di Diego Bertelli
È successo tutto qualche anno fa. Mi trovavo in uno di quei posti che visti una volta dalla strada ti danno già un appuntamento. Un coffee shop che è anche una libreria; una di quelle particolari, però, perché vende solo libri usati. Affacciata direttamente su Whitney Avenue, tra New Haven e Hamden, Connecticut, si chiama Books & Co. ed è, come tutti i bookstore dell’usato, un luogo in cui sbirciare tra le cose degli altri. È qui che mi sono trovato tra le mani un volumetto intitolato Very Bad Poetry, curato da Ross e Kathryn Petras e pubblicato dalla Vintage Books di New York nel 1997. Sfogliando quel titolo promettente, mi sono subito chiesto chi l’avesse comprato e che cosa non vi avesse trovato per abbandonarlo in una caffetteria di libri usati dopo qualche anno.
Ricordo perfettamente la scena: in piedi tra gli scaffali, col libro aperto, a sfogliarne velocemente le pagine colla speranza di indovinare quella giusta, di scovare il segno che mi dicesse che cosa fosse mai una brutta poesia. Un’impresa tutto sommato facile nel caso di Very Bad Poetry, giocata a carte scoperte; prima di tutto perché il libriccino dei Petras dava della cosa una definizione ben precisa, sebbene tutt’altro che scontata: «So what is a very bad poem? Usually is a testimony to a poet’s well-honed sense of the anticlimatic». Seguiva una scelta coerente di nomi che, in modo diretto o indiretto, facevano parte della letteratura anglo-americana degli ultimi cinque secoli.
Leggendo quei versi mi sono allora domandato che cosa sarebbe potuto succedere se la lista non si fosse limitata a certi casi manifesti, anche perché una tale definizione poteva andare ben oltre il semplice effetto comico. Pensai al mio professore di lettere del liceo, il quale, leggendo in classe Alla sera di Ugo Foscolo, non poteva fare a meno di notare quanto «anticlimatico» fosse il verso conclusivo rispetto al tono generale del sonetto. In effetti, dall’iniziale «Forse perché della fatal quiete / tu sei l’imago» al conclusivo «spirto guerrier ch’entro mi rugge» la questione della brutta poesia si faceva più ampia e sfumata.
Non si trattava soltanto di quello che si evince dalle primissime righe dell’introduzione di Very Bad Poetry, ossia del bisogno di scrivere e dell’aspirazione, quasi istintiva, alla poesia: «a compulsion to write verse» a cui fa seguito, con buona pace dello scrittore a venire, «a happy delusion regarding talent […]». Persino Dante, senza citare nello specifico un saggio di Natali sui suoi «versi brutti», aveva dovuto trovare soluzioni anticlimatiche per questioni di metrica e di rima. In linea di principio nessuno sembra esente da questa felix culpa che dipende più che mai dallo Zeitgeist di un’epoca, oltre che dall’uso dei ferri del mestiere da parte di un poeta, maggiore o minore, noto o sconosciuto, «bello» o «brutto» che sia.
I tempi di oggi non sono più quelli di Kant, il quale introduceva l’analitica del bello insistendo sulla soggettività: «Per distinguere se qualcosa è bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non all’oggetto mediante l’intelletto, per la conoscenza, ma al soggetto, e al suo sentimento del piacere o del dispiacere mediante l’immaginazione. […] Quindi il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza, dunque logico, ma è estetico […] soggettivo». Donde la constatazione secondo cui «il compiacimento che determina il giudizio di gusto è senza interesse». Viviamo, al contrario, in una società che ha due distinte caratteristiche: la prima è di aver sostituito ai concetti di bello e brutto quello di utilità; la seconda è di aver incrementato drasticamente, attraverso Internet, la possibilità di esporre al pubblico la scrittura di ognuno. Non soltanto attraverso blog e social network, ma anche per mezzo di siti su cui è possibile pubblicare il proprio libro, romanzo o raccolta di versi poco importa. Il risultato combinato di utilitarismo e diffusione a perdere della parola sul web ha prodotto un innalzamento senza precedenti del numero di coloro che «producono scrittura» rispetto a quello di coloro che ne usufruiscono in qualità di lettori. La domanda pertinente non riguarda più il bello o il brutto, ma il cui prodest.
Sia chiaro: l’illusione di saper scrivere da parte di chi scrive è in tanti casi un’ingenuità innocente. Però una grande quantità di persone che si sente «portata alla scrittura» finisce spesso, in maniera un po’ meno innocente, nelle mani di chi promette di realizzare il loro sogno. Sto parlando delle iniziative commerciali di editori più o meno credibili, creatori di un mercato parallelo di poeti che di fatto non esistono: il problema della brutta poesia, almeno oggi, riguarda prima di tutto quello della brutta editoria. Oltre al rammarico per uno spreco di risorse perpetrato in nome di una falsa vanità, il risultato più preoccupante è quello di una riduzione del valore della poesia per mezzo di una produzione al limite del sostenibile di prodotti letterari inesistenti, non solo da un punto di vista commerciale, ma prima di tutto culturale. Preoccupazione che risale, per altro, indietro nel tempo, come ricordava già Leopardi:
Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi, sia pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere, sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conservano quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degli immortali; oh questo io non credo che sia più possibile. La sorte dei libri oggi, è come quella degl’insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre tre o quattro giorni, ma si tratta di giorni. Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno […]. Perché non solo ai letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l’immortalità, in tanta infinita moltitudine di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell’uomo civile, e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra (Zibaldone, pp. 4269-70).
Nel caso della parola scritta è senza dubbio necessario chiedersi ancora come far fronte al bisogno di esprimersi di ognuno ed evitare lo speco di carta. Certamente oggi una risposta plausibile potrebbe venire dalla pagina elettronica, che per la maggior parte sembra aver convogliato le vanità e gli istinti creativi di molti; resta pur vero che uno spazio virtuale non potrà mai sostituire il fascino della carta stampata, specie per il neofita, il quale vede nel libro la legittimazione di un quanto mai fittizio statuto letterario. Quello di essere un published author e, dunque, di poter avere, del tutto implicitamente, dei lettori, è un istinto irrefrenabile e anche un motore dell’azione disastroso. Ragion per cui, la domanda indiretta sulla necessità d’espressione e sulla salvaguardia della carta resta più che mai attuale, in particolare oggidì: se i «posti dell’immortalità» erano già stati occupati ai tempi di Leopardi, siamo adesso in una situazione accertata di esubero estremo.
«Copia dei libri o buoni o cattivi», bella o brutta poesia: la questione è trasversale, poiché comprende questionabili etichette e cultura ufficiale. Chi si occupa di letteratura può difficilmente scordare l’affermazione di Alberto Arbasino secondo cui Gian Pietro Lucini non scrisse un bel verso neanche per sbaglio. Una frase così icastica e perentoria che Pier Vincenzo Mengaldo non poté fare a meno di ricordarla nell’introduzione dei suoi Poeti del Novecento, dove per altro manca Lucini. La valutazione sull’opportunità di una definizione di brutta poesia, dunque, risulta sempre meno accertabile. Il fatto è che ci sono, inevitabilmente, versi brutti, ergo una brutta poesia che può avere, tuttavia, un significato molto serio, sia da un punto di vista culturale sia storico-letterario.
Si può prendere quanto dice Arbasino per una boutade, eppure risulta altrettanto difficile credere di poter godere dei versi di Lucini al punto da dar loro, come fa Edoardo Sanguineti nella Poesia italiana del Novecento, lo stesso spazio, se non di più, di quello concesso a Montale. Qualcuno direbbe che si tratta di una presa di posizione, tirerebbe in ballo la poetica di Sanguineti, il taglio della sua antologia, inizierebbe a parlare di ideologia. Il fatto è che nel caso di Sanguineti, come anche in quello di Mengaldo, non esiste una risposta univoca riguardo all’esattezza di una scelta in fondo personalissima, sebbene sostenuta da criteri specifici, come nel caso delle loro antologie. A contare, casomai, è l’evoluzione (o «l’esplosione», usando un termine lotmaniano) del dibattito culturale e come al suo interno la poesia si modifica in base alla storia.
La carica storica ed «esplosiva» delle parole non è, specie nel caso delle Revolverate di Lucini, da sottovalutare: «Le parole, come dice Brice-Parain, sono delle “rivoltelle cariche.” Se uno parla, spara», ricordava Michel Foucault. Di certo è possibile aggiungere che se chi parla spara, una cosa è morire per una giusta causa, un’altra è morire inutilmente. Tutti hanno il diritto di esprimersi, però, sempre con Foucault: «Una cosa è lavorare sui dei colori e dei suoni, un’altra esprimersi con delle parole». Il problema delle parole è infatti questo: che le usiamo tutti i giorni. Fatto che può essere sia di grande vantaggio sia di estremo svantaggio per l’espressione, specie nel caso della scrittura. Ammettiamolo: siamo immersi nelle parole, ma spesso finiamo per usarle male. Avere l’opportunità di scrivere tutto quello che sentiamo, finendo per scriverlo così come lo diciamo, può risultare estremamente svantaggioso. La scrittura rischia di essere qualcosa che fa il verso alla persona che ne fa uso con l’intima pretesa di esprimere una visione del mondo plausibile. Il bello e il brutto della scrittura finiscono, in tutti questi casi, per avere a che fare con lo sfogo, e di questo si approfitta quella fetta di piccola editoria che lucra sui sentimenti spontanei, una volta relegati alla pagina del diario segreto.
Facciamo un parallelo con una disciplina come l’algebra. Se invece di un alfabeto e di una punteggiatura avessimo a disposizione cifre e segni algebrici, a modificarsi sarebbe la nostra capacità di calcolo o la percezione di tale capacità? Come a dire: se parlassimo coi numeri, l’algebra diverrebbe bella? E quale sarebbe, di conseguenza, l’algebra brutta? Belle o brutte che possano essere algebra e poesia, quello a cui noi tutti, in modi e tempi diversi, bisogna stare attenti è di non scadere nel ridicolo. Qualcuno ha detto che dopo i venticinque anni continuano a scrivere poesia i poeti e i cretini. Qualcun altro ha ribadito che a ognuno di noi dovrebbe essere consegnata, alla nascita, una quantità limitata di carta con cui decidere cosa fare: se usarla per scrivere o per altre – ben più igieniche – mansioni. E una volta finita, basta. Questo avrebbe potuto garantire già in passato una certa «ecologia letteraria», con effetti benefici anche sul presente, dove l’espressione è diventata sempre più d’uso, entrando a far parte del dibattito culturale con una certa urgenza.
