di Eliana Petrizzi
[Questa è la quarta puntata della rubrica dedicata alle piazze a cura di Adelelmo Ruggieri. In precedenza erano usciti i testi di Enrico Capodaglio, Franca Mancinelli e Linnio Accorroni].
Maggio 2011
Le erbe selvatiche raccolgono il vento, iniziando il passante alla legge schiva del luogo.
Lungo i vicoli, il suono del vento tra la legna accatastata. Appena arrivati, si vanno a salutare le comari, si accettano un dolce fatto in casa per l’occasione e qualche uovo fresco. Si parla della salute, dei figli emigrati a Torino o a Carpi, di come si è preparato quel piatto, della stagione, dei morti, e di nuovo dei parenti lontani.
Gli anziani che stanno all’ospizio ogni tanto escono e si incontrano con quelli del paese. Siedono l’uno accanto all’altro sugli scalini della Pro-Loco, fissando la montagna, l’orologio fermo della piazza. Da qui, di sera, guardo le montagne, i fari di una macchina che passa, la luna che sale. Dietro le poche finestre accese, il telegiornale di Canale 5, un cucchiaio che rimesta nel piatto e si posa. I balconi aperti, il canto dei grilli, il ronzio di un frigo, il tuono di un aereo lontano. Poco dopo, dalle finestre socchiuse, solo il respiro di chi dorme.
Giugno 2012
Torno al paese di mio padre in pieno giugno, il mese migliore per visitare questi luoghi. Distratto dalle brezze dell’altitudine, il caldo non fiacca, le valli fioriscono, i fiumi si riempiono. Un falco, incappato in correnti contrarie, resta immobile ad ali spiegate per un tempo indefinito.
Nuovi silenziosi crolli nell’assetto delle cose. L’anno scorso, chi mi conosceva si affacciava a salutarmi. Ora, chi vi abitava è morto, o se mi ha vista non mi ha riconosciuta. Sempre chiusa la piscina comunale, chiuso il tabacchino di Annina. 2 Giugno: in piazza a mezzogiorno, nessuno. Solo le rondini e le loro covate, tortore, poiane, grilli al sole, i mosconi nell’ombra dei vicoli, lo scampanio delle vacche dal fiume a fondovalle. Profumo di pioggia caduta lontano. Le impronte di un asino nel cemento del marciapiede, formiche che trasportano una falena morta come un santo in processione. Saluto commà Tinuzza e sua nipote Gilda, una ragazza che vive a Torino da quando è nata; un tatuaggio in petto, piercing, capelli bordeaux, smalto nero alle unghie di mani e piedi. Se la guardi negli occhi, ci trovi la pacata disperazione del paese, che la città non ha convertito.
Vado a salutare zia Maria, 81 anni: più magra dell’anno scorso, più lenta a capire le cose. Dopo, visita a zia Rosina, che parla come se le mancasse l’aria. Se le frasi sono troppo lunghe, alza le mani e chiede scusa. Le solite domande su come stanno i parenti a casa, se ti sei sposata, se no quando, e se non ancora perché. Finito il giro di visite, di nuovo da zia Maria. Seduta al tavolo, passa le giornate a leggere i calendari di Fra’ Indovino. Senza televisione da un anno: la vecchia Telefunken non ha il digitale, e quello che li vende abita in un paese oltre la montagna.
