dagli anni Settanta – «folla solitaria»), la borghesia non esiste più e considero l’appoggio (anche solo col voto) all’attuale farsesco surrogato della politica – di destra e di sinistra- più colpevole dell’apoliticità coatta (o scelta) di una buona parte degli *abitanti* di questo Paese. Diffido pure della facile etichetta di “poesia civile”. Aveva forse ancora un senso nell’epoca in cui vissero Pasolini e Fortini, che potevano magari illudersi di parlare a una comunità di sinistra o che addirittura combatteva per il comunismo. Oggi l’etichetta “poesia civile” blocca ogni ragionamento su quanto sia non-civile la società in cui ci tocca vivere; e su come questo suo degrado (costruito) renda quasi impossibile fare poesia civile, costringendo di fatto a scrivere al massimo della poesia “privata” o “semiprivata” o (speranzosamente) “profetica”. Questa la mia tesi che non sto qui a spiegare. (L’ho fatto altrove, ad esempio qui: http://moltinpoesia.wordpress.com/2013/10/17/ennio-abatedue-precisazioni-sulla-poesia-civile-e-sul-rapporto-tra-poesia-e-altri-saperi/).
    Acrimonia la mia? Sì, perché ho sperimentato il lotofagismo, come detto in tanti miei interventi «fuori luogo» su questo blog, dei miei “colleghi” intellettuali (accademici e non); e anche dei poeti, che per me *dovrebbero* essere almeno con un piede fuori da questa categoria (svuotata anch’essa di senso). Non è acrimonia, dunque, specificamente indirizzata a Pusterla, che per quel poco che ho letto di lui giudico poeta rispettabile e onesto.
    Anche per il blog in cui appare, dunque, questa sua *bella* poesia, mi ha offerto lo spunto prima per una critica umorale e ora per vuotare un po’ di più il sacco.
    Cosa di essa non *mi* va?
    Trovo irritante quel «Tu leggi, leggi bene, con calma /in questo scrigno barocco fitto sull’altipiano/ parole di laguna e di musica». Mi ha ricordato una vecchia polemica con un mio amico sostenitore del “piacere della lettura”.
    Non sopporto – *per la sua genericità* – la sublimazione rassegnata e pietistica di questi altri versi: «nostra/comune devastazione italiana assenza d’orizzonti /improbabile ineludibile speranza / e sua evidente scomparsa /colpevole». Si tirassero fuori le colpe. Si dicessero i nomi dei devastatori.
    Che «una folaga solitaria ascolterà distratta /altre vicende di quotidiana miseria» è un altro ambiguo e consolatorio slittamento dal piano (atroce) della storia al piano (deresponsabilizzante) della natura.
    Il contrasto fra l’evocazione (generica anch’essa) del gesto omicida di Kabobo a Milano (maggio 2013) e quel «noi qui a vedere l’acqua che passa tra le rive» affloscia nell’intimismo amicale ( ah, le affinità elettive!) il dramma sociale dello scontro pesantissimo tra immigrati e abitanti nativi di questo e di altri Paese europei. Quell’episodio è la punta di un iceberg. Andrebbe scavato a fondo e non appiattendosi sulla cronaca. A me ha fatto pensare all’uomo della roncola di Fanon. In quel gesto folle ci leggo il simbolo tremendo di quel che farebbero gli Africani agli Europei solo se potessero.
    E tutto quell’affidarsi alla «voce/ che avevi leggendo», la quale sarebbe in grado di trascendere («sale più in alto») tante cose e persino (o soprattutto?) «la nostra/ storia individuale collettiva»? E, ancora, quell’evocare due immagini-cult (Walser, Kafka), care figure anche per me di un mondo scomparso e oggi gestite solo accademicamente da schiere di letterati ben integrati nel Castello e niente affatto angosciati cercatori di verità?
    Una sintassi, un ritmo, il pensiero dei figli ci guiderebbero? Ma dove? Ahimè, siamo davanti a masse di naufraghi alle prese con la tempesta che squassa il mondo e che implorano non parole ma ben altro e cincischiamo, più distratti della «folaga solitaria», immaginandoci un mitico Ursus «soldato ribelle di Roma»? Ma gli egiziani che oggi sfuggono alla dittatura militare sostenuta dal buon Obama e da Letta trovano al massimo lavori da lavapiatti o da fornai in un Paese che è una colonia americanizzata. (Ursus almeno «veniva dall’Egitto» in una Roma imperiale…).

    L’espressione «aristocrazia dei benestanti dello spirito malinconico» vi pare troppo forte e rozza? La rivendico. Non è del tutta appropriata per il testo di Pusterla? Può darsi, ma dimostratemelo.
    Questa la mia lettura critica. Di certo “contenutistica”, “viscerale” e «fuori luogo», se confrontata coi commenti ossequiosi e cinguettanti che di solito leggo sotto le poesie pubblicate nel Web (e non solo su LPLC). Voi giudicate questa di Pusterla «altissima poesia civile». Io sono convinto che, proprio perché rassegnati alla nostra «quotidiana miseria», proprio perché stiamo subendo la «devastazione italiana», i poeti non se la possono più cavare parlando genericamente di « bassa marea bassa pressione bassura di tempo », quando si tratterebbe di nominare – più da vicino e con più esattezza e certo *in poesia* (per carità, non ditemi che voglio ridurre la poesia alla politica! O che “fraintendo”!) – chi ci ha *abbassato il mare* e ridotti così.
    In tempi ancora bui non sia un bene-rifugio la poesia.

  5. Caro Ennio, io non mi aspetto che una poesia dica come risolvere il problema dei migranti o riesca a leggere fino in fondo, al di là dei sensi di colpa, il gesto di Kabobo. Nell’energia con cui stigmatizzi testo e contesto di una poesia io ci leggo quello che un amico poeta, Carlo Bordini, rese molto bene in una sua breve composizione di qualche anno fa: “Mi odio così tanto / che odio anche / chi mi ama”. Mi sfugge, insomma, se tu caldeggi inesausta identità fra testo poetico e testo politico. Non lo credo (non ti faccio così ingenuo) e però tu critichi politicamente una poesia che, prima o poi, arriva a essere politica (nulla sfugge a questo esito ultimo), ma lo fa attraverso mediazioni che sono soprattutto estetiche, hanno a che fare con la lingua, col sistema di valori che veicola, con chi prima di noi l’ha usata e per come l’ha usata. Tu, per esempio, per esprimere il tuo dissenso, qui, non hai scritto una poesia, ti sei servito, in senso lato, degli strumenti della critica. Nomini Obama e Letta come cause di una situazione e però non dici (sarebbe politicamente rilevante) come venire a capo di Obama e di Letta; anzi, in modo indiretto (e del tutto incompleto) lo dici quando sostieni, se non ho letto male, che l’astensionismo elettorale è comunque meglio che dover scegliere fra i soliti noti. Eccoci al nodo, politico, appunto, in cui è difficile non restare intrappolati, eccoci alla consueta necessità di rispondere al “che fare?”. E’ qui che si entra nel pieno della questione (e siamo già lontanissimi dalla poesia), ma è anche qui che ci si può dividere in modo drammatico perché le analisi, come sai bene, il più delle volte differiscono e così le prospettive, le tattiche, le strategie. Tu scrivi poesie, e mi domando come fai a elaborare testi che possono eludere gli appunti che muovi al testo di Pusterla (nel cui merito non entro, una cosa alla volta). Alla tua presentazione romana da Odradek, se non ricordo male, riportai una risposta di Fortini a un dibattito su poesia e impegno apertosi, alla biblioteca di Arezzo, fra lui e Sanguineti, dopo le loro letture. Fortini tagliò corto: “Il poeta è democratico, la poesia è aristocratica”. Credo sia ancora vero, e allora perché chiedere a qualcosa di così circoscritto e particolare un ruolo che per sua natura non può avere? Se tutto quello che hai detto della poesia di Pusterla lo avessi detto della sua persona, del suo fare politica, lo avrei compreso meglio, ma così ho l’impressione che addebiti al campo della poesia le conseguenze delle (per me insormontabili) difficoltà in cui la presente situazione politica globale costringe; con grande danno soprattutto per chi non vorrebbe arrendersi a una complessità che avrebbe bisogno – per essere chiarita nel modo più democratico possibile – di un’energia, una lucidità, una pazienza infinite.

  6. @abate

    “Oggi il solipsismo ha altro senso rispetto al passato (siamo tutti da tempo – almeno dagli anni Settanta – «folla solitaria»), la borghesia non esiste più e considero l’appoggio (anche solo col voto) all’attuale farsesco surrogato della politica – di destra e di sinistra- più colpevole dell’apoliticità coatta (o scelta) di una buona parte degli *abitanti* di questo Paese. Diffido pure della facile etichetta di “poesia civile””

    Sarei d’accordo, così come anche su alcuni aspetti della sua critica alla poesia di Pusterla, ma non capisco in che senso, per lei, la borghesia sarebbe finita. A me sembra più in salute che mai. Negli ultimi vent’anni, grazie a condoni fiscali, abolizione delle imposte su successioni e donazioni, stock options ed estensione del lavoro precario, la borghesia si è oscenamente arricchita. Può inoltre giovarsi di una solidissima rete di connessione costituita da università private o di eccellenza, consigli di indirizzo delle banche e organi di stampa. Non le è riuscito il colpo di mano del governo Monti, ma per il resto la borghesia scoppia di benessere, come dimostra il fatto stesso che ad annunciare la falsa notizia della sua morte siano i suoi nemici storici. Se mai, a scomparire, sono le classi medie.