Oggi, però, gli scrittori e i poeti emergenti, e le case editrici che pubblicano i libri di scrittori e poeti emergenti, sbucano fuori a bizzeffe, si moltiplicano in modo incontrollato. E non si tratta solo di questo, perché il fenomeno si sta allargando anche alla critica letteraria, con la pubblicazione di monografie e raccolte di saggi sempre meno necessarie. Anche in questo caso, per vanità frustrata o per il bisogno tutto burocratico di accumulare titoli a scopo concorsuale, si agisce sulla base di un esborso anticipato delle spese di pubblicazione. In ogni caso ci si scorda che se l’abito non fa il monaco, tanto meno è il libro a fare l’intellettuale. La sola cosa certa è che a mancare, in mezzo a tutto questo, sono i lettori, se non i pochi parenti, conoscenti o amici che ricevono il libro in regalo per qualche festa comandata.
L’editoria delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, quella che alimenta ingiustamente la vanità di molti e la legittima attraverso la pubblicazione è una delle attività più redditizie in circolazione perché insiste sulla questione di sempre: l’«amor proprio». Si tratta di qualcosa di radicato ed essenziale, di più che mai vivo in un’epoca di profonde frustrazioni estetiche: prima fra tutte, in questo mondo sovrappopolato di essere umani e di stimoli sovrumani, quella di passare inosservati agli occhi degli altri. Risultato: la creazione, nella maggior parte dei casi, di «strane meraviglie».
La parola meraviglia ha un corrispettivo latino singolare: monstrum. Ed è proprio a tali «mostri» che si dà un prezzo di mercato e una vaga circolazione. Se Foucault affermava che lo scrittore non si paga «perché la sua attività è inutile», dovrebbe esserci allora corrispondenza nella diffusione a costo zero della sua attività. Eppure, nel caso di queste strane meraviglie si crea un paradosso interessante: lo scrittore non viene retribuito, pur essendo costretto a pagare per garantirsi un’esistenza editoriale che di fatto non è tale. Insomma: per divenire un autore che non esiste è prima di tutto necessario coprire le spese di produzione del proprio libro. Ovviamente qui ci aspetteremmo una deontologia editoriale che non c’è. I casi sono molteplici come le forme contrattuali; difficile è quindi intavolare un discorso comune. Nella migliore delle ipotesi, come spiega Carolina Cutolo (a cui rimando direttamente: http://scrittorincausa.blogspot.com): «Per quel che riguarda i contratti per le sillogi di solito la tiratura è molto bassa, 200, 300 copie al massimo, e la spesa richiesta all’autore va dai 500 ai 2000 euro, in alcuni casi non si chiedono soldi direttamente ma (sempre in alternativa al pagare e basta) un impegno all’acquisto di copie per una cifra che va dai 500 ai 1000 euro al massimo. C’è anche un’altra tendenza per quanto riguarda le antologie di poesie, in cui vengono chieste cifre più basse a ogni singolo autore (dai 150 ai 200 euro) così l’autore spende meno ma per un’antologia di 20 autori, come puoi dedurre facendo il calcolo, l’editore incassa molto di più». Nella peggiore, invece, le cose funzionano più o meno così: per un prezzo che raggiunge ormai i 3000 euro a carico del solo autore, gli editori promettono da un minimo di 200 a un massimo di 300 copie di un libro composto da un centinaio di pagine circa, commercializzabile rispettivamente al prezzo di 15/10 euro, con registrazione ISBN. L’autore paga così tutte le copie, che poi si tiene, e di cui solo una prima parte viene distribuita dall’editore (target: biblioteche e premi letterari). Un’ultima opzione contrattuale, altrimenti, è la seguente: acquistare un tot numero di copie stampate (di solito 200), con una riduzione riservata all’autore del 15/20% sul prezzo di copertina, che rispetto al costo reale del libro è ancora una volta più che sufficiente a coprire le spese di produzione delle supposte 1000 copie, dato il costo relativamente basso della carta e la rilegatura fatta sempre meno coll’ago e sempre più con la colla. Vada come vada, non so se avete mai visto anche soltanto uno scatolone con dentro 200 volumetti di circa 100 pagine ciascuno. Sembra che quei libriccini non finiscano più. Da questo fenomeno di residuo ne è nato un altro, ormai diffusissimo: quello dei «volumi alla cassa» che spesso si vedono nelle piccole librerie e adesso anche altrove, dal macellaio al parrucchiere. Ci si affida, in buona sostanza, agli amici o ai conoscenti: al buon cuore dei negozianti la decisione di quanti poeti o scrittori anonimi accogliere e diffondere tra un filetto e una permanente.
C’è poi una seconda questione: cosa succede dei restanti volumi stampati insieme alle copie che spettano all’autore e alla prima tornata di copie distribuite? Mi sono chiesto, in realtà, se quei volumi esistano davvero già tutti o solo in parte; spesso sono volumi che nessuno vedrà mai, anche perché chi richiede il titolo di qualche amico appena pubblicato sovente si sente rispondere dal librario che il libro «non arriva». L’alternativa è quella di comprare direttamente dal sito, ma per questa categoria di acquirenti (ex compagno di scuola, amico, partner, ogni sorta di parente e conoscente, dal vecchio professore delle medie o del liceo, all’amico di famiglia, al parroco che aveva battezzato venti o sessanta anni prima il novello poeta) lo scoramento è dietro l’angolo, specie quando si tratta di metter la propria carta di credito in rete. Alla fine tutti quanti preferiscono dare i soldi direttamente al poeta in cambio di una copia.
Per tante ragioni, dunque, se vogliamo anche indipendenti dall’editore, non sempre sappiamo cosa succede; anche nel caso di un acquisto on line, non sono rari i casi in cui a seguire è un rimborso per mancato recapito, con l’invito a ripetere la procedura. Non metto assolutamente in dubbio che in un panorama così variegato come quello contemporaneo ci siano tanti piccoli e seri editori; anzi, a loro va il merito di resistere nonostante l’erba cattiva. Eppure non mancano gli approfittatori: quelli che speculano professionalmente sulla vanità di persone che vogliono scrivere romanzi e poesie, pronte a pagare, non una volta soltanto, anche 3000 euro. Alcuni tra i più cattivi editori, infatti, reiterano la procedura approfittandosi della vanità del poeta, creando «parapubblicazioni», come antologie di poesia del secolo XXI e riviste di pseudocritica letteraria. A ciò segue, con scadenza anche biennale, la nuova proposta di pubblicazione. Dato che molti di questi cosiddetti poeti e scrittori producono in continuazione (a volte basta che vedano un cielo azzurro…), altrettanto continuo è lo stimolo alla pubblicazione. Si tratta di una sindrome compulsiva, al pari di quella del gioco d’azzardo, la cui base è quella di un forte appagamento momentaneo. L’editore moltiplica i suoi introiti basandosi su un tale meccanismo e sfruttando la strategia della pubblicazione di un numero iniziale di copie, senza specificare né i tempi di produzione né quelli di diffusione dei volumi restanti. Può essere quindi che l’editore ordini la stampa delle copie acquistate di diritto dall’autore a garanzia di copertura delle spese, più un numero variabile di libri per una prima distribuzione. Una volta recapitate le copie all’autore e fatto un primo giro di consegne presso una serie di librerie e biblioteche locali, il libro non appena pubblicato cessa verosimilmente di esistere. Ecco avveratasi la sorte leopardiana di un’esistenza effimera.
Insomma, tanta, troppa nociva editoria si regge su un impulso ben preciso dell’essere umano: quello di ricercare la propria felicità. Le discipline dello spirito si prestano particolarmente bene ad appagare tale impulso, in virtù di un’aura che circonda da sempre il poeta, lo scrittore, l’artista in genere. Si tratta di una miscela potentissima che agisce in particolare su chi ha avuto un’educazione di tipo scolastico della poesia e la vive in modo del tutto estemporaneo. Le giustificazioni che le persone danno agli altri e a se stesse sono di solito due, radicalmente opposte negli esordi ma identiche negli esiti: 1. Mi hanno offerto di pubblicare le mie poesie. Dopo una vita di lavoro e sacrifici, perché dovrei dire di no? 2. Io che il sogno della poesia l’ho sempre avuto dentro ho sentito il bisogno di condividerlo con gli altri, perché non dovrei? Come biasimare i primi? Come non rispettare i secondi? La cosa paradossale è che anche molta grande poesia è nata sul filo di questi due modi di pensare. Ed è per questa ragione che una tutela editoriale si fa urgente. Oggi a crescere è un mercato letterario che si moltiplica e consuma come quella chincaglieria da variety store che si vede ormai dovunque: in negozi che sanno di plastica cattiva, sui banchi dei mercati, in mano ai venditori ambulanti. Da qualche anno, accanto a quegli oggetti sono comparsi anche i libri.
[Immagine: Alfred Eisenstaedt, Puppet Theatre (gm)].
Chissà che effetto farebbe una raccolta di Cattiva poesia italiana (classici e contemporanei)?
Articolo interessante, anche se io credo che il problema della brutta poesia non esista. Se si trattasse solo di vanità, poco male: far stampare un libro brutto per soddisfare il proprio ego e poi cestinare le copie rimaste non sarebbe certo una novità (un solo esempio: il primo Canzoniere di Saba, autoprodotto in 500 copie è andato esaurito solo nell’arco di molti anni). Il problema sorge quando alcuni editori senza scrupoli sfiorano la circonvenzione d’incapace, in modo subdolo e infame.