La festa della Repubblica qui è un giorno come gli altri. Mi affaccio a guardare il paesaggio da un’altezza che è quasi un volo. Mi accorgo così che non è cambiato un solo dettaglio dalla notte in cui, chiuso mio padre al cimitero, rimasi a lungo a fissare una luna così grande che pareva dovesse venire il terremoto. Mi siedo nella piazza vuota. Davanti a me, la saracinesca chiusa di Annina. Il suo manifesto funebre è stato incollato sull’intonaco di casa; non come da noi, dove li attaccano con la carta gommata, e dopo tre giorni non ci sono più. Qui la notizia rimarrà a lungo, cancellata dalle stagioni. I rintocchi dell’orologio che va un’ora avanti, il rosario della fontana. Prendo la macchina e vado a fare un giro fuori al paese. Lungo il percorso, strapiombi, calanchi, gli insediamenti arcaici del paese, la prima scuola di alfabetizzazione rurale per i contadini di montagna, la fonte dello zampognaro. Una lepre, poiane in volo rotondo sugli ulivi, un serpente che attraversa la strada in un’onda elegante e pacata. Le foto che scattato fermano il vapore del finocchio selvatico, i fichi caduti sul selciato, cardi, una lumaca, le fessure ai piedi degli ulivi. Finito il giro, torno in piazza e saluto Raffaele, un uomo che a cinquant’anni mi dice che è vecchio e che può aspettare solo la morte; che qui non c’è niente da fare, che è un posto terribile per viverci, che facciamo presto noi turisti a dire che è bello solo perché ci veniamo tre giorni all’anno.
I giovani del posto convincono poco con l’abbigliamento delle città. Alcuni, se vedono una faccia nuova in giro, percorrono a tutta i tornanti della strada. Ma tornano subito, parcheggiano dove gli capita e si sdraiano al sole su una panchina, contro quieti fondali di ginestre. Faccio questa strada a piedi ogni volta per andare al cimitero dove è sepolto mio padre. Il cimitero è una radura severa che somiglia un poco all’isola dei morti di Böcklin. Poca gente: un uomo in cima ad una scala pulisce la lapide dei suoi defunti, uno davanti alla tomba della moglie parla con un altro della vendita di Cavani. La luna riposa in cima alla collina, fine come un’unghia. Passeggio tra i viali, poi mi siedo su un gradino all’ombra azzurra dei cipressi. Mi chiedo di mio padre. Da parte sua nessun segnale. Quando vengo a trovarlo mi siedo accanto alla lapide, ma non vedo l’ora di andarmene, delusa come una che è andata ad un appuntamento al buio nel posto sbagliato. Io le preghiere non le so dire, e se le dico mi distraggo. Allora con mio padre ho trovato un altro modo di parlare: guardando le case abbandonate del suo paese. Di fatto a mio padre non dico niente. Ascolto i silenzi richiamati dall’ombra delle pietre, il tepore tra muro e muro come tra palmi stretti. Case con le stanze crude, i pilastri che danno sui campi aperti, in una quiete così intensa da non riuscire quasi a credere alla paura che ogni giorno soffia sui miei battiti di passero. Finestre chiuse, aperte, murate. Nel loro ritmo, un alfabeto che non conosco e che ci riguarda. Voglio tornare al centro dalla strada che costeggia il cimitero, da cui posso vedere una veduta del paese buona per una cartolina. Il giorno si chiude presto, egualmente distante dai fatti e dalla noia. Saluto mia zia, che da trent’anni ancora mi dà pochi euro per comprarmi il gelato. Nelle vene ferme delle strade, un’aria di culla, un calore di palmi uniti. Anche quello che non si muove un poco si trasforma.
Maggio 2013
Sedute in piazza, mia zia parla un dialetto sempre più stretto che non capisco. Uccelli immobili portati dalle correnti, l’aria tra gli ulivi col rumore della pioggia che arriva. Dopo le solite domande sul lavoro e sulla salute, si comincia a fare l’elenco dei morti nuovi in paese. Al cimitero, i loculi col cemento fresco, ghirlande appassite, lombrichi accanto alle cappelle arrotolati come liquirizie. Questo mese è morto Giovanni, 50 anni, poi tre vecchi, uno del ’13, uno del ’17 e uno del ’31. Tonia è morta a 96 anni d’infarto, da sola in casa, mentre scaldava la verdura. Margherita è morta di vecchiaia da sola all’ospedale. Mia zia parla di Giuseppe, morto a 60 anni tra molte sofferenze, mentre il suo vicino, usuraio, a 95 anni è vivo e sta bene. Dice la stessa cosa pure di mio padre, morto a 61, e di Annetta, morta a 59. Finito il conto dei morti, il discorso passa alla vita dei vecchi nell’ospizio del paese. Dopo, nessuna di noi sa più che dire. Allora le chiedo se pensa che dopo la morte incontreremo i nostri familiari e i nostri amici, se può mai essere che in una vita che si spera così grande, tra miliardi di anime devi andare a ricongiungerti proprio coi tuoi parenti e con quelli del tuo paese, e se non è invece più probabile che farai amicizia con anime di un altro posto, o addirittura di altre razze. Mia zia risponde che coi forestieri non vuole fare amicizia, che lei per sicurezza prega ogni giorno, ma che dall’altro mondo nessuno è mai tornato.