  7. Caro Abate, non volevo irritarla e riconosco la genericità delle etichette da me usate, forse però non la loro vacuità, perché alcune opposizioni categoriali affini a quelle cui alludevo (politico-impolitico, soggettivo-collettivo) emergono anche nel suo ultimo intervento. Mi pare soprattutto produttiva questa: natura VS storia.
    Lei imputa agli spiriti aristocratici e malinconici (dunque perché non posso dire “solipsisti”? e una volta, forse ora non più ma una volta sì, non era il solipsismo tardo romantico la maggior colpa di chi nel Novecento continuava imperterrito a “esprimersi”? Io non c’ero, ma l’ho letto nei libri, per quanto riconosco che l’esperienza diretta sia non surrogabile), dicevo, lei imputa a costoro la fuga deresponsabilizzante nella natura. Anche questa è un’accusa ben nota, mi limito a un esempio: che facevano gli ermetici nel pieno della guerra e dell’atrocità della storia? Siccome sono accuse ben note, risponderò con difese altrettanto ben note, pazienza per la scarsa originalità d’entrambi.

    Potrei dire che a me piace molto una frase di Montale, in cui afferma che l’impegno è dovuto da parte dei poeti in quanto uomini, ma che il poeta non può impegnare (troppo) direttamente le sue parole nell’agone storico.
    Immagino che non basti.
    Allora le direi che, se è vero come sostiene qualcuno che da Leopardi è germinata tutta la nostra poesia novecentesca, forse la insistita interrogazione davanti alla Natura non è poi quella comoda fuga (nell’interiorità? Altra categoria “borghese”) che lei denuncia, tanto più che Leopardi è stato letto addirittura (ma è un’esagerazione) come un democratico progressista.
    Immagino che neanche questo basti.

    Lascio perciò parlare un poeta. Lei ama molto Fortini, io amo molto Giudici. Mi approprio dei versi che quest’ultimo ha indirizzato al primo. Fortini scrisse in una lettera a Giudici (una delle ultime che si scrissero credo, l’amicizia si era usurata) che Giudici concedeva agli altri uomini il diritto di contraddirsi, diritto che lui (Fortini) non concedeva nemmeno a se stesso.
    Neanche oggi il mondo è un bel posto, però “è chino nel suo esistere non per sua viltà, / ma per sua condizione”. Non so se i poeti possano risollevarlo, e non voglio loro male se s’interrogano, malinconicamente o no, aristocraticamente o no e – persino – se ogni tanto mi consolano. L’importante è non compiacersi troppo della consolazione.

    E votare non sempre è connivenza, forse è solo mesta attesa di qualcosa d’altro, un provare a vivere come si può. Io poi ci provo a scuotere gli altri (per me significa gli studenti, a volte i colleghi), se no è ovvio che nulla di nuovo mai si preparerà; ma cerco di non colpevolizzarli.

    VERSI PER UN INTERLOCUTORE

    Vive, un uomo di doppia verità:
    alla periferia di Budapest la casa
    nuova di Gyorgy Lukacs oggi è invasa
    ancora (ti mi spieghi) dal silenzio.
    E debo crederti se affermi che in assenzio
    ha trangugiato il miele della gloria
    temporale, che la sua vittoria
    si volge nell’anàtema per lui.

    L’uomo che, nel linguaggio amico o altrui,
    l’anno che piega al termine s’affanna
    a distruggere e il secolo condanna
    e la Chiesa con lui – l’uomo che il giuoco
    comprende delle forze in lotta e il poco
    spazio del solo momento in cui vive
    un progresso dinamico e s’inscrive
    più sicura una piaga di realtà,

    non è il vecchio filosofo cui debbano pietà
    il duplice avversario e i suoi lontani
    discepoli: in tempi non umani
    ancora, vana scelta tra lamento
    e apologia, ossequio e tradimento,
    rifiuta se gli è concesso vivere
    confuso nei suoi simili e descrivere
    la verità che rifiuta un perché

    volgare. So che non delude te
    la condizione di chi aspetta il giorno
    dentro la notte semestrale, intorno
    con gli altri a un solo fuoco, negli inverni
    del campo armato su nemici esterni,
    intento a suddividere l’errore
    dal pane condiviso, bruciano al suo fervore
    dialettico la scoria. Ma se tu

    un suo compagno ti confessi o più
    vicino a lui che all’uomo in sé sicuro
    di sé e all’infamia degli altri più duro
    censore se non complice, che il mondo contemporaneo accoglie o con profondo
    odio combatte, non hai chi t’esalti
    fra i suoi, chi ti protegga dagli assalti,
    e non l’orgoglio d’esser solo. Avrai

    ciò che non ami: lo ritroverai in
    questa moltitudine – gli odori
    delle case, i suoi vizi, i falsi amori
    degli idoli, anche il rifiuto del bene
    quando non è benessere… Ma tiene
    fra questi oscuri il senso di resistere
    fino a domani, fede di consistere
    aggrappati a una sorda verità.

    Gli errori del popolo non sa
    chi in se stesso non li ha patiti e crede
    palese il vero e vero ciò che vede
    in altri, tutti gli uomini in eguali
    numeri imprigionati, i loro mali
    senza volto, i peccati senza amore.
    Chiuso nel suo logico splendore
    che non risplende, non potrà mai più

    credere ciò che è assurdo: se Gesù
    non è risorto la tua fede è vana
    anch’essa e perduto il tuo sforzo a un’umana
    virtù. Passerà solo col suo vanto
    ingenuo chi vedeva, egli soltanto
    tra i ciechi, in tempo di contraddizione, inutile davanti alla sezione
    del partito, alla chiesa, o nella via

    saettante di sguardi e voci, scìa
    di meraviglia che lo fa sostare
    dove urla e ride la platea popolare
    e non lui che l’osserva estraneo e avverso
    destino chiama l’essere diverso
    da quella – un privilegio il suo difetto
    d’umiltà, di pazienza, d’intelletto
    d’amore – e cresce una vergogna in sé.

    Non è quello che dico – quello cje
    sono, conta, e non vede in me l’eguale
    turba degli infallibili, del male
    e del bene impartecipe, se ad essa
    la paura d’infamia che s’appressa
    non mi consegnaerà prima del giorno,
    se il popolo sventato a cui ritorno
    del suo errore mi riscalderà

    senza accusarmi. Ho visto le città
    morire nel benessere, fuggire
    per viltà e per orgoglio molti, tradire
    e non sperare, ansiosi d’una prova
    che il bene rifiuta a chi non trova
    bene fuor di se stesso, a chi non vuole
    condividere amore e disamore,
    pane e fame, libidine e virtù.

    Scorre il popolo, con i fiumi, giù
    dai monti alle pianure, a false immagini
    di libertà, scompare per voragini
    senza gridi qualcuno d’essi – e il bene
    è queste morti stolide che viene
    l’ipocrita a compiangere, lui – scisso
    da questa storia, salvo nel suo abisso
    di perfezione immobile. E così

    altrove, a Francoforte, è Rosemarie
    sola contro l’industria convertita
    ai rischi della pace – la smarrita
    accozzaglia a Varsavia che in un vario
    ordine stringe, uniti, il segretario
    del Partito e il Primate pellegrino
    apostolico a Roma – è il mondo chino
    nel suo esistere non per sua viltà,

    ma per sua condizione: crudeltà
    che non vorrebbe essere, fermento
    che non teme ma spera il mutamento
    dell’ingiusto ordine – è il poeta
    che non mente e non nega nell’inquieta
    casa di Perdel’kino – è il furore
    che oggi lo condanna e un unico amore
    respira in lui, fa dubitare te.

    Saluti

  8. @dp

    No, Fortini non avrebbe amato Pusterla. Avrebbe giudicato velleitaria la pretesa di scrivere poesia ‘impegnata’ dicendo cose così generiche e ovvie e avrebbe giudicato epigonale lo stile.