P.S. Nell’antologia di Mengaldo, Lucini proprio non c’è, et pour cause, nata com’è quell’antologia non so se in polemica, ma almeno in risposta all’improponibile canone sanguinetiano (e Lucini è pedina fondamentale in quella ricostruzione).
un titolo altrettanto veritiero potrebbe essere: i poeti sono pochi (anzi, che fine hanno fatto?).
verissimo che esistono troppi libri spazzatura di non-autori o meri poeti “amatoriali”. poco vero però che questi amatori offuschino i grandi o “riducano il valore della poesia”: è come dire, siccome la stragrande maggioranza di chi gioca a calcio sa appena giocare a pallone e lo fa sporadicamente o in categorie in cui ci vanno appena 10 persone a seguirli, allora i pochi campioni esistenti, in quanto numericamente minori, allora sono offuscati dal milione o più di non addetti ai lavori che giocano senza un vero allenamento, senza le necessarie competenze fisiche.
il problema a mio avviso è che oggi non esiste nemmeno una classe (per classe intendo numeri, 15-20, ma neanche 10) di poeti davvero bravi, che emergono oltre la grande massa di pseudo tali. le ragioni sono tantissime (sociali, culturali, economiche), ma una è sicuramente da citare: la qualità. nei poeti di oggi (dai nati negli anni 50 a quelli degli anni 80/90) non vedo (anzi, non leggo) nulla che mi faccia rimanere a bocca aperta, che faccia commuovere, meditare davvero per più di qualche singolo sporadico verso o testo. mancano le Opere. il 98% dei libri sono appartengono alla categoria che descrive l’autore ma il restante 2% sono appena superiori, si annusa appena l’odore di poesie.
ma in italia si parla sempre di altro, i problemi sono l’editoria spazzatura, i grandi editori che non pubblicano poesia o non abbastanza, la massa vanitosi che vuole parlare ad un pubblico di 20 persone in una sperduta libreria di provincia. ma ci rendiamo conto? se sono questi i problemi della poesia, allora la poesia è davvero morta, i poeti sono morti.
se per parlare di cattiva poesia si sfoderasse una prosa perfettamente a regola d’arte sarebbe meglio. un minimo di revisione farebbe bene a questo articolo.
comunque il troppo è ovunque, questa è la società dell’inflazione, non c’è niente che noi si possa fare che non sia viverci dentro. il troppo poetico è comunque un troppo inoffensivo, rispetto al troppo di CO2 o di plastica, quindi mi rilasserei un poco.
quando si scrive un saggio per dire che si scrive troppa poesia (ma anche troppi saggi), d’altronde, non si sfugge al paradosso per cui chiedendo il silenzio a gran voce si aumenta il rumore, si ottiene un effetto contrario all’intenzione del gesto. non serve lamentarsi della gran quantità di pessima poesia che c’è in giro, serve, semmai, cercare di mettere in luce quella che si considera buona poesia. altrimenti la si finirà come la scimmia di Zarathustra alle porte della città di Vacca Pezzata.
la poesia di scarsa qualità c’è sempre stata, la poesia effimera pure. le forme dell’ottava non nascono forse dall’improvvisazione poetica popolare? quale poesia è più effimera di quella improvvisata e cantata sul momento? eppure è proprio nell’improvvisazione che si sente di più la magia della parola, quando la combinazione di parole e ritmo produce un’immagine riuscita, l’effetto è mille volte più potente che su carta stampata. abbiamo la stampa di alcuni pezzi di improvvisazione poetica solo grazie alla memoria di chi assistette alle gare poetiche, abbiamo ancora i nomi di alcuni grandi improvvisatori, tramandati.
è davvero paradossale citare quel pezzo di Leopardi, sapendo che è stato palesemente smentito dai fatti: Leopardi ha ottenuto la immortalità del proprio nome, e con lui decine di altre persone sue contemporanee come Darwin, Chopin, Hugo, Faraday, Bolivar, citando a casaccio “perché non solo ai letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l’immortalità”. Come no.
il problema non è che si scrive troppo, il problema è e resta che si legge poco. la comunicazione scritta ha perso la centralità che aveva in epoche passate, è un fatto.
sta di fatto che la poesia, a differenza della prosa, non è strettamente legata alla comunicazione scritta. e infatti la poesia non gode di cattiva salute, è la tradizione poetica aristocratico-borghese ad essere in cattiva salute. la poesia popolare è viva e lotta insieme a noi, per esempio in ogni angolo di strada dove ragazzini infogati si stendono a suon di punch line sui 4/4 di un beat box umano, rappando, ovvero producendo discorsi ritmati secondo regole codificate da una vasta comunità di poeti-appassionati di poesia/musicisti-appassionati di musica che rende discernibile la competenza dall’incompetenza e le diverse scuole attraverso cui la competenza si esplica e riproduce.
ERRATA CORRIGE: “dove per altro manca Lucini”. Volevo fare notare, su indicazione di Jacopo Galavotti, l’antipatica presenza di un “non” che ribalta completamente il senso della frase. La stratificazione delle correzioni sulla pagina elettronica genera spesso fraintendimenti enormi e non voluti. Ringrazio da subito tutte le persone che stanno leggendo e commentando l’articolo. Rispondero’ a breve con piacere e interesse. Ancora grazie per l’attenta lettura.
Il problema di questo articolo è il presupposto: dire “i poeti sono troppi” è come dire “gli artisti sono troppi” o “i medici sono troppi” o “le automobili sono troppe”… insomma, potrebbe valere per qualsiasi categoria. L’intento di guardare alla qualità della poesia è ottimo, ma quello che turba è il clima un po’ distruttivo che si crea attorno all’argomentazione del testo. L’atteggiamento critico è utile se indirizzato al dialogo, non al totale – e permettetemi – immaturo rifiuto. La critica – in teoria – dovrebbe dare le sue ragioni del perchè esiste la buona e la cattiva poesia, e come si fa a riconoscerla. In ogni epoca ci sono antologie che portano i nomi di molti poeti; ai posteri ne vengono consegnati pochi. Bisogna anche capire questo gioco tra la buona e la cattiva poesia, insomma, così come esiste tra la buona e la cattiva arte, il buono e il cattivo cinema… E bisogna capire che se non ci fosse questa doppia faccia della medaglia non ci sarebbe nemmeno la medaglia. Grazie.
Caro «Detrito di tempi inflazionistici», Luciano Bianciardi una volta ha risposto a un tale Beoni Ivano chiedendogli di imparare, prima di tutto, a scrivere correttamente il nome. Io non sono Bianciardi e questa non è la rubrica del Guerin Sportivo, ma le chiederei quanto meno di scriverlo, il suo nome, altrimenti non vale neppure la pena discutere. Se poi il suo è un taciuto rimando alle petrarchesche Sine nomine, allora anche la sua prosa meriterebbe una revisione.
Dato che un’intera redazione ha approvato il pezzo, io direi di evitare commenti immaturi e di criticare in modo costruttivo: questa è la sola cosa che mi interessa.
Proprio oggi, davanti a un caffè, un caro amico e studioso, per altro pubblicato su queste stesse pagine, ma di cui non faccio il nome per rispetto, mi ha detto: «Lo sai che con questo articolo hai toccato un nervo scoperto». Lo so. Il mio vuole essere un contributo, un punto di vista sulla questione; non mi innalzo certo a censore.
Non ho mai pensato di sfuggire al paradosso di cui lei parla, ma se di un fatto non si scrive, come si fa a discuterne? È ovvio che volevo ottenere una reazione. A mio parere la questione va oltre i paragoni che lei fa: far finta che il problema non sia così rilevante perché ne esistono di peggiori non porta a nulla.
D’altra parte non metterei sullo stesso piano un fenomeno come quello della poesia orale con l’argomento di cui sto parlando, che per altro riguarda la scrittura: non me ne voglia, ma secondo me quel paragone ci sta come i cavoli a merenda.
Perché poi si stupisce della citazione di Leopardi? Da una prospettiva storico-culturale, che cosa c’entra una preoccupazione reale del Leopardi uomo e intellettuale con il fatto che ha ottenuto poi l’immortalità?
La seguo poco anche nel suo ultimo paragrafo, non posso farci niente; non sto parlando di quello di cui parla lei, ma non deve rileggermi per forza.
Rispondo invece ad Andrea, facendo presente una cosa: io non dico che questi amatori della poesia offuschino i grandi o riducano il valore della poesia; dico invece che un mercato parallelo di autori che non esistono non serve a molto e che sarebbe necessario contenerne gli esiti più dannosi e deleteri; per questo ne ho preso atto, parlandone apertamente. Spero si capisca che non mi voglio mettere a bruciare i libri in piazza. Come ribadisco in chiusura, la grande poesia è nata spesso sul filo di due modi di pensare che sono gli stessi che hanno portato al mercato parallelo e inesistente discusso nel mio articolo. In questo senso approvo quanto scrive Galavotti; resta la certezza che i nostri tempi non sono più quelli di Saba. Bisogna moltiplicarli per n, per cui la mia preoccupazione resta.
Problema realissimo e che con me ormai non tocca un nervo scoperto perché ho imparato a mie spese (pubblicato a 24 anni con un libro in cui però credevo e credo ancora) come (non) funziona l’editoria.
Però accanto alla diagnosi del problema mi piacerebbe leggere anche delle proposte; la mia (e mi ci sto impegnando insieme ad altri, nel sito-rivista http://www.inrealtalapoesia.com) è quella di recuperare la pratica del critico che discerne e che condanna i libri brutti, spiegando il perché.
Non è difficile, a pelle, riconoscere una poesia brutta se si è letto abbastanza. Più arduo è svelare i meccanismi delle poesie brutte, ma questo è un compito possibile: basterebbe ragionare sulle forme e i temi delle poesie che ci convincono del tutto, e vedere come questi attributi manchino nelle poesie che non ci convincono. Non lo faccio per pubblicità, davvero, ma una critica su testi che ritengo di qualità (qui: http://www.poesia2punto0.com/2013/11/09/poem-shot-vol-1/ ) credo sia un primo passo per uscire dall’impasse.
Il secondo passo è quello di sensibilizzare gli autori, non solo con interventi scritti (che ignorerebbero) ma tramite un’associazione itinerante e l’educazione nelle scuole, per evitare che le generazioni future cadano nel nostro stesso errore… insomma, molto da fare, più ancora che da denunciare.
UNO STRALCIO DI DISCUSSIONE E UN RENDICONTO DI UN’ESPERIENZA A MILANO
1.
moltinpoesia
Uscendo da discorsi più teorico-politici, capire che siamo in molti ad operare nel campo della poesia dovrebbe provocare un salutare schok. Luca dice bene: « La poesia deve essere trattata come un bisogno e un movimento «di massa». Ma dobbiamo sapere quanto sia problematica questa dimensione di massa delle società contemporanee. Essa ci richiede da una parte un certo coraggio nell’abbandonare i vari e ancor comodi “surrogati di torri d’avorio” dell’io, che specie la tradizione italiana facilmente fornisce, ma dall’altra potrebbe indurci alla accettazione acritica della dimensione di massa (della cultura e non solo) capitalisticamente gestita. Si passerebbe dalla padella dell’io alla brace di un noi di massa. Insomma troppo facile mi pare il rifiutarla ma anche l’accettarla così com’è adesso: nella forma storica (capitalistica) che ha assunto. Affermare che siamo molti in poesia non significa cancellare la complessità e l’estrema conflittualità che caratterizza la dimensione di massa. Che non è venuta fuori così, “naturalmente”, ma dalla storia e continua a essere gestita secondo regole che mirano alla sopravvivenza del capitalismo (o dei capitalismi, come sostiene La Grassa) che l’ha promossa. Perciò insisto affinché l’essere molti in poesia vada pensato come un progetto. Altrimenti si confonderebbe con l’esistente. Che per adesso è soltanto una “nebulosa poetante” che contiene in sé di tutto. Oppure viene rappresentata come un “mare magnum” in cui ciascuno (case editrici grandi e piccole, assessorati alla cultura, ecc.) pesca quello che vuole. Devo dire poi che non vedo i rischi che pare Luca veda nel riconoscere che la stessa dimensione di massa esisterebbe anche in altri campi dell’agire umano e non solo in poesia. ( Si tratterà semmai di fare analisi puntuali nei vari campi che egli richiama («scrittura, cultura, lettura…»). Ferrieri ha colto bene, dunque, che essere *molti in poesia* è una cosa giusta (ma da costruire e non già esistente o esistente in modi spuri equivoci, ambigui nelle pratiche attualmente censibili nella miriade di luoghi – riviste, associazioni, blog – in cui si manifesta.