Venerdì
Cumma’ Ninuzza: le feci una foto 10 anni fa. Lo scatto la ritraeva di spalle, vestita di nero già allora, la faccia contro il muro bianco in piazza. Mi domanda chi sono, a chi appartengo e che sto facendo. Visto che sto fotografando case che crollano, mi chiede di fotografare anche le sue tre casupole, una volta stalle e cantine, aggiustate alla buona per i tre figli che vivono in Germania, che vengono a trovarla una volta all’anno, a volte anche ogni due. Ogni tanto Ninuzza se ne va all’ospizio, quando le viene la paura di restare da sola in casa, per via dei giovani che vanno a rubare in giro. La borsa è sempre pronta: dentro, un paio di cambiate, e il vestito che le devono mettere nella bara se dovesse morire all’improvviso. Mi fa vedere l’orto, il giardino, la terrazza che finisce a strapiombo sul fondovalle; poi le radiografie dell’intervento all’anca, i Santi nell’altare sopra il letto, le foto del marito morto, quella del loro matrimonio, in cui Ninuzza ha un viso disperato. Mi parla di tutte le cose che vanno in malora: dei giovani sfaticati, del vicinato che muore, dei figli che non tornano, dei nipoti che non si conoscono, della frutta che si perde sugli alberi, della gente che non parla, e che se parla dice cose disgraziate. Mentre andiamo in piazza, io vado piano, ma lei dice che non devo rallentare, che lei al mio passo ci può stare. Poi, all’ultimo scalino: “Mi sono fatta vecchia. Che peccato per la mia giovinezza scomparsa”.
Sabato mattina
Si è alzato uno scirocco pieno di sabbia, che riempie le distanze di foschia. In piazza, tre vecchi sulle scale guardano la montagna con le mani in grembo. Uno di loro si alza, mi saluta e si siede accanto a me, chiedendosi com’è possibile che ieri era una bella giornata e oggi si è alzato questo vento, che ieri le cose stavano in un modo e oggi in un altro. Mi domanda se so che quello alle mie spalle è il palazzo del Barone. Sì, lo so. Dice che però è vuoto, che pure quella famiglia ha fatto una brutta fine.
Ore 13,30, domenica
Il fischio dei falchi sui tetti, mosche. Deserti la piazza, i vicoli. Chiusa la chiesa, le finestre, le porte. Vecchi infissi crollati, betoniere, impalcature senza operai. Piante grasse cresciute tra i lastroni delle strade, un cane che inizia ad abbaiare con un rancore stanco, dopo una mezzora che sono seduta lì vicino. In cima a una scala, il bagno esterno di una casa abbandonata. In basso, un albero pieno di albicocche mature che nessuno raccoglie. 30 anni fa in questo bagno è morto un vecchio, ma non se ne è accorto nessuno per giorni. Gesù Cristo ne ha fatta scendere di pioggia in 30 anni, dice uno che passa, ma le albicocche da quel giorno non le coglie più nessuno.
Programma della domenica pomeriggio: andare con mia zia al cimitero. Mia zia saluta il marito, poi i vicini e i loro parenti, con un bacio lanciato a distanza.
Ritornando in paese, nessuna di noi parla. Solo mia zia ad un certo punto mi chiede se lo straccio lasciato per mesi fuori al mio balcone è ancora lì, o se l’è portato il vento.
[Immagine: Cirigliano (Foto antonotari: http://www.panoramio.com/photo/15775235)]
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