  9. @ Abate
    Potrei essere anche d’accordo con lei sulle petizioni di principio. Lo schermo della “poesia civile”, il “lotofagismo” degli intellettuali, l’aristocrazia degli spiriti malinconici, mi sembra anche ben detto. Non sono d’accordo con lei su ciò che la poesia “dovrebbe” essere: credo che l’astuzia dell’arte, quando è arte, sia quella di sparigliare le aspettative; astuzia non di meno politica, se vogliamo: e i conti non si tirano con i programmi, ma con i risultati. Lei dichiara morta la borghesia (ne è sicuro? O non è piuttosto una morte in trompe-l’oeil?) e chiede a un poeta di scrivere di cose che non conosce: le colpe, i devastatori, gli egiziani – la verità è che la poesia in Italia è sempre stata un privilegio borghese (un privilegio indifendibile, scriveva un proprietario terriero in sospetti di colpa) anche quando tentava di tutto per non esserlo. Si scrive di ciò che si può, di ciò che si ha la forza o la sfortuna di conoscere; se ciò è poco, se non si riesce a uscire dal cerchio chiuso e asfittico di un solipsismo intellettuale, questo significherà qualcosa – qualcosa anche di storico, forse? – potrà essere assunto finanche tragicamente. Inutile forzare velleitariamente verso l’universale, se l’universale ormai non si dà che per astrazioni; si rischia qualcosa di falso e posticcio (a meno che concetti e astrazioni non siano compresi e vissuti, sofferti direi, come fatti della propria mitografia espressiva). Si può discutere piuttosto sull’ipotesi che la poesia sia in una fase storica di assoluto ripiegamento o esaurimento, che la soggettività borghese in disarmo non abbia più forza rappresentativa e che la lirica sia cosa morta – non credo alla fine della storia, mi affascina però il tramonto dell’Occidente: e allora piuttosto si cambi mezzo, d’accordo, perché gli strumenti che il genere ha a disposizione sono diventati inservibili. O si scruti l’orizzonte in attesa di nuove forze e negazioni, accettando la propria senescenza e lasciandosi colonizzare dai barbari che arrivano, passando loro il testimone. Se c’è un’astuzia politica nella poesia di Fortini, che entrambi stimiamo, è proprio nell’uso insistito di quei mezzi per un ultimo giro di giostra, con la lucidità di non nasconderne il privilegio, ma di esasperarlo – e di risalire la china fino a un’inattuale “aristocraticità”. Ma basta con i massimi sistemi; sulla poesia di Pusterla – che non m’interessa difendere più di tanto, devo ammettere – credo che lei faccia una lettura pregiudizievole; di ogni passo da lei citato si potrebbe concludere esattamente l’opposto con argomentazioni ugualmente valide, esercizio che – sarò sincero – non ho molta voglia di fare. Ma per intenderci: lo “scrigno barocco” che tanto la infastidisce, sì, alta e stucchevole eloquenza: ma non sarà mica voluta? Non ci sarà una qualche amara ironia formale (cfr. l’ultimo Fortini)? La sublimazione rassegnata e pietistica, che lei giudica generica: ma non sarà forse un sintomo, questa genericità, di una crisi epistemologica? E questa rassegnazione, siamo sicuri che venga compiutamente sublimata, o piuttosto non è uno sforzo di sublimazione che stenta (con la complicità di una “folaga” che è segno d’altro mondo ma scarsamente epifanico; immagine montaliana ma di presenza quantitativamente e qualitativamente diminuita), che stenta e cade in sordina (lo suggeriscono metrica e sintassi, il tentativo di apertura e slancio del verso che s’allunga e poi ripiega, la chiusa in anticlimax)? O ancora, lo slittamento deresponsabilizzante dal piano della storia a quello della natura: posta la certezza di questa assoluta separazione (io non ho questa certezza; credo anzi che il materialismo storico faccia un errore di hybris, in tal senso, che probabilmente lo stesso Marx avrebbe respinto), come può interpretare così ingenuamente la presenza della natura in poesia? Dovrebbe sapere, da lettore di Fortini, che la natura non è MAI solo natura, in poesia: è innanzi tutto un repertorio simbolico privilegiato, è il regno per eccellenza della mediazione formale, e in quanto tale elemento costruttivo privilegiata dall’allegoria – e cosa c’è di più compromesso con la storia dell’allegoria? Più ancora, la voce che si leva dalla cittadella della cultura – la torre d’avorio e bla bla bla – evocando Kafka e Walser – letteratura della letteratura come non se ne ha pari nel Novecento. Così sicuro che sia consolatoria? Walser si sdraia nella neve, dovrebbe saperlo, alla fine di una celebre passeggiata fuori del sanatorio in cui s’era rinchiuso per anni, e muore, esattamente come avrebbe fatto un suo alter ego letterario – se ha letto la Passeggiata, uno dei racconti più implacabilmente (e inspiegabilmente) inquietanti del Novecento, capirà che l’epifania di quella voce che ne legge, in Pusterla, ha molti più strati che in apparenza: non si tratta di sola letteratura, di letteratura della letteratura, ma di qualcosa che fa corto circuito con la vita; di un’interrogazione, di un’aspettativa su quel corto circuito terribile – capacità di profezia? Ossessione portata al parossismo? Perturbante, ma anche speranzosa corrispondenza di opera e vita, anzi di opera e morte? Anche qui, Fortini le insegnerà che questo, proprio questo punctum dolens, quello che l’arte riesce a farne, è politica. Infine, “l’intimismo amicale” sullo sfondo del fiume… sicuro di sapere a cosa allude? le “due opposte rive” su cui non ci si sa collocare… Ha letto Un posto di vacanza di Sereni? La prima parte, almeno? Sa di cosa parla? Sa che Fortini, dalla riva opposta, gli inviò un epigramma? Sa che una notte del ’51 erano riuniti a Bocca di Magra a parlare della Corea, e Sereni s’era rabbuiato, e aveva commentato qualcosa di stizzito su quei “parlanti parlanti e parlanti sull’onda della libertà” (cito a memoria, potrei sbagliare)? Sa che ne nacque un feroce diverbio? Era appunto sul “privilegio indifendibile” della poesia che litigavano, o meglio sulla divaricazione tra quel privilegio e l’impegno civile, la presa di posizione rigorosamente marxista ecc., tutto documentato nell’epistolario, ma è agevolmente reperibile nel Meridiano di Sereni. Le consiglio di leggere le poesie che si scambiarono in quell’occasione, le lettere che ne seguirono, se non l’ha già fatto: non glielo consiglio spocchiosamente, si figuri (nessuno è tenuto a tanto!), ma perché sono molto belle e significative. Pusterla conosce sicuramente l’episodio, è di ascendenze lombarde come Sereni e considera Fortini un maestro, quindi non credo di esagerare nell’individuare la fonte. A conti fatti, il solipsismo malinconico di cui accusa questa poesia non è tanto ingenuo quanto lei crede. Oltre ad essere estremamente smaliziato come solipsismo, per il fatto stesso che rimandi consapevolmente a tanto “mondo” fuori del testo – certo, il mondo culturale di cui partecipa, il mondo borghese e circoscritto che respira, come solo può un poeta residualmente lirico – non è già più solipsismo, ma qualcos’altro. Poi, sull’altezza dei risultati si può sempre disputare, infinitamente. Non spero di averla convinta, ma di averle offerto qualche dubbio.

    @ Franco F
    Franco, lo sappiamo che sei incontentabile. Ma alla fine ti piace, dai, ammettilo; fai sempre così: cacci sempre tutti dalla porta per poi riammetterli dalla finestra. Le cose generiche e ovvie ti sono sempre piaciute: le hai ripetute allo strenuo. E poi ti lusinga avere degli epigoni.

  10. @dp

    Evidentemente lei non mi conosce affatto, le cose ovvie non mi sono mai piaciute. E poi Pusterla non è certo un mio epigono. E’ epigono di Sereni, magari, o dell’ultimo Montale o di Raboni. Non mio.

  11. @ Ciriachi

    Caro Fabio,
    ti rispondo per punti, sinteticamente e senza preamboli:

    1. “io non mi aspetto che una poesia dica come risolvere il problema dei migranti “.… eppure avevo invocato in anticipo: « per carità, non ditemi che voglio ridurre la poesia alla politica!». Ma tu imperterrito mi ribatti:« io non mi aspetto che una poesia dica come risolvere il problema dei migranti». Amen…

    2. No, io non “stigmatizzo” nulla, non credo di odiarmi né di odiare chi mi amasse. Psicologizzare una posizione, che vuole essere di lettura critica (personalissima e discutibilissima, certo ), alludendo a eventuali contorcimenti ambivalenti della psiche di chi critica, distrae dal compito semplice e alla portata di tutti di valutare punto per punto se le mie affermazioni sono fondate o infondate, colgono qualcosa di significativo o meno. Psicologizzando, invece, si getta ombra dove la luce ancora ci permetterebbe di vedere e distinguere che A non è uguale a B e che se io ho detto A non intendevo dire B (Cfr. punto 1). Non mi pare una buona cosa.

    3. Non c’è nessuna legge per cui una poesia « prima o poi, arriva a essere politica». La poesia non ha in sé nessun DNA che la farà diventare politica. Questo è un determinismo finalistico da cui mi sento lontano.

    4. No, non considero Obama e Letta «cause di una situazione». Costoro ed altri sono solo *figure* che sintetizzano simbolicamente blocchi giganteschi di interessi politici, economici, sociali e culturali, purtroppo oscuri e male indagati. È proprio l’essersi lasciati ipnotizzare da certi leader ( o il produrne in serie) ad aver procurato un degrado, impensabile in passato, dei ragionamenti politici. Così gli “intellettuali”, volgendo le spalle ai maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), si sono tutti concentrati sul visibile (televisivo e massmediale in genere) e si sono stancati di esplorare i movimenti profondi e tremendi, che sono le vere « cause di una situazione».

    5. No, non sono in grado di «venire a capo di Obama e di Letta». Non sono un megalomane. La politica non la fanno singoli individui. E’ il prodotto di un complesso e non del tutto controllabile gioco di forze, spesso sporco, enigmatico, menzognero, entro il quale gli individui fanno “la loro parte”: maggiore o minore, a seconda della loro collocazione in questo gioco e delle circostanze reali, che riescono (più o meno) a capire.

    6. È una deformazione di lunghissima tradizione (togliattiana) ridurre il leniniano “che fare?” al piano elettoralistico. Io sostengo che solo *moralmente* (e non *politicamente*!) « l’astensionismo elettorale è comunque meglio che dover scegliere fra i soliti noti». Detto in altri termini: oggi in Italia, quando ci permettono di votare, uno si sente *moralmente* meglio se rifiuta di scegliere (?) «fra i soliti noti», ma deve sapere, se no è un ingenuo, che *politicamente* la sua scelta (scelta morale, ripeto) non smuove nulla. Perché la politica è altra cosa dalla morale ( e dalla poesia).