E certo, questo «vuol dire che non esiste una sola poesia» (quella degli specialisti, dei poeti o critici “addetti ai lavori”) e che si tratta di una «sacrosanta rivendicazione di pluralità e dialogismo» contro «chiese, accademie, sette».
Ha colto bene anche quanto immenso lavoro ci sia da fare per ricongiungere il fare poesia – selvaggio, immediatistico, ambivalente, persino “barbarico” perché privo di storia e ostile a qualsiasi storia – con una critica che deve affinare nuovi strumenti d’indagine e di guida del fenomeno.
Esito per prudenza a sottoscrivere la sua tesi che si debba procedere anche alla formulazione di «un (nuovo) canone. Il rischio, secondo me, è che i canoni vengano fuori sempre troppo presto e sempre per pensata di qualche élite o avanguardia che, fingendo di aprire dei varchi per i molti, costruisce invece i soliti “nuovi” passaggi riservati per la cooptazione di un’altra manciata di pochi ovviamente “rivoluzionari”, “meritevoli”, “bravi”, “intelligenti” o “geniali”.
Insisto invece ( e l’ho sempre praticato) che la critica (o la nuova critica letterario-politica) debba esercitarsi «in laboratori» (viso a viso e/o virtuali, permettendolo oggi il Web). E che tale critica sia «dal basso» o dai margini o sia condotta da outsiders, da intellettuali periferici a me pare purtroppo una triste necessità più che una regola. Siamo costretti in un certo senso ad una critica da lbasso soprattutto dalla trahison des clercs a cui abbiamo assistito dopo i fallimenti degli anni Settanta. È questa che ha ridotto a pochissime e troppo caute voci i critici collocati “in alto” per provenienza sociale o riuscite carriere. Da ciò deriva l’estrema difficoltà di «rendere scorrevoli i rapporti tra alto/basso in poesia» (e non solo…) che giustamente Luca giudica «l’affermazione più interessante di tutte» del mio documento e alla quale tengo particolarmente, perché ho visto quanto siano velleitari, ciechi e dannosi gli opposti snobismi che prosperano sia in alto che in basso.
Eppure non credo che si tratti, come lui suggerisce (e se intendo bene le sue parole), di «pensare i molti oltre alla contraddizione con i pochi», il che significherebbe abolire a livello del pensiero una contraddizione, una differenza, per me realmente esistente nei fatti. Non è possibile trascurare che le risorse esistenti – anche solo di saperi (il “capitale simbolico” di cui ha parlato Bourdieu) e anche solo nel campo minimo della poesia come istituzione- sono distribuite in modi diseguali e che ad avvantaggiarsene e a riservarsele per sé e per i “prossimi” siano i pochi e non i molti, che vi hanno scarso e spesso lacunoso accesso.
Mi pare invece in parte giusto l’osservazione di Luca che pochi e molti « non sono due eserciti l’un contro l’altro armati». Precisando però che i molti non sono affatto un esercito e sono disorganizzati e il loro numero di per sé e da solo non è affatto un vantaggio. Posso poi anche concordare che in campo poetico o culturale le virtù militari non siano risolutive. Ma la contraddizione resta. E puntare a «rendere scorrevoli i rapporti tra alto/basso in poesia» mi pare sempre indispensabile. Anche se dovessero verificarsi i casi del tutto improbabili in cui i molti dovessero conquistare di colpo “i palazzi d’inverno” della poesia (o della cultura) o i pochi miracolosamente dovessero convertirsi e decidere di donare i saperi ereditati o accumulati.
Nelle società di massa i processi di democratizzazione sono diventati più che mai difficili persino da definire, figuriamoci da attuare. Proprio nelle società democratizzate la democrazia è diventata più feticcio che mai. E quindi non solo abbiamo da chiarire cosa possa essere oggi la “democrazia in poesia” ma persino cosa possa essere la democrazia in politica. Perché – a differenza di Luca – penso che consenso e principio di maggioranza non valgono né in poesia, né in letteratura e neppure in politica. (Quindi – e qui rispondo anche a un commento di Linguaglossa – non credo che la democrazia – in poesia, in letteratura, in politica – si fondi sul consenso).
(http://moltinpoesia.wordpress.com/2013/08/21/ennio-abate-molti-esodo-moltinpoesia-risposta-a-luca-ferrieri/)
2.
Ennio Abate, “Laboratorio Moltinpoesia di Milano” (2006-2012): sulle difficoltà e i dilemmi del cooperare tra poeti-massa. (http://moltinpoesia.wordpress.com/2013/02/18/ennio-abate-laboratorio-moltinpoesia-di-milano-2006-2012-sulle-difficolta-e-i-dilemmi-del-cooperare-tra-poeti-massa/)
«Estetica del brutto suonerà, a taluno, un po’ come “ferro ligneo”, perché il brutto è il contrario del bello. Solo che il brutto è inseparabile dal concetto di bello: quest’ultimo lo contiene costantemente nel suo sviluppo come quell’errore in sé in cui si può cadere con un troppo o un poco, spesso esigui. […] Non è difficile capire che il brutto, in quanto concetto relativo, è comprensibile solo in rapporto a un altro concetto […] Se non ci fosse il bello, il brutto non ci sarebbe affatto, perché esiste solo come negazione di quello.»
Così scrive Karl Rosenkranz, discepolo e biografo di Hegel, nella sua fondamentale “Estetica del brutto”, di cui suggerisco un’attenta rilettura anche ai fini di un’adeguata chiarificazione concettuale del fenomeno delle “brutte poesie” tematizzato in questo articolo. Sennonché Rosenkranz, il quale ammette nella rappresentazione artistica anche il male, ossia il brutto nella sua forma più “completa”, ne opera il riscatto attraverso la figura del comico. Ed ecco, a tale riguardo, la precisazione dell’autore di quel gioiello filosofico-letterario che è l’“Estetica del brutto”: «Ora, Hegel dice, e non senza cautela: il diavolo per sé è una figura malvagia, esteticamente non rappresentabile, inutilizzabile. Ma il diavolo per sé è come dire diavolo da solo, avulso dal contesto complessivo del mondo, soggetto isolato dall’arte. Contro questo non vi è nulla da obbiettare. […] Ma entro tale condizione il diabolico è anche così assolutamente inestetico? […] Il risolversi del diabolico nel comico è già presente nella sua contraddizione originaria.» Basterà allora un semplice spostamento di scaffale – ad esempio, dalla poesia lirica a quella comica – per procedere ad un ‘riuso’ delle brutte poesie, non più confinate nei regni inferi della ‘Trivialliteraur’, ma reimmesse nel circuito della fruizione sociale in virtù di una sorta di teodicea estetica. Così, risolvendo ogni determinazione della bruttezza nel ridicolo, per riprendere l’esempio citato nel ‘post’, il lettore smaliziato potrà attivare, da un lato, un’opportuna sospensione della “sospensione dell’incredulità” e, dall’altro, passare da un atteggiamento di pensosa tristezza ad un’ilare allegria nel momento stesso in cui constaterà, contro ogni legittima aspettativa lirica, che il poeta zacinzio conclude il suo celebre sonetto con quel ‘desinit in piscem’ dello “spirto guerrier ch’entro mi rugge” satireggiato impietosamente da Carlo Emilio Gadda nel pamphlet “Il guerriero, lo spirito e l’amazzone nel verso immortale di Ugo Foscolo”.
Sottoscrivo pertanto la proposta di Miliucci di una crestomazia della “Cattiva poesia italiana”, poiché non vi è dubbio che, qualora l’iniziativa fosse attuata, essa garantirebbe come contropartita, a fronte di tanti aborti poetici, un frutto succoso e saporito della letteratura comica, non dissimile da quello a suo tempo antologizzato da Umberto Eco nella sua “letteratura della quarta dimensione”.
-il mio nome vale quanto quello di un Ivan Beoni qualunque, non è importante nè conosciuto. sono il prossimo suo e la saluto. quel che importa sapere per discutere è nel corpo del testo.
-la redazione ha approvato un pezzo con alcuni orrori grammaticali. la cosa non mi tangerebbe particolarmente, non fosse il pezzo in questione votato a una perorazione del ruolo aristocratico del letterato. un’aristocrazia che rinnega la forma rinnega sé stessa.
-io non so se lei effettivamente tocchi un nervo scoperto (non è certo un forum di editori a pagamento, questo), so che parlare di “editoria nociva” è ergersi a censore.
-la questione va oltre i paragoni che faccio solo se la si contestualizza correttamente. la sovrapproduzione di poesia è un infinitesimale e residuale fenomeno all’interno della ben più vasta sovrapproduzione simbolica in cui rientrano, peraltro, questo articolo e i commenti che seguono (i miei compresi, ovviamente).
mai come oggi tanta gente ha avuto accesso a tante competenze nel campo della produzione simbolica, mai come oggi ha avuto a disposizione tale quantità di mezzi tecnici per fissare e diffondere quella stessa produzione. è ovvio che aumentino i produttori, così come è ovvio e conseguente che diminuisca il bacino di utenza delle opere, sia in senso spaziale che temporale. anche solo 20 anni fa, una persona come me, non avrebbe mai avuto occasione di confrontarsi con una persona che ricopre il suo ruolo, su questi temi.
è altrettanto ovvio che il ruolo della critica esca ridimensionato da questo fenomeno, giacchè il singolo critico è destinato a soccombere, di fronte alla portata del flusso incessante di opere cui dovrebbe far fronte, per avere un quadro esaustivo del suo campo.
il campo è troppo vasto per soggiacere a una sola autorità, il canone è destinato a sfibrarsi in una serie di proposte di canone sovrapposte le une alle altre. in piccola parte questo è già avvenuto per la canonizzazione del novecento.
la possibilità che avvengano ripescaggi e ripensamenti aumenta esponenzialmente, e con essa le possibilità di operare scelte dettate da criteri non trasparenti.
in tutto ciò, pretendere di tornare indietro è poco credibile, oltre che reazionario e pure piuttosto spregevole. non voglio dire che lei abbia espresso una volontà in questo senso, sia chiaro, e però è difficile non scorgere quella tentazione di un mondo più pulito e composto dove la cultura era appannaggio di pochi.
-il riferimento alla poesia orale non è messo a caso.
è riferimento a una poesia che non ambisce ad entrare nei canoni, assolutamente indifferente alle classificazioni della critica e alle questioni editoriali.
una poesia che si realizza nell’atto poetico stesso e rifugge dalle sovrastrutture simboliche; una poesia che non alimenta, dunque, il caos di cui lei parla.
una poesia vitale, in possesso di quei codici formali che nella poesia scritta sono stati spazzati via, codici che normano chiaramente, senza bisogno dell’intermediazione della critica, e quindi dell’innesco di un’escalation di costruzioni simboliche su quella originaria, le differenti capacità e i differenti stili.
se c’è un problema, grave, di sovrapproduzione simbolica, mi pare giusto omaggiare le forme poetiche che ne sono immuni.
-la citazione di Leopardi non mi stupisce, semplicemente è sbagliata nel contesto, per come viene smentita dai fatti storici. Leopardi provò delle paure ingiustificate, personalmente ritengo che le sue paure siano altrettanto ingiustificate. ci sarà chi stabilirà un canone poetico per questa epoca, tra un paio di generazioni, ci saranno diverse proposte fondate su criteri differenti e in generale si concorderà nel ritenere più importanti quegli autori presenti in un numero sufficiente e sufficientemente vario di esse.
-ora le chiarisco meglio l’ultimo paragrafo, alla luce di quanto scritto qua sopra: il fatto che ci siano troppi poeti non è un problema per i poeti, nè per i lettori, è un problema solo e soltanto per i critici e gli editori. non è un problema della poesia, ma della critica e dell’editoria. il fatto che ci siano tanti poeti è un bene per la poesia; anche per una semplice legge dei grandi numeri, le probabilità che ci siano buone o ottime opere sono molto elevate, la difficoltà a trovarle e riconoscerle nella giusta maniera è irrilevante, giacchè la poesia è un atto primariamente ludico.
per caso o per merito qualche opera degna di essere raccolta nelle reti dei canonizzatori verrà fuori, oppure verrà fuori uno di quei periodi generalmente sottostimati, come quello dell’Arcadia, non morirà nessuno.
che ci sia una marea di gente frustrata dal fatto di non essere diventata d’annunzio o baudelaire, non è un problema, se non per quella gente stessa.
il fatto che ci siano critici ed editori frustrati perchè non riescono a trovare il baudelaire dei tempi nostri, è un problema loro. il mondo non si ferma per questo, tantomeno la pubblicazione di poesia e di critica poetica.
chiedersi “cui prodest?” è porsi la domanda sbagliata. se c’è gente che continua a fare questa roba è perchè evidentemente le va di farlo, qualunque sia la forma di appagamento che ne ottiene. pensare di impedirglielo è talmente reazionario da essere indifendibile, “tutelare l’editoria di qualità” è una frase vuota, in un’epoca in cui la definizione di ciò che è qualità è completamente saltata per aria, e doppiamente vuota se non si esplicita in cosa consista questa tutela.
I poeti sono troppi e le poesie memorabili sono poche, però le poesie memorabili è difficile riconoscerle. Inviterei quindi, sulla scia di Castiglione, a concentrare le energie anche didattiche sui testi e su come si fa a dare loro valore, quando c’è. Saluti.
Io mi unisco, m’inflaziono ai Detriti dei tempi. Senza voler offendere, mi pare che un problema della produzione culturale odierna sia la mancanza di solide basi scientifiche, che permetterebbero maggiore coerenza e consistenza, e soprattutto verifica fattuale di ciò che si scrive.
Esempio: “se i «posti dell’immortalità» erano già stati occupati ai tempi di Leopardi, siamo adesso in una situazione accertata di esubero estremo.” Ma Leopardi sbagliava, dunque adesso non siamo nella situazione accertata di esubero estremo. Per le proprie tesi si portino argomenti validi.
@Dwf – Tornando alla forme chiuse, almeno come propedeutica -tipo solfeggio per chi fa musica, bello stile per chi dipinge, esercizi di aritmetica per chi fa numeri- i “poeti” sarebbero molti di meno. Un esempio è il concorsino “Ritratti140 – Ritratti di Poesia” che si sta svolgendo su Twitter a https://twitter.com/Ritratti140 . I testi in concorso partono dalla data 1 Novembre e arrivano agli ultimi post di un’ora fa. Ne selezioneranno 30 per la fase finale e 3 saranno premiati il 12 febbraio a Roma. Mi pare ci siano 150-200 ingressi, al momento. Voi quanti ne salvereste e perché? Io zero.
@ Il fu GiusCo
Io compongo, ho il solfeggio, ho studiato un po’ di composizione e ho uno spazio su soundcloud in cui metto le mie cose. Ho anche una band. Ho anche scritto un paio di racconti e qualche poesia, testi. Qualche cosa ho messo nel mio blog, e nel frattempo ho fatto leggere qualcosina in giro. Ad esempio a @ Davide Castiglione, che mi ha dato preziosi consigli. Per le cose scritte non pagherei mai un editore, perché il web mi permette di farle leggere in giro. Per la musica devi appoggiarti per registrare e stampare. Tutto ciò lo ritengo bello intanto per me, mi piace leggere e ascoltare e ho scoperto che mi piace comporre in ogni senso. Il fatto che io abbia del talento mi dà più diritto di chi ne ha meno? L’arte è stata ipostatizzata, un po’ come l’anima. L’arte è un processo dal quale traiamo effetti. Dal momento che è un processo al quale teniamo, impegniamoci in ogni direzione. Insegnate tutte le forme che volete. Istruite le persone sui processi produttivi, sul mondo dell’editoria. Si eserciti la critica su quello che si produce, non sulla volontà di produrre. Questo è inconcepibile, sottende un meccanismo mentale orrendo.
L’articolo di Bertelli ha bisogno di un editing concettuale ed etico, in parte già effettuato. Dire i poeti sono troppi equivale a dire gli esseri viventi sono troppi.
[Comunque sì, al di là degli argomenti, può giustamente irritare chi ci ha messo il nome e il cognome, avere a che fare con ectoplasmi di rete, al di là degli argomenti. E’ una vecchia questione, che però nel caso di quest’articolo mi pare assai viva. E sentita.]
Cmq, per smorzare i toni e per essere sinceri, a me ha dato fastidio la richiesta del nome e cognome a Detriti, cosa che ho notato avvenire a volte in questo blog. ( Se Cucinotta legge non mi riferisco a lui-te ). Da buon lettore studierò questo articolo e ne farò una critica costruttiva ed educata.
a Detrito di tempi inflazionistici.
Lei scrive:
“sta di fatto che la poesia, a differenza della prosa, non è strettamente legata alla comunicazione scritta. e infatti la poesia non gode di cattiva salute, è la tradizione poetica aristocratico-borghese ad essere in cattiva salute.”
Concordo in tutto, tranne che nella dizione “aristocratico-borghese”. Mi sembra meglio “borghese” e basta, o meglio ancora “letteraria”, perché nella tradizione aristocratica, vecchia di qualche migliaio di anni, la poesia è fatta per essere recitata e udita in compagnia, meglio se a tavola, piuttosto che per essere letta in solitudine.
Un poeta che mi è caro, Giacomo Noventa, cioè il patrizio veneto Giacomo Ca’Zorzi, le sue poesie le ha sempre recitate per gli amici, e si è lasciato persuadere a pubblicarle solo quando ha smesso di scriverne (anche per far contenta la moglie, ragione non di poco peso).
Ottimo poi se i ragazzi improvvisano il rap come un tempo gli stornellatori o gli improvvisatori dei maggi.
@Dwf – Il diritto alla produzione simbolica, sacrosanto e finanche narcisistico, è una conquista del postmoderno. “Il fatto che io abbia del talento mi dà più diritto di chi ne ha meno?” Certo che le dà più diritto, altrimenti non sarebbe qui a commentare, ma lascerebbe le sue cose nei tanti gruppi e pagine facebook di urlatori alla luna (me compreso). Allo stesso modo, io corro i 100 metri in 15 secondi e Bolt vince la medaglia d’oro all’Olimpiade. Non ho diritto io a correre i 100 metri? Certo che ce l’ho, pago anche per farlo nella pista CONI della mia città, ma non per questo sono Bolt. *Basta prenderne coscienza* e tutto va al suo posto. Mentre lì il giudice è il cronometro inoppugnabile, qui è la critica, alla quale farebbe bene lavare i panni nelle sue, cito dal commento sopra, “coerenza e consistenza, e soprattutto verifica fattuale di ciò che si scrive.” Il punto di interesse per i poeti (i troppi e i pochi) è che la critica, da ancella ai testi, è oggi genere letterario in sé, anch’essa diritto alla produzione simbolica sacrosanto e finanche narcisistico, conquista del postmoderno. Da qui i problemi. Saluti ed in bocca al lupo per le sue cose.
@ Il fu GiusCo
Prendere coscienza, certo. Anche del fatto che fare arte può essere bello in sé e non per dimostrarlo in giro. Questo è un atteggiamento auspicabile per la vita. In questo caso chiarisco meglio cosa intendo parlando di verifica fattuale. Mentre per i 100 metri il cronometro è inoppugnabile, la critica non può misurare i testi, e quando parlo di coerenza e consistenza non mi riferisco tanto al critico che analizza un testo, ma al critico o all’intellettuale che entra nel discorso pubblico. Io non so nulla di critica letteraria, e va bene anche che sia diventata un genere letterario a sé. La critica letteraria non può essere scientifica, perché il piano della scienza non le appartiene. Ovviamente sarà rigorosa quando ben fatta, ma il suo discrimine è arbitrario, essendo allo stesso tempo giudice e cronometro. Questo non vuol dire che la sua funzione sia inutile, ma che deve prendere coscienza anch’essa dei limiti. Non posso essere d’accordo sull’aver maggior diritto. Posso arrivare a pensare che qualcun* meriti maggior diffusione e successo e che altr* meno, ma questo è anche un discorso un po’ presuntuoso e paternalista sul quale cerco di fare sempre autocritica, perché pensiamo che le persone starebbero meglio leggendo e ascoltando opere diverse.
@ dm
però in questi casi mi pare un pregiudizio che può essere superato. Intanto l’anonimato in rete non esiste e poi con un po’ di pazienza si può superare la stranezza di conversare con persone senza volto e nome, perché in realtà il nick è un nome. Io posto sempre con lo stesso e mi pare di esser stato sempre corretto, forse a volte un po’ scontroso. Per cui uno può fidarsi. Poi posso essere tranquillamente ignorato.
Dfw vs Jf: semplicemente: pubblicare a proprio nome un pezzo comporta un’esposizione personale notevole. Per dirla rude, ci si gioca un pezzo del sé, e nel farlo si adottano certe modalità che c’entrano con la posta in gioco: l’identità cioè l’autorevolezza culturale e compagnia sonante. Al di là del ruolo più o meno sentito o ufficiale di ciascuno. Criticare sprezzantemente chi è in questa posizione, e da una posizione completamente diversa – nessuna posta in gioco identitaria – è come giocare a poker con un onesto giocatore facendo leva su un budget illimitato. Non so se mi spiego…
@ dm
certo, capisco. Si valuta caso per caso. Dal momento che è anche possibile costruirsi un’identità fittizia ed essere credibili e corretti, spero che il pregiudizio anche fondato possa essere messo da parte.