    7. Ma allora la poesia (o la morale) possono convivere tranquillamente con una cattiva politica? Dobbiamo accettare, con Kant, che la morale (e, aggiungerei io, la poesia) debba fermarsi al “privato” o al “semiprivato” e *obbedire* ( allo Stato), senza mai più pretendere di intervenire *con la propria voce* nel “pubblico” (da intendersi come *res publica*, come potenziale luogo storico per la costruzione di un’altra *polis* e, anche, di un’altra * poesia civile*)?

    Io penso di no. Ma prevale un kantismo degli intellettuali (e dei poeti), di cui in questo tuo intervento,ti fai paladino, col quale bisogna fare i conti. E non è facile.
    Riporto e riassumo, riprendendolo da una ormai introvabile antologia, *Gli argomenti umani* di Fortini e Vegezzi (Morano, Napoli, 1969), un passo di Kant da *Che cos’è l’Illuminismo*.
    Dopo aver detto che all’«illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di *fare pubblico uso* della propria ragione in tutti i campi», subito egli ripiega, limitandola al “campo culturale”: «Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come *studioso* davanti all’intero pubblico dei *lettori*» e ammette come cosa “normale” che «per molte operazioni che si compiono nell’interesse della comunità [ vedi quelle che stanno compiendo Letta & C.!], occorre una certa meccanicità per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo per concorrere ai fini comuni o almeno per non contrariarli, armonizzando la loro condotta con l’opera del governo. Qui senza dubbio non è permesso ragionare, ma si deve obbedire».
    Tu sulla falsariga di tale posizione ti muovi quando mi dici:«e allora perché chiedere a qualcosa di così circoscritto e particolare [la poesia] un ruolo che per sua natura [!?] non può avere?». Sei tu che circoscrivi le possibilità (e io dico anche, sì, i compiti) della poesia; e addirittura presenti tale amputazione (per me) come qualcosa di naturale, dimenticando quanta poesia epica o direttamente *poetico-politica* sia stata prodotta nei secoli.

    8. Mi citi – e me l’aspettavo – il detto di Fortini (“Il poeta è democratico, la poesia è aristocratica”) che, ogni volta che ho tentato di riproporre la questione del rapporto poesia/politica, è servito a tapparmi la bocca da parte dei più solerti e dotti “compagni”. Ora, a parte il fatto che io interpreto quel detto come una forzatura polemica di Fortini contro Sanguineti (in che anno si era?) da prendere *cum grano salis*, a parte il fatto che Sanguineti esaltava ambigue istanze neoavanguardistiche, che poi lo portarono dalle fiammeggianti posizioni extraparlamentari di *Quindici* al pompieraggio dagli scranni parlamentari nel PCI (e davvero ho preferito sempre *moralmente* la posizione “aristocratica” di Fortini alla sua, anche se , col senno di poi, la sconfitta *politica* è venuta per tutti e c’è poco da consolarsi oggi a essere “fortiniani” invece che”sanguinetiani”…) , non capisco come tu possa pensare che io « addebiti al campo della poesia le conseguenze delle (per me insormontabili) difficoltà in cui la presente situazione politica globale costringe».
    No, la poesia ha le *sue* responsabilità, come la politica degli ex-sinistri comunisti e socialisti riciclatisi tutti ( senza soverchie spiegazioni) in “democratici” ha le proprie. Distinguiamole e ragionamoci su. Ma per carità non copriamole col la foglia di fico della “complessità”. Un saluto.

    P.s.
    Appena posso risponderò a Baretta, Lo Vetere e .dp.
    Appena posso rispondo a

  12. @ Ciriachi

    Caro Fabio,
    ti rispondo per punti, sinteticamente e senza preamboli:

    1. “io non mi aspetto che una poesia dica come risolvere il problema dei migranti “.… eppure avevo invocato in anticipo: « per carità, non ditemi che voglio ridurre la poesia alla politica!». Ma tu imperterrito mi ribatti:« io non mi aspetto che una poesia dica come risolvere il problema dei migranti». Amen…

    2. No, io non “stigmatizzo” nulla, non credo di odiarmi né di odiare chi mi amasse. Psicologizzare una posizione, che vuole essere di lettura critica (personalissima e discutibilissima, certo ), alludendo a eventuali contorcimenti ambivalenti della psiche di chi critica, distrae dal compito semplice e alla portata di tutti di valutare punto per punto se le mie affermazioni sono fondate o infondate, colgono qualcosa di significativo o meno. Psicologizzando, invece, si getta ombra dove la luce ancora ci permetterebbe di vedere e distinguere che A non è uguale a B e che se io ho detto A non intendevo dire B (Cfr. punto 1). Non mi pare una buona cosa.

    3. Non c’è nessuna legge per cui una poesia « prima o poi, arriva a essere politica». La poesia non ha in sé nessun DNA che la farà diventare politica. Questo è un determinismo finalistico da cui mi sento lontano.

    4. No, non considero Obama e Letta «cause di una situazione». Costoro ed altri sono solo *figure* che sintetizzano simbolicamente blocchi giganteschi di interessi politici, economici, sociali e culturali, purtroppo oscuri e male indagati. È proprio l’essersi lasciati ipnotizzare da certi leader ( o il produrne in serie) ad aver procurato un degrado, impensabile in passato, dei ragionamenti politici. Così gli “intellettuali”, volgendo le spalle ai maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, Freud), si sono tutti concentrati sul visibile (televisivo e massmediale in genere) e si sono stancati di esplorare i movimenti profondi e tremendi, che sono le vere « cause di una situazione».

    5. No, non sono in grado di «venire a capo di Obama e di Letta». Non sono un megalomane. La politica non la fanno singoli individui. E’ il prodotto di un complesso e non del tutto controllabile gioco di forze, spesso sporco, enigmatico, menzognero, entro il quale gli individui fanno “la loro parte”: maggiore o minore, a seconda della loro collocazione in questo gioco e delle circostanze reali, che riescono (più o meno) a capire.

    6. È una deformazione di lunghissima tradizione (togliattiana) ridurre il leniniano “che fare?” al piano elettoralistico. Io sostengo che solo *moralmente* (e non *politicamente*!) « l’astensionismo elettorale è comunque meglio che dover scegliere fra i soliti noti». Detto in altri termini: oggi in Italia, quando ci permettono di votare, uno si sente *moralmente* meglio se rifiuta di scegliere (?) «fra i soliti noti», ma deve sapere, se no è un ingenuo, che *politicamente* la sua scelta (scelta morale, ripeto) non smuove nulla. Perché la politica è altra cosa dalla morale ( e dalla poesia).

    7. Ma allora la poesia (o la morale) possono convivere tranquillamente con una cattiva politica? Dobbiamo accettare, con Kant, che la morale (e, aggiungerei io, la poesia) debba fermarsi al “privato” o al “semiprivato” e *obbedire* ( allo Stato), senza mai più pretendere di intervenire *con la propria voce* nel “pubblico” (da intendersi come *res publica*, come potenziale luogo storico per la costruzione di un’altra *polis* e, anche, di un’altra * poesia civile*)?

    Io penso di no. Ma prevale un kantismo degli intellettuali (e dei poeti), di cui in questo tuo intervento,ti fai paladino, col quale bisogna fare i conti. E non è facile.
    Riporto e riassumo, riprendendolo da una ormai introvabile antologia, *Gli argomenti umani* di Fortini e Vegezzi (Morano, Napoli, 1969), un passo di Kant da *Che cos’è l’Illuminismo*.
    Dopo aver detto che all’«illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di *fare pubblico uso* della propria ragione in tutti i campi», subito egli ripiega, limitandola al “campo culturale”: «Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa come *studioso* davanti all’intero pubblico dei *lettori*» e ammette come cosa “normale” che «per molte operazioni che si compiono nell’interesse della comunità [ vedi quelle che stanno compiendo Letta & C.!], occorre una certa meccanicità per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo per concorrere ai fini comuni o almeno per non contrariarli, armonizzando la loro condotta con l’opera del governo. Qui senza dubbio non è permesso ragionare, ma si deve obbedire».
    Tu sulla falsariga di tale posizione ti muovi quando mi dici:«e allora perché chiedere a qualcosa di così circoscritto e particolare [la poesia] un ruolo che per sua natura [!?] non può avere?». Sei tu che circoscrivi le possibilità (e io dico anche, sì, i compiti) della poesia; e addirittura presenti tale amputazione (per me) come qualcosa di naturale, dimenticando quanta poesia epica o direttamente *poetico-politica* sia stata prodotta nei secoli.