Provo a riassumere quello che ho scritto per tentare di renderlo più intellegibile.
1. Trovo un volumetto che si intitola Very Bad Poetry.
2. Il titolo mi incuriosisce. Lo sfoglio e vi trovo una definizione tutto sommato interessante: «So what is a very bad poem? Usually is a testimony to a poet’s well-honed sense of the anticlimatic» (Se non trovate la definizione interessante potete fermarvi qui, lo dico senza alcuna presunzione).
3. Alla luce di quella definizione, penso che di versi «anticlimatici» ce ne siano tanti in letteratura (anche nella nostra). Questo, però, non vuol dire che per me versi del genere debbano considerarsi «brutti»!
4. Riconsidero, invece, le categorie del bello e del brutto oggi (tra le tante scelte possibili, anche per via della mia esperienza personale, limito la riflessione alla poesia, da cui sono partito. Evito di tirare in ballo altre forme d’espressione per non mettere troppa carne al fuoco).
5. Giungo a una conclusione: l’utile sostituisce oggi le categorie del bello e del brutto.
6. Avanzo l’ipotesi che tante pubblicazioni del nostro tempo abbiano come scopo l’utilità.
7. Ne consegue che del bello e del brutto non ci si preoccupa assolutamente.
8. Conclusione: ci sono editori (a differenza di altri!) che pubblicano versi perché pubblicare è utile a loro.
9. L’esistenza di un intero mercato di libri che di fatto non esistono (specie nel caso della poesia), per la pubblicazione dei quali tuttavia si paga, è la riprova che troppo spesso oggi l’utile vince sulle categorie del bello e del brutto.
10. Domanda: qual è, allora, l’utilità di questi libri?
11. Risposta: se escludiamo l’appagamento per il poeta (problema dell’«amor proprio» o, se vogliamo, del narcisismo, che considero tutto sommato con indulgenza), non resta che un ritorno economico per l’editore che pubblica a pagamento.
12. Dato che molti di quei volumetti non hanno valore poetico, per forma e per contenuto, essendo soltanto sfoghi sentimentali, para-esistenziali (Sylvia Plath parlerebbe di «cries from the heart»), il motore dell’azione che porta a quelle pubblicazioni merita, a mio parere, una riflessione.
13. C’è poco da fare, per molti (in modo molto ingenuo) pubblicare un libro di poesia muove qualcosa di poco definibile e spesso incontrollabile. Io lo chiamerei «desiderio». Imputabili sono per me diversi fattori che enuncio: il dominio «magico» del linguaggio (cfr. Toshihiko Izutsu), la relazione tra “aiueo” e “autentin” (cfr. Dante), e dunque il rapporto tra autorità e parola, il rapporto tra creazione ed entusiasmo (cfr. Raoul Bruni), e il valore della memoria contro il tempus edax (cfr. Boccaccio).
14. Stiamo parlando del DNA della poesia e, in senso lato, della cultura occidentale (e non soltanto…).
15. Fare i conti con una questione del genere non è così scontato (se per voi lo è, potete fermarvi qui).
16. In ogni caso, quando parlo di queste cose non sono io ad affermare, anche soltanto implicitamente, che la parola scritta sia autorità, che il poeta sia sacro ecc. Attenzione! Dico invece questo: dato che mai come oggi viviamo in un mondo di «profonde frustrazioni estetiche», il bisogno di esistere si manifesta più che mai in poesia in ragione di quel «desiderio».
17. Pensate a quanta gente che scrive sui social network facendoci sapere tutto, ma proprio tutto della propria giornata (come si veste, quello che pensa, le emozioni provate).
18. Fate reagire questo bisogno di esistere con i fattori di cui ho parlato al punto 13 (se la reazione non suscita in voi alcun effetto, potete fermarvi qui).
19. Detto altrimenti: lungi da me ammiccare a pochi eletti o far intendere che chi prova a scrivere o a pubblicare poesia merita una tirata d’orecchie…
20. Purtroppo, però, si fa spesso credere ad autori che hanno ben poca dimestichezza con la scrittura, e conseguentemente poca consapevolezza delle dinamiche editoriali (perché spesso affrontano la cosa per la prima volta), che i loro versi abbiano valore letterario.
21. Giudizio di valore: la colpa non è di chi ci crede, ma di chi li fa credere a una cosa del genere.
22. Risultato: si specula sui buoni sentimenti, si pubblicano prodotti effimeri. (Conseguente citazione da Leopardi sullo stesso argomento).
23. Un po’ ci scherzo su (i poeti e i cretini, la carta con cui sarebbe meglio fare altro… questo no, non è un giudizio di valore); un po’, invece, mi preoccupo, perché spesso ricevo anch’io, come tanti altri «addetti ai lavori», pubblicazioni cartacee e e-book da parte di autori che sperano in un riconoscimento che non spetta a me dare con un sì o con un no, ma riguarda dinamiche ben più complesse.
24. Conclusione: non è la tenacia del poeta a voler pubblicare il problema (anzi, se una tale tenacia fosse mancata nella storia della poesia non avremmo avuto dei capolavori). Il problema è un altro: una fetta di editoria che se ne approfitta.
25. Tutto quello che non trovate nel mio articolo, ahimè, lo trovate nei commenti più aggressivi e polemici.
26. Un’ultima cosa: il titolo era ovviamente una provocazione. Il tentativo non andava che in una direzione: quella di stimolare (non di offendere).
27. Catarsi: non bisogna essere d’accordo con me.
28. Ringrazio tutti quelli che hanno contributo accordingly.
Da 1 a 4: ok, per quanto la definizione è interessante, ma inutile, come tu stesso provi.
5: la tua conclusione è fondata? Io direi di no.
Da 6 a 10: da quando esiste il mercato dei libri uno degli scopi della pubblicazione è l’utilità. Dal momento che ci sono persone disposte a pagare per pubblicare, è utile pubblicarle. Ciò non dipende da nessun cambiamento di paradigma estetico ( è un difetto diffuso nelle persone di cultura umanistica pensare che il mondo cambi quando loro cambiano le parole per dirlo ), è un fatto economico e culturale. Più gente istruita oltre che leggere scrive, queste persone hanno un lavoro, hanno piacere nel cercare un riconoscimento, dunque a volte pagano.
11: l’utilità di ogni libro pubblicato è anche il profitto.
12: d’accordo: riflettiamo. Non d’accordo: ogni parola scritta ha valore potenzialmente poetico.
13: d’accordo. Estenderei a tutti ciò che dici.
14: come si faccia a parlare del DNA della poesia resta per me un mistero. Poesia è forma, non sostanza.
15: ma no, ci mancherebbe.
16 e 17: è difficile dirlo in una riga, ma mi pare un passaggio controverso.
Da 18 a 20: la “truffa” più o meno lecita non dimostra mica tutto quanto detto fin qua. E comunque, una volta messe a punto delle azioni per rendere più o meno consapevoli le persone circa la loro produzione e circa le dinamiche editoriali, amen.
21 e 22: amen. Ripeto: questo non è *il* risultato, questo è solo un aspetto marginale dell’esistenza umana e culturale mondiale, dal quale non vanno tratte conclusioni e riflessioni più complesse di un amen. Quello di prendere un fatto sociale per dimostrare un altro fatto è un’operazione che va fatta con tutti i crismi. L’editoria a pagamento non è la dimostrazione che la categoria dell’utile ha sostituito quella del bello e del brutto.
23 e 24: ti toccherà perdere tempo a parlare con queste persone.
25: mi scuso per la mia eventuale sconsideratezza passata.
26: ma come? Proprio adesso che…
27: infatti, bisogna essere d’accordo con me.
28: de nothing.
@dm:
la questione dell’anonimato spunta periodicamente in internet, ma la ritengo mal posta, intanto perchè nella maggior parte dei casi trattasi di pseudonimato (il che è ben differente, e non manca di nobili ascendenti letterari), e poi perchè ci si dimentica che il tavolo cui giocano i commentatori di un blog non è necessariamente lo stesso cui gioca l’autore dell’articolo. In un sito come questo, che riporta molti articoli di accademici, la cosa è particolarmente evidente. L’accademico si gioca l’identità al tavolo delle pubblicazioni accademiche, non viene qui a giocarsi la propria reputazione, qualunque cosa gli si possa dire nei commenti, gli si dovesse anche smontare completamente la tesi espressa nell’articolo, non avrà grandi effetti sulla reputazione dell’accademico.
Avrebbe senso che il commentatore desse le proprie generalità solo se queste fossero in qualche maniera conosciute all’autore dell’articolo. Se fossi, chessò, un collega di dipartimento, magari ostile, e entrassi nella discussione sotto falso nome, opererei certamente una scorrettezza, o quanto meno un comportamento ipocrita. Ma se il mio nome non rappresenta nulla, a che pro?
Assumere un’identità fittizia, anche laddove l’identità reale, in quanto totalmente sconosciuta ai più, risulterebbe altrettanto fittizia, non mi pare sia chissà che sgarbo.
Certo, rimane il sospetto sulla reale identità celata sotto lo pseudonimo, chi garantisce che non sia effettivamente quella di qualcuno che conosco e cui vorrei addebitare il peso delle proprie parole? Ma questo sospetto non si corregge certo con un nome e cognome, a meno che, paradossalmente, questo nome e cognome non sia effettivamente conosciuto.
Personalmente, non conoscendo nessuno dei commentatori intervenuti di persona, potrei dubitare del’identità sua, di Roberto Buffagni, di Diego Bertelli stesso. Anche una volta verificata su internet l’esistenza di queste persone, non sarei in grado di stabilire se siano esse a scrivere o qualcun altro (o chissà, un omonimo del tale trovato su internet).
Dovrei mettermi a indagare sui singoli indirizzi IP, ma in verità non so nemmeno se sia possibile risalirci dal mio pc. La cosa mi è quindi preclusa.
Al fondo rimane soltanto la certezza solipsistica della mia esistenza e di quella della tastiera e dello schermo del mio pc, potrebbe essere che sto comunicando con computer particolarmente sofisticati, invece che persone, dovrei sottoporvi al Test di Turing, eccetera.
Invece di raggiungere il buon Paul Schreber negli annali universali delle psicosi umane, sarà il caso di mettersi a rispondere alle argomentazioni, senza troppo badare a chi le esprime.