    8. Mi citi – e me l’aspettavo – il detto di Fortini (“Il poeta è democratico, la poesia è aristocratica”) che, ogni volta che ho tentato di riproporre la questione del rapporto poesia/politica, è servito a tapparmi la bocca da parte dei più solerti e dotti “compagni”. Ora, a parte il fatto che io interpreto quel detto come una forzatura polemica di Fortini contro Sanguineti (in che anno si era?) da prendere *cum grano salis*, a parte il fatto che Sanguineti esaltava ambigue istanze neoavanguardistiche, che poi lo portarono dalle fiammeggianti posizioni extraparlamentari di *Quindici* al pompieraggio dagli scranni parlamentari nel PCI (e davvero ho preferito sempre *moralmente* la posizione “aristocratica” di Fortini alla sua, anche se , col senno di poi, la sconfitta *politica* è venuta per tutti e c’è poco da consolarsi oggi a essere “fortiniani” invece che”sanguinetiani”…) , non capisco come tu possa pensare che io « addebiti al campo della poesia le conseguenze delle (per me insormontabili) difficoltà in cui la presente situazione politica globale costringe».
    No, la poesia ha le *sue* responsabilità, come la politica degli ex-sinistri comunisti e socialisti riciclatisi tutti ( senza soverchie spiegazioni) in “democratici” ha le proprie. Distinguiamole e ragionamoci su. Ma per carità non copriamole con la foglia di fico della “complessità”. Un saluto.

    P.s.
    Appena posso risponderò a Baretta, Lo Vetere e .dp.

  13. @ Baretta

    « non capisco in che senso, per lei, la borghesia sarebbe finita».

    E’ un fatto su cui concordano studiosi di diversa impostazione e che è uno dei nodi dell’attuale “crisi”. Mi limito, tra i tanti possibili, a stralciare da alcuni siti dei passi in proposito:

    1.
    BORGHESIA E POSTBORGHESIA NELL’ERA NEOCAPITALISTA
    Intervista di Luigi Tedeschi a Costanzo Preve

    http://www.centroitalicum.it/giornale_2006/2006_12_preve-intervista.php

    «Consentimi allora di tentare anch’io un’articolazione del mio modello post-borghese ed ultracapitalistico, e cioè di un capitalismo “totalitario” senza classi che ha metabolizzato la sua precedente fase borghese e proletaria. Tieni conto però che mentre nel campo della filosofia rivendico una pur modesta solida professionalità, nel campo della sociologia sono un dilettante puro. Detto questo, penso che in un primo ancora incerto approccio alla struttura sociale contemporanea potremmo immaginare una sorta di piramide a quattro piani: al vertice una nuova classe dominante mondiale post-borghese, subito sotto una classe media globale occidentalizzata (western-type global middle class), sotto ancora un post-proletariato flessibile, precario ed integrato in un sistema performativo dei consumi differenziati, ed infine alla base un nuovo esercito industriale di riserva di immigrati. E’ evidente che questo discorso non riguarda il mondo intero, ma solo la sua parte “occidentale”.
    Iniziamo con il vertice della piramide, la nuova classe dominante mondiale post-borghese. Essa rappresenta storicamente un quinto stadio (non definitivo, perché non esiste “fine della storia” se non nei deliri di onnipotenza del clero della nuova religione imperiale USA) di una precedente progressione articolata (pre-borghesia, proto-borghesia, medio-borghesia, tardo-borghesia e appunto ora post-borghesia). Questa post-borghesia è il frutto della fusione fra una componente vetero-borghese ancora intrisa di valori nobiliari, sia pur modificati, ed una recente componente neo-borghese di arricchiti con la pezze al sedere, sia pure pezze ornate di borchie d’oro massiccio. Questa fusione di snob con la puzza al naso e di “furbetti del quartierino” è un fenomeno mondiale, e non certo solo una pittoresca degenerazione romanesca. Dal punto di vista culturale, questa post-borghesia è frutto di un livellamento verso il basso quasi incredibile, e questo spiega il doppio fenomeno dello smantellamento della vecchia scuola borghese nata circa duecento anni fa sia l’incredibile volgarità della produzione televisiva. Filosoficamente parlando, si tratta della fine della “coscienza infelice” di hegeliana memoria, che fu sempre matrice della inquietudine delle precedenti avanguardie intellettuali, indifferentemente di destra e/o di sinistra, da Julius Evola a Amedeo Bordiga, da Ezra Pound ad Antonio Gramsci.
    Passiamo al secondo strato della piramide, la classe media globale occidentalizzata (western-type global middle class). Questa classe media senza coscienza infelice, priva di tentazioni fasciste e/o comuniste, si definisce principalmente sulla base dei due parametri del reddito e delle forme di consumo “colto”, (abbigliamento, arredamento, viaggi culturali, eventi, presenzialismo mondano-mediatico, accesso a servizi scolastici e medici di buon livello, conoscenza dell’inglese, relativa sicurezza del reddito, voto politico di centro con sfumature puramente “estetiche” di sinistra e “religiose” di destra, eccetera). Questa classe media globale occidentale non ha più le vecchie inquietudini della piccola borghesia, e quindi non è più attratta dagli “estremi” politico-culturali. Filosoficamente nichilista, il suo nichilismo relativistico dipende però esclusivamente dal livello del reddito. Quando quest’ultimo calasse in modo radicale, ci si potrebbe aspettare riorientamenti culturali ancora per ora imprevedibili. I giornali e la produzione editoriale sono “tarati” per i suoi gusti, laddove la televisione è invece “tarata” per la classe che le sta al di sotto e di cui ora parlerò.
    Il terzo strato è il post-proletariato flessibile, precario ed integrato in un sistema performativo di consumi differenziati. Il circo mediatico-televisivo è “tarato” quasi esclusivamente su questo terzo strato, e rappresenta l’equivalente post-moderno del vecchio clero religioso medioevale basato sul la predicazione. Con la fine della produzione fordista e del suo raddoppiamento economico keynesiano questo strato sociale resta ovviamente “industriale” (il cosiddetto post-industriale è un’invenzione di furbastri per il consumo degli idioti), ma perde le sue basi organizzative e sindacali che ne avevano permesso la precedente rappresentanza politica (indifferentemente populista, laburista, socialdemocratica, comunista occidentale, eccetera). Ogni possibilità “rivoluzionaria” futura passa necessariamente dallo scollamento economico e politico fra questo terzo stato ed il secondo, laddove il primo ad il quarto non mi sembrano decisivi.
    Il quarto strato, infine, è composto dalle ondate di immigrati poveri con cui i dominanti del primo strato indeboliscono il potere contrattuale del terzo, laddove il secondo viene conquistato dalle ideologie del multiculturalismo e dalla società-arcobaleno (di cui però solo appunto il terzo stato è chiamato a pagare i costi). E con questo termino questa sommaria radiografia sociologica che mi hai stimolato a fare.»

    2.

    Giuseppe De Rita

    http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_news.asp?id_contenuto=3725987

    Che fine ha fatto la borghesia? E perché è scomparsa? A Giuseppe De Rita, presidente del Censis e sismologo della società italiana, viene in mente quella pagina di Napoli milionaria in cui il protagonista torna dalla guerra e trova una famiglia a pezzi. «Che cosa è successo? Ma perché siamo diventati così?», si interrogano i diversi personaggi in un crescendo drammatico. La stessa cosa – aggiunge De Rita – dovrebbero fare i borghesi italiani, razza ormai estinta. Se già quindici anni fa nell’Intervista sulla borghesia in Italia la diagnosi non inclinava a ottimismo, nel nuovo saggio scritto insieme ad Antonio Galdo – L’eclissi della borghesia – la sentenza volge al requiem (Laterza, pagg. 92, euro 14). La borghesia è sepolta, o forse non è mai nata.

    Una certificazione di morte.

    «Direi meglio, la fine di una speranza. S’è esaurita l’idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi collettivi. Sin dall’origine dello Stato nazionale, ci siamo illusi che da segmento relativamente piccolo – spazio intermedio tra cultura popolare e cultura d’élite – questo gruppo sociale sarebbe cresciuto fino a governare le sorti del paese. Questo non è accaduto. O è accaduto fino a un certo punto».

    La borghesia svolse un ruolo centrale nel processo risorgimentale e nell’Italia liberale.

    «Sì, ma le cose si complicano già sotto il fascismo, che comunque mantiene lo spazio per un’élite borghese, ossia gli uomini formati da Alberto Beneduce. E nel dopoguerra non mancò certo una classe dirigente che seppe ricostruire un paese distrutto e screditato sul piano internazionale».

    Quando comincia il declino?

    «Negli anni del boom economico, con la grande avventura dell’italiano medio. È stata la cetomedizzazione della società italiana – mi piace chiamarla così – a causare la definitiva eclissi della borghesia».

    Come è accaduto?

    «Fino agli anni Cinquanta la società era divisa in tre fasce. La classe esigua dei padroni. La classe numerosa di braccianti e operai. E un ristretto ceto medio, tra amministratori di latifondo e impiegati dello Stato. Tutto cambia quando scatta la molla del benessere. Allora si mette in moto un processo di imborghesimento collettivo. Una vera esplosione che risucchia dall’alto e dal basso tutti i settori della società».

    Nasce l’imprenditoria di massa.

    «La corsa al benessere accentua le nostre caratteristiche di popolo individualista. Proliferano comunità di piccoli imprenditori, piccoli commercianti, piccoli professionisti. In un solo decennio, tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, lo stock delle aziende è raddoppiato, passando da 490.000 a un milione. Diventiamo un paese di ex poveri, con l’illusione di essere tutti borghesi».

    Che significa?

    «Adottiamo gli stessi stili di vita. L’automobile. La casa di proprietà. Il figlio all’università. Magari la botteghina per la moglie. Anche gli arredi si uniformano: alle credenze di legno scuro subentrano i mobili bianchi. Scopriamo la vita agiata e la confondiamo con una vita borghese».

    Qual è la differenza?

    «Si perde di vista l’interesse collettivo. Prevale il primato del benessere e della sicurezza, nell’indifferenza verso gli altri. In altre parole, lo spazio intermedio precedentemente occupato dalla borghesia viene invaso da questo nuovo ceto, che è preoccupato solo di mantenere lo status raggiunto e non riesce a esprimere una classe dirigente dallo sguardo lungo». […]

    3.

    Gianfranco La Grassa

    http://www.retididedalus.it/Archivi/2006/Aprile/FILOSOFIE%20PRESENTE/K.%20marx%20renaissance.pdf

    La verità è che la storia del novecento ha bisogno di essere riscritta in gran parte con una
    metodologia che si ispiri, almeno parzialmente, alla considerazione delle strutture sociali che fu
    tipica del marxismo. Secondo la mia opinione, è stato perso – ma da tutti, non dai soli marxisti – un fondamentale passaggio di forma storica dei rapporti sociali, avvenuto nell’epoca detta
    dell’imperialismo, in cui furono poste le premesse per una trasformazione del capitalismo. Mancano attualmente i concetti per afferrare questo passaggio che indicherò allora, pur con imprecisione teorica (cioè approssimativamente), come transizione dalla società dominata dalla vecchia borghesia proprietaria (dei mezzi produttivi e dei capitali finanziari) a quella, di tipo americano, dei funzionari del capitale, che poi, nel corso del mezzo secolo susseguente alla seconda guerra mondiale, ha sconfitto il “socialismo reale” e si è rimondializzata sotto il predominio degli USA.
    Ed è precisamente a questo punto che i marxisti e comunisti non hanno capito più niente. Per loro, la fine della borghesia proprietaria (e finanziaria) avrebbe dovuto significare l’affermarsi della rivoluzione proletaria (e della classe operaia) contro un capitalismo ormai morente, stagnante, incapace sia di sviluppo che di democrazia, pur solo formale. Strano destino: i paesi capitalistici occidentali si sono sviluppati impetuosamente, anche attraverso crisi (minori, dette non a caso recessioni), mentre il “socialismo” – affermatosi sempre in paesi arretrati, con grandi masse contadine e pressoché privi del “soggetto rivoluzionario” per eccellenza, la classe operaia – è entrato in fase di ristagno, di putrefazione ed è infine crollato in modo inverecondo senza nemmeno un piccolo sussulto di resistenza; anzi, dove si è risvegliato, lo ha fatto con strutture di nuovo capitalismo selvaggio, estremamente duro e autoritario, che indubbiamente va ponendo le basi per un affrontamento generale nei confronti del paese al momento predominante (USA), ma non certo sulla base di una lotta per il comunismo, non certo fondandosi sul potere dei proletari, che invece sono eminentemente “schiavizzati” (assai più che nei capitalismi del Welfare) e non hanno alcuna difesa; debbono solo lavorare, e ancora lavorare, per le “magnifiche sorti e progressive” delle loro classi capitalistiche dominanti (spesso lo stesso establishment che si autoproclamava comunista), dotate di un potere accentratore di particolare forza, durezza e ferocia.

  14. @ Franco
    Evidentemente nessuno ti conosce meglio di te stesso. La storia degli epigoni però è molto divertente. Montale, Sereni, Raboni: ma è troppo facile. Chi non è epigono “dell’ultimo Montale”? Se risaliamo la china chissà quanti epigoni di Dante e Petrarca troveremo nella nostra bella poesia. Franco, ti facevo più fino. Nessuno si conosce peggio di se stesso.

  15. @ Lo Vetere

    Caro Lo Vetere, imputare agli spiriti aristocratici e malinconici (non automaticamente solipsistici) una certa deresponsabilizzazione, sarà una «accusa ben nota», ma, ripetendosi le atrocità della storia, non mi pare che essa abbia oggi meno valore. Né si tratta di essere originali a tutti i costi. Non per il gusto di provocare ma di ragionare sulla possibile funzione della poesia oggi, potremmo chiederci alcune cose.
    Ad es., perché lei, che è giovane, è portato a fare sue le «difese altrettanto ben note», mentre io, che sono vecchio, insisto ad accusare? Perché a lei piace la frase di Montale che, da buon liberale, credeva di dover evitare un impegno troppo diretto «nell’agone storico», mentre invece io concordo ancora con Fortini ( Cfr. la voce Montale, in Ventiquattro voci per un dizionario di lettere e il «Satura» nel 1971, in Saggi italiani 2, Garzanti, Milano 1987 e un mio tentativo di riflessione qui: http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/07/per-una-poesia-esodante-ennio-abate-la.html); e ritengo che Montale, spalmasse sulla sua crisi esistenziale linguaggio alto borghese per occultare il conflitto storico e truccarsi – parole di Fortini – «da grande borghese»? Eppure era un grande poeta e Fortini gli riconosceva una «verité noire», negativa ma profonda.
    Come mai allora parole così nette tra poeti e oggi un diplomatismo pluraleggiante e pacioccone? E perché lei mi fa notare che è stato possibile leggere Leopardi persino in salsa «democratico progressista» e salta a piè pari tutte le letture antimoderate di Timpanaro per non parlare di quelle “rivoluzionarie” (discutibilissime) del Negri di «Lenta ginestra»?
    Non mi attribuisca, per favore, l’intento di vietare che i poeti s’interroghino «davanti alla Natura» o che possano «esprimersi» in modi imperterriti o obliqui per dire ciò che non si può più dire altrimenti. La stessa «interiorità» (da specificare però) non è per me un tabù da cancellare in nome della politica. E, come ho detto a Ciriachi, sarebbe sciocco pretendere dai poeti che lo risollevino loro questo mondo. Né mi scandalizzo «se s’interrogano». Tutto può e anzi *dovrebbe* essere interrogato con il massimo di rigore. (E io sto interrogando la funzione della poesia oggi…). Ma, anche in poesia, le risposte che vengono date vanno verificate e, quando contrapposte, secondo me, bisognerà pur scegliere. E senza fare sconti a nessuno. Io non darei mai l’ultima parola a un poeta, come se, in quanto poeta, avesse un accesso garantito alla verità o a una politicità automaticamente operante nel linguaggio poetico. Amo la poesia che non si quieta e appunto interroga e tenta risposte. Ma c’è anche una poesia che divaga. Perché anche in poesia si può dire il vero e il falso. E si può *fingere* (e immaginare) per occultare oppure per svelare e smascherare.
    È vero che io amo molto Fortini, ma perché, come ho scritto di recente leggendo in ritardo il libro di Balicco, «Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico» (Cfr. http://moltinpoesia.wordpress.com/2013/09/23/ennio-abate-su-non-parlo-a-tutti-franco-fortini-intellettuale-politico-di-daniele-balicco/) , in lui è ancora «l’idea che «cultura e politica sono la medesima cosa, espressa con mezzi diversi» (p. 65) a caratterizzare la sua ricerca intellettuale e poetica; e ad averlo reso ostico al ceto intellettuale italiano, che di solito ha sempre preferito rifugiarsi nel terreno “autonomo” dell’estetica».
    Lei, però, perché ama Giudici? Non conosco le lettere che i due si scambiarono (e le sarei grato se mi indicasse dove trovarle). Ma se le cose stanno come lei le riferisce («Giudici concedeva agli altri uomini il diritto di contraddirsi, diritto che lui (Fortini) non concedeva nemmeno a se stesso»), mi chiederei ancor più le ragioni profonde dei due contrapposti atteggiamenti.