@Diego Bertelli
1-5: lei prende arbitrariamente la definizione di brutta poesia da un libro che ha letto per caso, la confuta, dopodichè afferma apoditticamente, dopo una citazione casuale di Kant (che userò contro la sua tesi), che la società contemporanea ha sostituito ogni criterio estetico con criteri economici.
Segue altra affermazione apodittica: la domanda pertinente da fare al testo poetico non è inerente la sua funzione estetica, ma la sua funzione performativa: a che serve?
Ci si potrebbe fermare qua, dire tranquillamente che possiamo vivere tranquillamente senza aver letto la Divina Commedia (e anche nel ‘300, peraltro, lo fecero in tanti, e non solo villani affamati): a che serve? Uccidiamo il chiaro di luna!
6-10, mi accodo a Dfw: la pubblicazione ha come scopo l’utile (non l’utilità, la quale è soltanto una caratteristica funzionale ad esso), viviamo in una società fondata sul mercato.
9 non può essere certo del fatto che non esistano. ho arrotondato a lungo facendo bancarella al mercato delle pulci con libri trovati in cantine sfitte e cassonetti della carta e ho venduto le cose più improbaili. i libri di versi immondi andavano più dei libri accademici, ma ovviamente i libri più in voga erano i romanzi rosa.
11 perchè escludere l’appagamento dell’autore? è evidentemente questa la domanda di mercato cui rispondono le case editrici a pagamento.
d’altronde, come disse Kant: «Per distinguere se qualcosa è bello o no, noi riferiamo la rappresentazione non all’oggetto mediante l’intelletto, per la conoscenza, ma al soggetto, e al suo sentimento del piacere o del dispiacere mediante l’immaginazione. […] Quindi il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza, dunque logico, ma è estetico […] soggettivo» ogni scarrafone è bello a mamma soja.
12 per quel che mi riguarda trovo che gran parte della lirica di ogni tempo possa essere ascritta alla categoria “sfoghi sentimentali, para-esistenziali”, La lirica novecentesca, perdipiù, ha praticamente abolito la forma. A questo punto ci sarebbe da capire quale sia il contenuto in grado di garantire poeticità. Potremmo rifletterci sopra.
Posso ipotizzare che l’affermazione del verso libero abbia contribuito a cancellare la nozione del ritmo poetico in favore di una concezione visiva della poesia, dove il verso diviene soltanto arbitrarietà dell’a capo.
13 vero, c’è un forte e diffuso bisogno di puntellare la propria individualità con un qualche residuo posticcio dell’aura poetica; è un’epoca in cui chiunque si proclama artista. io ho una teoria semplice: avendo il ‘900 abolito (o finto di abolire) ogni concetto di forma artistica, non c’è attività più facile che quella dell’artista: basta avere qualche idea, chi non ha idee? il cesso di Duchamp era l’arma dell’apocalisse, dunque l’apocalisse c’è già stata, dunque andiamo avanti.
14 il DNA della poesia è ben salvo nella tradizione orale (eccoci), la poesia borghese (Buffagni docet) è già un mutageno. quanto alla cultura occidentale, essa ripone le sue speranze e i suoi desideri in ben altro che la poesia, può non piacere ma è così. giusto la lirica è sopravvissuta, come cura palliativa per i vari disturbi della personalità che la società contemporanea ci impone.
15 quale questione? il fatto che molta gente scriva brutta poesia per sentirsi meglio? c’è più gente che allo stesso scopo pratica arti marziali. preferisco i poeti, in genere son gente mansueta.
16-20 c’è gente che pubblica libri di poesia immondi per sentirsi meglio di quel che è, spesso pure meglio degli altri, la cosa può essere indifferente, triste o ridicola, secondo i casi.
ci sono industrie attrezzate per rispondere a questo bisogno, il che è una normale dinamica di mercato.
non è comunque stabilibile a priori che qualunque libro di poesia pubblicato presso case editrici a pagamento risponda al criterio sopra enunciato. ci possono essere opere validissime, nel mucchio.
quanto al fatto che le case editrici a pagamento ingannino i loro autori riguardo al valore dell’opera: accade anche per gli autori pubblicati presso editori “virtuosi”. anzi, accade in maniera peggiore, perchè l’inganno viene perpetrato ai danni dei lettori, con vergognosi battage pubblicitari, recensioni marchetta ed effluvi di interviste e comparsate.
il problema di fondo è la triste sopravvivenza del fantasma dell’aura autoriale nell’epoca della sua riproducubilità tecnica: coloro che si propongono alle case editrici a pagamento per pagare la sensazione di essere Autori non sono altro che il riflesso della pessima pedagogia operata dai media intorno a coloro che si fa passare per Autori effettivi.
la venerazione per l’Autore è una delle poche cose su cui pedagogia scolastica e televisiva concordano perfettamente.
non vorrei lanciarmi in arditi richiami alla questione della sopravvivenza così come la espose Elias Canetti, ho già citato Schreber nel commento sopra, ma effettivamente potremmo considerare l’Autorialità come una forma simbolica e peculiare di essa: laddove il potente canettiano esercita attraverso la minaccia costante della forza il proprio diritto a sopravvivere sulla massa dei sudditi, l’autore esercita attraverso la presenza costante della sua narrazione il proprio diritto a sopravvivere sulla massa del pubblico. è in questo contesto che si esplica quel desiderio di immortalità, stato della sopravvivenza suprema, che è lo stesso del potente canettiano e dello psicotico Schreber; ovviamente nelle forme peculiari di una sopravvivenza letteraria, simbolica.
21 dunque: chi fa credere cosa?
senza il mito di Baudelaire (generalmente filtrato da quello di Jim Morrison) quanti di quei libri contro cui punta il dito non sarebbero stati scritti?
22 si specula sui buoni sentimenti, si pubblicano prodotti effimeri. il romanzo rosa prospera da decenni su questa accoppiata, non so se abbia reso il mondo migliore o peggiore, ma certo non ha impedito l’esistenza della buona letteratura.
23 esistono modi per declinare cortesemente un invito alla lettura. nell’epoca del totale sovraccarico informativo, esiste un inalienabile diritto al pregiudizio selettivo. ne faccia uso.
24 non è il problema, forse è una parte del problema, più probabilmente non è neanche un problema, ma una semplice bizzarria dei tempi, come l’usanza
25 polemico sì, aggressivo entro i limiti del lecito, in ogni caso: quel che abbiamo aggiunto l’abbiamo aggiunto proprio perchè nell’articolo mancava.
26 obbiettivo raggiunto, personalmente non mi sono ritenuto offeso, né era mia intenzione offendere, semplicemente difendere un punto di vista alternativo al suo.
27 ovvio
28 de nada
Eh, però i due simpatici anonimi pseudonomi, su un punto concordano con Bertelli, ne seguono lo schema per punti: è fatta, vi siete adeguati…!
è stato bello e utile ( ops ), nel senso che prima di postare avrei letto e riletto l’articolo e invece i punti mi hanno fatto risparmiare tempo. In più fanno scena e forse hanno qualche vantaggio. Try very bad, Poe!
Detrito, lei scrive:
la questione dell’anonimato spunta periodicamente in internet, ma la ritengo mal posta, intanto perchè nella maggior parte dei casi trattasi di pseudonimato
Ma non ho posto la “questione dell’anonimato”. Mi sono riferito agli “ectoplasmi di rete”.
E scrive
L’accademico si gioca l’identità al tavolo delle pubblicazioni accademiche, non viene qui a giocarsi la propria reputazione.
Ovviamente non mi riferisco all’accademico, ma all’uomo.
Infine:
Personalmente, non conoscendo nessuno dei commentatori intervenuti di persona, potrei dubitare del’identità sua, di Roberto Buffagni, di Diego Bertelli stesso.
No, ovviamente lei non può aver dubbi sull’identità di Bertelli, poiché siamo in rete, e in rete è possibile risalire alle pubblicazioni, agli articoli eccetera di un autore. E se lei legge e commenta questo blog vuol dire che ha almeno fiducia nell’onestà della redazione e prende per vero che un articolo pubblicato a nome d’un autore esistente provenga davvero da quell’autore.
SEI NOTE DI UN OSSERVATORE PARTECIPE SU “I POETI SONO TROPPI”
1.
«verissimo che esistono troppi libri spazzatura di non-autori o meri poeti “amatoriali”. poco vero però che questi amatori offuschino i grandi o “riducano il valore della poesia». (Andrea)
Questa constatazione non solo è onesta ma, consapevole o meno l’autore, ha il merito di mettere in un’unica cornice la questione che dovrebbe essere al centro di questa discussione: il contrasto – latente, ma reale e di ardua soluzione – tra *essere pochi in poesia* e *essere molti in poesia*.
2.
È diventato difficile (o addirittura impossibile?) affrontare tale contrasto in modo dialettico. Dopo che abbiamo visto fallire sia i tentativi miranti a “una poesia per tutti” o persino “di tutti” (avanguardie surrealiste, neoavanguardie) sia quelli intesi al recupero/difesa della Tradizione (o di una tradizione). Da qui la crisi (anche della poesia). Ma anche i modi, a mio parere abbastanza puntuali ma parziali e in fondo unilaterali, con i quali sia Bertelli sia i suoi contestatori hanno scartato una questione ancora fondamentale (per me): in che relazione stanno i due fenomeni: la poesia prodotta dai pochi e quella prodotta o tentata dai molti; la poesia pubblicata dalle grandi case editrici e quella pubblicata dai piccoli editori o “selvaggia”; quella che passa per poesia di serie A e quella che passa per poesia di serie B o C o non poesia?
3.
Invece dell’indispensabile (sempre per me) discorso unitario e complessivo che affronti con rigore entrambi i fenomeni, ne sono stati fatti di separati e contrapposti. Bertelli, ad esempio, ha bersagliato esclusivamente la piccola editoria (pur riconoscendo – ma è facile farlo in astratto – le eccezioni) senza considerare l’intero sistema editoriale (grande e piccola editoria), trascurando dunque che meccanismi analoghi a quelli da lui denunciati o altri (amical-professional-corporativi), ben più occulti o silenziati e dagli effetti persino peggiori sono in vigore nella stessa grande editoria. Non si ha forse nella grande editoria «uno spreco di risorse perpetrato» in nome di un altro tipo (elitario) di vanità più tollerata di quella di massa da lui (in parte giustamente) denunciata? Che dire, ad esempio del Meridiano di poesia della Spaziani pubblicato dalla Mondadori e del rifiuto di fare un Meridiano per le poesie di Fortini (se ne parlò anche su questo blog: http://www.leparoleelecose.it/?p=5623)? In questi casi il problema dello spreco di carta non esiste? Ci si può limitare – Bertelli ha chiesto «una tutela editoriale» – all’auspicio di un generico intervento correttivo-punitivo? (Chi poi lo dovrebbe fare non dice). E se esiste una «fetta di piccola editoria che lucra sui sentimenti spontanei, una volta relegati alla pagina del diario segreto», non lucrano altrettanto la grande editoria o altre fondazioni o accademie su sentimenti che magari si presentano meno spontanei, più “civilizzati” o “rispettabili”?