  16. Caro Ennio, nella risposta al tuo intervento ho cercato di far coincidere due cose forse inconciliabili, l’immediatezza (ho risposto subito, sull’onda della prima lettura) e la precisione. Le conseguenze negative di questo ibrido sono tanto maggiori quanto più bassa è l’elasticità nel cogliere le intenzioni presenti, in modo più o meno celato, nella lettera. Questo spiega che mi sia sfuggito il tuo preambolo « per carità, non ditemi che voglio ridurre la poesia alla politica!»; o meglio, spiega che, malgrado il preambolo, qualcosa del genere di voler ridurre la poesia a politica forse è diffusamente presente nel tuo commento. Per brevità ti dico che concordo in pieno con la contro lettura delle tue obiezioni critiche che fa .dp. nel suo commento che inizia con :”Potrei essere anche d’accordo con lei sulle petizioni di principio” in cui gli stessi versi di Pusterla nei quali tu trovi riflessi criticabili lui li legge, o mostra che possono essere letti, legittimamente, in modo positivo. Quanto al 2, e all’appunto di psicologizzare al fine di confondere, be’, il principio che non sia bene farlo è validissimo, ma resta che hai proprio letto male il riferimento alla poesia di Bordini, so che tu non ti odi, ma usavo il principio paradossale di Bordini come una sorta di correlativo oggettivo delle ragioni che ti fanno criticare negativamente la poesia di Pusterla (evidentemente etiche, visto che non critichi né per ragioni politiche né estetiche); non so se sia psicologismo, avere delle impressioni, ma in ogni piega della tua esposizione io sento, nel senso che ho l’impressione, che tu sospetti talmente di tutto ciò che non ha la garanzia di politicamente condivisibile che finisci per non accettarlo; ovvero, mi sembri così capillarmente infilato nel dolore dell’esodo (proprio come l’anguilla di Montale che a forza di risalire l’acqua penetra gli interstizi delle rocce) che soffri anche per cose che non dovrebbero essere dolorose. Una simile rigidità la trovo anche nel punto 3 della tua risposta: “Non c’è nessuna legge per cui una poesia « prima o poi, arriva a essere politica». La poesia non ha in sé nessun DNA che la farà diventare politica. Questo è un determinismo finalistico da cui mi sento lontano” dici, e ti sfugge che il senso della mia affermazione, ancorché deterministico, era latamente da intendersi alla luce del vecchio “il personale è politico”, ovvero una poesia, come ogni esperienza che abbia un peso (se la poesia ha peso), finisce per avere un riflesso politico. E ancora, come puoi aver inteso che riduco il “che fare?” al piano elettoralistico? Ho citato quel piano solo perché tu vi facevi cenno; il “che fare?” ha un orizzonte molto più vasto, per fortuna (anche se residua fortuna). Di Obama e Letta, poi, io non avrei pronunciato neanche una sillaba se tu non li avessi citati, non so perché, o forse sì, quasi come inevitabili conseguenze di un tradimento degli intellettuali simile a quello desunto dai versi di Pusterla (forse non è così ma questo finisce per sembrare). Al punto 7, poi, leggi il contrario di quello che intendo; la morale non dovrebbe convivere con la cattiva politica, ma non so chi abbia affermato che invece debbano farlo, e se mi dici che nei secoli c’è stata tanta poesia etico-politica di valore io non posso che convenire, ma ti dico anche, quanto all’oggi, scrivila, dunque, se questo senti nelle tue possibilità, studiala, falla circolare, ma continua a considerare che non c’è solo quella, e tutta la poesia che non ha un deciso taglio etico-politico non è meno valida (se è valida). Quanto al Fortini che ti aspettavi (tutti abbiamo un Fortini da brandire!) ci può stare che avesse ragioni specifiche per confutare in quel modo posizioni di Sanguineti, ma quanto afferma resta un principio, secondo me, sostanzialmente valido. Le vie della forma sono molteplici, certa critica è utile a uno sviluppo dei rapporti di senso fra autore, testo e lettore, cert’altra rischia di soffocare o di non cogliere (penso ai commenti di Giorgio Linguaglossa a una poesia di Paola Febbraro) e ti confesso che nel leggere il tuo primo commento ho colto un po’ del suo stesso fuori misura. Capisco che l’ho detto male, quanto avevo in animo dii dirti, ti ho scritto come se ti stessi parlando, con la facoltà quindi di chiarire meglio. E chissà se ora ci sono riuscito.

  17. Caro Abate, mi trovo costretto a risponderle brevemente, per ragioni di tempo. Da domani e per alcuni giorni proprio non riuscirò, credo, neanche a leggere LPLC, e rimanderei molto la risposta, che le devo. Spero che per ora sia sufficiente questa breve.

    Leopardi. Citavo l’interpretazione di Luporini proprio per dire che persino dal negativo si può tirar fuori una ragione positiva (magari di lotta. Ma per la verità non mi ha mai convinto l’idea luporiniana di un Leopardi – ricordo l’espressione abbastanza bene -, ipoteticamente sulle barricate con i democratici nel ’48). Non ho citato altre interpretazioni solo per ignoranza. Conosco le tesi di Timpanaro solo per vie indirette (e non amo citare ciò che non ho letto) e ignoro quelle di Negri. La giovane età funga da parziale scusa.

    Stralci delle lettere fra Fortini e Giudici le trova nella preziosa cronologia del Meridiano di quest’ultimo. Non so se siano state pubblicate anche integralmente.
    Giudici mi piace per infinite ragioni. Molte sono assai personali e non vorrei denudarmi troppo in pubblico (anche se sono ragioni molto serie, intellettuali, non divaganti). Dico questo: se Pasolini concedeva lo scandalo del contraddirsi solo a sé, intellettuale-Cristo che assumeva sulla propria persona la coscienza di tutti, se Fortini non concedeva la contraddizione a nessuno (ma dei tre è anche quello che conosco meno bene, anche se il giudizio di Giudici mi pare che si attagli bene, da quel che so), Giudici era l’unico a non sentirsi diverso dai suoi vicini di casa ammaliati dal benessere del frigo e della tv.
    Per uno della mia generazione ricavarsi uno spazio intellettuale – e parlo di uno spazio pratico, fatto di relazioni, dialoghi, condivisione di progetti, azioni concrete – è difficilissimo, quasi impossibile. Al vicino (di scuola, di casa, …) mi accomunano il frigo e la tv e tutto quello che di nazional-popolare è seguito nei consumi e costumi. Non sono nelle condizioni di fustigarlo, di chiedergli rigore, di dargli coscienza. (Ammesso che sia chiamato a tanto e lasciando qui fra parentesi il fatto che invece, per fortuna, a scuola qualcuno ha ancora bisogno di guida). Non sono nelle condizioni perché mi guarderebbe senza comprendere: da bambini abbiamo giocato agli stessi videogiochi e a 13 anni ci siamo tagliati i capelli nella stessa orribile maniera da coatti.
    Credo che la postura intellettuale di Giudici sia molto più attuale, molto più spendibile per me, mentre sento quella di Pasolini e Fortini – che rispetto profondamente ovviamente – come assai più invecchiate.

    Se crede può chiedere alla redazione la mia mail, forse stiamo finendo OT.

    Saluti

  18. @ .dp.

    Intendiamoci sul mio « la poesia “dovrebbe” essere» e sulla sua «astuzia dell’arte». Se lei accoglie la seconda, e cioè dà spazio a un’intenzionalità del fare poetico, non mi pare molto lontano dalla mia posizione.
    Il campo della poesia sarà specifico quanto si vuole, inconfondibile da quello della politica, ma comunque mai è “naturale”, “spontaneo”, “selvaggio”, “anarchico”, “libero” nel senso in cui comunemente questi termini vengono usati. L’arte (la poesia) non nasce come un albero. (E poi, dacché l’umanità ha cominciato a calpestare questo pianeta ed è passata all’agricoltura, anche gli alberi sono stati curati e indotti a crescere in certi modi e non in altri).
    Dire che «si scrive di ciò che si può, di ciò che si ha la forza o la sfortuna di conoscere » significa per me assimilare troppo il fare poetico a un processo che pare vada per conto suo o sul quale nessuno – direttamente o indirettamente – interviene a condizionare, a spingere in una direzione o in un’altra. No, i poeti non sono come un pero che produce e può produrre solo pere.
    E poi i poeti migliori si sono sempre dati da fare per scrivere di cose *che non conoscevano* o non conoscevano bene. In poesia si va sempre un po’ oltre certe colonne d’Ercole che paiono insuperabili. A volte quasi inavvertitamente o magari cercando di rispettare meticolosammente la tradizione. A cominciare da Dante, che ci ha parlato dell’adilà mentre era ancora vivo. Né mi pare che Kafka sia dovuto passare prima per un lager o sia stato un inviato speciale di qualche grande giornale in Siria o in Afghanistan per dire *in poesia* un orrore che tanto assomiglia a quelli storici.
    Se, dunque, oggi i poeti hanno escluso o escludono dal campo della poesia certi temi (mettiamo «le colpe, i devastatori, gli egiziani»), ritenendoli non poetici o dichiarando di “non sentirli” o non sapendo più farli entrare neppure indirettamente o allegoricamente in poesia, e preferiscono scrivere «di ciò che si può, di ciò che si ha la forza o la sfortuna di conoscere», non è che li voglio costringere a salire su un gommone di migranti in arrivo a Lampedusa o ad andare a vivere in un campo di Gaza. Chiedo però a me e a loro se questo fare poesia “privata o “semiprivata” o che non è più capace di misurarsi con la storia (anche senza parlare di storia, di guerre, di migranti che affogano, ma trattando delle solite rose o dei soliti alberi) non sia l’accettazione rassegnata e suicida di una cecità *politica* procurata. E se, invece di essersi fatti «astuti come colombe», non si siano ridotti a gallinelle che starnazzano solo nei pollai consentiti.

    Sulla «morte della borghesia» ho già risposto a Baretta rimandando a testi che anche i poeti *dovrebbero* pur studiare. Perché certe letture “extracurriculari” farebbero intendere meglio a cosa si sia ridotto oggi il «privilegio borghese» del fare poesia e perché i poeti più seri si affannino appunto attorno all’«ipotesi che la poesia sia in una fase storica di assoluto ripiegamento o esaurimento». Ma prima di sentirsi troppo facilmente decadenti, senescenti o di aspettare i barbari, proprio mentre facciamo questi ultimi giri di giostra, perché non far chiarezza su questa crisi?

    Sulla diversa interpretazione della poesia di Pusterla non insisto. Ho detto la mia e ammetto che mi possono sfuggire certe intertestualità che lei ha subito colto. Ma io parlo da *lettore critico*., non da *critico di professione*. Guardo la poesia *da lontano*, pur praticandola, e non ho il tempo per analisi del testo fatte in modi più elaborati, da cui sono pronto ad imparare). Perciò trovo un po’ professorali quei suoi «dovrebbe saperlo», «se ha letto» , «Fortini le insegnerà», «Ha letto Un posto di vacanza di Sereni?». Capisco che non sono consigli da spocchioso. Ma dico lo stesso: E se non avessi letto e non sapessi, non dovrei parlare, non dovrei esprimere con una qualche decisione quello che è al momento il mio punto di vista? Fosse pure la mia una «lettura pregiudizievole» o «fuori luogo», ritengo che possa comunque offrire l’occasione a chi si suppone sappia di più e meglio per degli approfondimenti motivati. (Tra l’altro lei sa che il mio e il suo Fortini, in un incontro che facemmo assieme ad alcuni amici nella sua casa di Via Legnano a Milano negli anni Ottanta : «Bisogna scaldarsi – disse all’incirca – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così, Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando»? ( Cfr. http://www.backupoli.altervista.org/IMG/CARTEGGIO_Fortini_Abate.pdf).
    Sinceramente farei volentieri la parte del tonto, se lei facesse bene quella del filosofo.

    Ultime precisazioni minime. Non ho detto che i testi di Kafka e Walser siano consolatori. Ho trovato consolatorio o, peggio, imbalsamatorio l’uso che una certa accademia ha fatto di questi due autori (a me cari). Né ho detto che il solipsismo della poesia di Pusterla sia ingenuo.
    Per finire, è proprio sulla valutazione di quel «tanto “mondo” fuori del testo» a cui rimanda Pusterla che forse divergiamo di più. Per un «poeta residualmente lirico», come lei pare lo consideri, si potrebbe dire che egli sia già oltre il solipsismo. A me, come ho cercato di dire riferendomi soprattutto all’evocazione della tragedia di Kabobo, quell’affacciarsi verso l’orrore del mondo pare, con tutto rispetto, ancora timido. Ma il discorso non lo rivolgo al solo Pusterla ma a tutti (me incluso). Infine, grazie dei dubbi che mi ha offerto. Li aggiungo a quelli che già ho.

  19. I limiti poetici del componimento di Fabio Pusterla coincidono perfettamente con i suoi limiti politico-ideologici. L’ottica solipsistica e piccolo-borghese che vi si esprime si inscrive in una sorta di centrismo (non illuminato ma) obnubilato, che prende alla lettera, per poi scandalizzarsi ed affrettarsi a porgere la tazza del consolo, la retorica umanitaria con cui il potere dissimula il carattere mostruoso ed irredimibile del male dietro la sua “banalità” e la sua “normalità”: “altre vicende di quotidiana miseria, nella nostra / comune devastazione italiana assenza d’orizzonti /
    improbabile ineludibile speranza / e sua evidente scomparsa / colpevole”. E’ dunque inevitabile che un simile centrismo, avendo perduto la bussola per orientarsi nel mondo contemporaneo, prenda culi di bottiglia per diamanti. Viene in mente, a questo proposito, quella categoria di “spiriti liberi” i quali si comportano regolarmente come coloro che nel mondo tardo-antico (periodo sempre più affine a quello attuale) volevano stare con Simmaco e Cassiodoro contro la “barbarie” e l’“incoltura” del cristianesimo irrompente, ma intanto stavano con Bisanzio. Ma importante è anche il punto di vista dal quale viene mossa la critica, e quella che si fonda su un autentico ‘lucus a non lucendo’ come il ‘topos’ della scomparsa storica della borghesia rischia solo di aumentare la nebbia che una buona lampada fumivora (leggi il materialismo storico) dovrebbe dissipare. Quanto poi alla disputa su Fortini e Sanguineti, una volta riconosciuti il valore della poesia e la giustezza di molte posizioni politiche del primo, non sono da sottacere taluni limiti, come l’alto tasso di eticismo ed il tendenziale piagnonismo (retaggio, peraltro, di un persistente anticomunismo ‘di sinistra’), dei quali non vi è traccia nel marxista e leninista Sanguineti.

  20. @ Barone

    Il marxismo-leninismo di Sanguineti eticamente o politicamente più incisivo o significativo o “comunista” ( o non “anticomunista di sinistra”) del piagnonismo di Fortini?
    Io con il senno di poi cercavo di porre l’accento sulla dura realtà: la sconfitta di tutte le posizioni che si sono scontrate nella sinistra di allora (anni Settanta).
    Tu questa la salti senza entrare nel merito, aggrappandoti a un dotto gergo filosofico (‘lucus a non lucendo’, ‘topos’ della scomparsa storica della borghesia). Come se fossimo in marcia vispi ed indignati all’alba di un nuovo 1917.
    Boh, ci sarà un’ “ottica solipsistica e piccolo-borghese”, ma temo ce ne sia una anche alto-borghese (proletaria non direi…). E le trovo entrambe religiosamente consolatorie. Sia in poesia sia nella non poesia che ci tocca vivere.

  21. @Abate
    Come già accennavo, su qualcosa siamo d’accordo. Mai scritto che un poeta produca poesie come un pero le pere, niente di più lontano da ciò che penso. Nel dire che scrive “ciò che ha la forza” di conoscere intendo appunto questo: poco di naturale spontaneo libero, molto di necessitato – storicamente, socialmente, biograficamente. Difficile che un poeta italiano di oggi possa scrivere degli “egiziani” o del dramma di Kobobo prescindendo dalla sua posizione di bianco, privilegiato, colto, piccolo-borghese, occidentale. Benvenute siano le eccezioni. Riguardo al “tono professorale” di certe mie uscite, sì, ha ragione – è retorica polemica. Le assicuro però che la mia parodia di analisi sulla poesia di Pusterla – che non mi pare pecchi di specialismo, ma si limiti al minimo sindacabile – non è che un tentativo di giustificare l’effetto che una primissima lettura “immediata” ha avuto su di me, da “lettore critico” molto prima che da “critico di professione” (chi fornisce il tesserino per entrare nell’albo?). Se non la poesia, il discorso umano ha bisogno di strumenti condivisi e contestabili per giustificare le proprie impressioni e valutazioni, o rischia di arroccarsi in una presunta superiorità intellettuale che esprime giudizi in forma idiosincratica e aforistica, infischiandosene degli interlocutori. Cosa che la letteratura può fare benissimo, anche con risultati altissimi. Non un discorso critico, per quanto blando e condotto in poche righe nei commenti ad un blog. Riguardo a Pusterla, ci tengo a precisare che non ho un giudizio formato. Probabilmente è un epigono, probabilmente ha meno forza di quanta vorrebbe; in ogni caso non è poeta che casserei con un gesto stizzito; le mie riflessioni intendevano solo preparare il campo alla possibilità di una valutazione, che rimando per forza di cose. La ringrazio per le letture “extracurriculari” che mi consiglia (sono le mie preferite), appena avrò tempo cercherò di capire se la borghesia sia morta o meno, e da quanto. Avevo già il sospetto che fossimo tutti cadaveri ambulanti. Con sincera cordialità.

  22. Come già accennavo, su qualcosa siamo d’accordo. Mai scritto che un poeta produca poesie come un pero le pere, niente di più lontano da ciò che penso. Nel dire che scrive “ciò che ha la forza” di conoscere intendo appunto questo: poco di naturale spontaneo libero, molto di necessitato – storicamente, socialmente, biograficamente. Difficile che un poeta italiano di oggi possa scrivere degli “egiziani” o del dramma di Kobobo prescindendo dalla sua posizione di bianco, privilegiato, colto, piccolo-borghese, occidentale. Benvenute siano le eccezioni. Riguardo al “tono professorale” di certe mie uscite, sì, ha ragione – è retorica polemica. Le assicuro però che la mia parodia di analisi sulla poesia di Pusterla – che non mi pare pecchi di specialismo, ma si limiti al minimo sindacabile – non è che un tentativo di giustificare l’effetto che una primissima lettura “immediata” ha avuto su di me, da “lettore critico” molto prima che da “critico di professione” (chi fornisce il tesserino per entrare nell’albo?). Se non la poesia, il discorso umano ha bisogno di strumenti condivisi e contestabili per giustificare le proprie impressioni e valutazioni, o rischia di arroccarsi in una presunta superiorità intellettuale che esprime giudizi in forma idiosincratica e aforistica, infischiandosene degli interlocutori. Cosa che la letteratura può fare benissimo, anche con risultati altissimi. Non un discorso critico, per quanto blando e condotto in poche righe nei commenti ad un blog. Riguardo a Pusterla, ci tengo a precisare che non ho un giudizio formato. Probabilmente è un epigono, probabilmente ha meno forza di quanta vorrebbe; in ogni caso non è poeta che casserei con un gesto stizzito; le mie riflessioni intendevano solo preparare il campo alla possibilità di una valutazione, che rimando per forza di cose. La ringrazio per le letture “extracurriculari” che mi consiglia (sono le mie preferite), appena avrò tempo cercherò di capire se la borghesia sia morta o meno, e da quanto. Avevo già il sospetto che fossimo tutti cadaveri ambulanti. Con sincera cordialità.

  23. @ Redazione

    Ho provato a inviare un commento. Mi è uscito il messaggio “è stato individuato un commento duplicato” e non lo trovo in coda come “in attesa di moderazione”. Problemi con la gestione della pagina?

  24. @ .dp.

    Anche a me fa piacere ogni tanto concordare con qualcuno (sia pur mascherato…).
    E anche sull’atteggiamento rispettoso da avere nei confronti di Pusterla. E credo che il mio lo sia. Perché anche il mio primissimo commento, al di là dell’apparenza provocatrice, intendeva “preparare il campo”, se non ad una valutazione, almeno a commenti non piattamente elogiativi o di circostanza. Mi pare che, entro i limiti imposti ai commentatori, in diversi abbiamo fatto un buon lavoro. Un saluto.

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