4.
Il problema dell’editoria ( grande e piccola, a pagamento e apparentemente non a pagamento o “mecenatesca”) andrebbe distinto più nettamente dal problema del valore dell’opera che arriva in qualche modo alla pubblicazione. E quindi da quello della *funzione* (possibile o impossibile oggi?) della critica. Fa bene Detrito a ricordare che « il singolo critico è destinato a soccombere, di fronte alla portata del flusso incessante di opere». Ma Detrito – dico ora dei limiti della contestazione a Bertelli – non so se per disperazione o ideologia mi pare cancellare la critica dalla faccia della terra. Sembra che egli accetti i processi in atto (la moltiplicazione delle scritture poetiche, parapoetiche, similpoetiche o di massa; tutta quella produzione di una mal indagata “nebulosa poetante”) come inarrestabili e in sé assolutamente positivi («la poesia non gode di cattiva salute»). Senza fare distinzione tra spinte emancipatrici e comportamenti coatti o subiti. Senza ricordarsi che anche i tumori a volte sono inarrestabili. S’inchina (ripeto: non so se per disperazione o ideologia) all’effimero, invece di chiedersi perché certe forme devono restare effimere (per coazione o scelta libera?). E accoglie allo stesso modo indiscriminatamente tutte le forme di oralità, come se la loro espansione cancellasse il problema posto da Bertelli – quello della scrittura poetica (e dell’editoria di poesia). Come se – pur continuandola lui stesso a praticarla – ¬ la scrittura fosse qualcosa di sorpassato rispetto all’oralità e magari destinata a scomparire. O esalta, sempre in astratto, una improbabile « poesia che non ambisce ad entrare nei canoni, assolutamente indifferente alle classificazioni della critica e alle questioni editoriali»; e quindi soddisfatta (davvero?) di restare in un mondo tutto suo. O sostiene che « la poesia popolare è viva e lotta insieme a noi», mentre a me pare davvero improbabile che si possa oggi parlare di «poesia popolare» come fossimo nell’Ottocento.
5.
Se teniamo ferma la necessità di una *funzione critica* nei confronti della produzione poetica (d’élite e di massa) e non la liquidiamo come “reazionaria”, dobbiamo però riconoscere l’insufficienza di procedere “artigianalmente”, come mi pare proponga Castiglione (e come ho sperimentato io pure con in Lab. Moltinpoesia di Milano). Si resterebbe in una zona di marginalità o di pionierismo semiclandestino. C’è invece l’esigenza di un unico, forte discorso da svolgere su un piano *politico-estetico* unitario. E forse si costruirà solo se non ci si rinserra nei due snobismi contrapposti (d’élite, di massa) che vedo serpeggiare anche in questa discussione. A Castiglione chiederei perciò: come fa a scegliere *i testi di qualità* da sottoporre a critica attenta? Non è che li pesca, come capita, per pigrizia o difficoltà oggettive, solo tra quelli che ha più sotto gli occhi (il circuito amical-professional-corporativo), mentre ci sarebbe da porsi il problema di esplorare – coordinando il coordinabile e convinti dell’importanza dell’impresa – il «mare magnum» della produzione di massa, operazione di solito squalificata in partenza per un pregiudizio elitaristico (si vedano certi giudizi acidi di Berardinelli, ma non è il solo…) o ritenuta impraticabile a priori?
6.
In vista di questo unico discorso *politico-estetico*, ben ha fatto Barone a indicare la ricerca di Rosenkranz. L’accolgo con piacere, anche perché si avvicina al discorso da me tentato (senza conoscere questo autore) di una fluidificazione tra livelli supposti alti e livelli supposti bassi (Cfr. Appendice qui sotto).
Appendice:
Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della
critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori critici.
Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore”
sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello
assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o
perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel
mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per
dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?
Ti dico subito e con una formula la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è
bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità
del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico
trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli,
gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità
elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a
livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma
anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui)saltano
all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili.
Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti:
1. come una maschera nasconde una sorda resistenza contro quelle ricerche
poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente
mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non
riuscito;
2. dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio
estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che
però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione – è anche un
segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio
scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto,
lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce la sua funzione, irrinunciabile per
me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi
va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia
includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico estetico:
stabilire una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non
poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che
sono omologhi di quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate,
nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare
che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro
senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza –
per me valori e disvalori provvisori, storici, rimodellabili in sempre nuovi
ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per
trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal
brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito, è per me
umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come
oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello
e brutto. Più praticamente sento fecondi gli scambi, le contaminazioni, le
dialettiche (non a senso unico) fra loro.
(da http://www.poesia2punto0.com/2013/08/03/sulla-poesia-esodante-intervista-di-ezio-partesana-a-ennio-abate/)
@ Ennio Abate
Io non credo che si possa parlare di molti contro pochi in poesia, come di due fenomeni in contrasto fra loro. La dialettica risulta ardua perché è impropria in partenza. Il fenomeno è unico, non c’è alcun conflitto. La storia della poesia non è una storia di lotte di classe. Non è una provocazione, è solo una battuta. L’esigenza di un fronte politico-estetico è tua personale, legittima, ma per me assurda. Ti fa leggere male pure i commenti degli altri. Ad esempio tu vedi serpeggiare snobismi di massa. Per parte mia non c’è nessuno snobismo, ho letto un testo e ne ho messo in evidenza quelli che per me sono errori logici, di metodo, di valutazione. Discutere del valore delle opere che arrivano alla pubblicazione è da pazzi. Ognuno scrive ciò che vuole, ognuno pubblica ciò che vuole. Quando mancherà la carta scriveremo a matita, a turno.
La critica: gli insegnanti insegnino, i critici critichino. Stop. La funzione della critica è quella di dare strumenti di lettura acquisiti attraverso lo studio, cose che il comune lettore di solito non possiede. James Joyce + Edmun
Wilson = satisfaction ( for me ).
Anche gli operai sono troppi e la disoccupazione è un male sociale. Ma non lo è la poesia, per fortuna.La letteratura sopravviverà, credo, con ottime opere, nonostante la cattiva scrittura. Il medico non ci costringe a scrivere e neppure i morsi per fame ci inducono a scrivere poesie. Così come manca il lavoro agli operai, mancano i lettori alla poesia. E’ una questione di igiene mentale e i lettori si difendono come possono: troppa poesia-pattume in giro? OK non si legge più poesia, la poesia è decaduta, la poesia è finita e bla bla. Tutti sullo stesso piano, ottimi poeti e pessimi poeti. Che poi non sono quelli che scrivono poesia “bella” o “brutta”. Il bello e il brutto sono categorie soggettive che dovrebbero essere estromesse dalla critica: non c’è infatti nulla di critico e di razionale nel definire qualcosa come brutto o bello, come “mi piace” e “non mi piace”. La critica non è il pollicino di Facebook, ma qualcosa di più serio, credo. Noi abbiamo bisogno di:
a) poesia “VERA”
b) poesia SCRITTA BENE
c) poesia “CRITICABILE”, ossia quel gioco linguistico che ti permette di penetrarvi dentro e di abitarlo criticamente.
Non possiamo però decidere, per il poeta, come debba essere il suo gioco linguistico e semantico: non possiamo insomma volere che i poeti scrivano quello che noi desideriamo leggere. Non sono mica dei tappetini sulla soglia di casa, i poeti, dove sta scritto “Benvenuti” in lettere rosse. Talvolta sono ostici, difficili, rugosi, menagramo, cinici e cattivi, ma questo fa parte del loro ruolo, se sanno di averne uno in questa società delirante. I versi del mio omonimo e non parente Lucini, forse non sono parenti della levigata plasticità dannunziana (e anzi sono l’anti-dannunzianesimo), ma sono versi bellissimi, feroci, da leggere e da dimenticare, da leggere a voce e non mentalmente, da leggere in pubblico e non nella auto-consolatoria lettura intimista di anime ipersensibili (per se, naturalmente, e non per gli altri) che intendono la poesia come “consolatrix afflictorum”, usurpando le funzioni di una certa Maria di Nazareth, madre di un certo Gesù di Nazaret di cui ricorre il 2014simo anniversario della nascita (anno più anno meno). Quanto ad Arbasino non conosco i suoi versi, ma oso insinuare che il “peso” dei suoi versi e quelli delle “Revolverate” dell’avvocato milanese non siano paragonabili, se consideriamo quale traccia abbiano lasciato nella letteratura. Quanto alla poesia di Montale, nulla da eccepire: la prima raccolta è magistrale e basterebbe da sola a farne uno dei maggiori del ‘900, ma dopo un po’… “Satura”. Lucini è più estroso e, a me pare, più “vero”. E sconosciuto, perché l’edizione di Sanguineti è ormai datata e non più rinnovata – se non erro. E se S. ha riservato più “spazio” a Lucini piuttosto che a Montale… vabbé, vediamo che cosa ci sta in questo “spazio”, se ci sono cretinate o cose serie: la poesia per fortuna non si vende ancora a centimetri quadrati, come la pittura.
E rispetto ai poeti di infima caratura, faccio alcune osservazioni:
a) Nessuno ci obbliga a leggerli, neppure per parlarne male o per tener alto il nostro narcisismo di critici menando stroncature a destra e a manca;
b) sarebbe bene invece, che i critici parlassero di più dei poeti “veri” e ignorassero i troppi poeti di plastica, a iniziare dalle grandi case editrici, perché sono quelle, le più seguite dai lettori. Ma ovviamente oggi anche Einaudi pubblica di tutto, purché respiri, o meglio, purché abbia un nome conosciuto (magari nella giurisprudenza o nella politica o qualche degradato capitano d’industria): si “critica” (si fa per dire) il nome, non l’opera. Si premia il candidato della grande casa editrice, non l’opera migliore, e così via.
Il problema dei “troppi” poeti è, insomma, un problema inesistente. Sarebbe sufficiente che gli editori non li pubblicassero, che i critici non ne parlassero, che i lettori non li leggessero. Ma abbiamo noi l’educazione critica per scegliere quello che vogliamo leggere, per pubblicare soltanto quello che vale (e non l’autore che si riesce meglio a spennare), a criticare soltanto quello che vale la pena di essere criticato? Nessun meccanismo automatico potrà mai garantirci di avere sugli scaffali delle librerie opere degne di essere lette: sta a noi scegliere, educarci criticamente, curiosare, conoscere. Invece a volte ci comportiamo come chi compera cibo per abbuffarsi piuttosto che per nutrirsi: senza scegliere e vagliare, senza soppesare.
Dunque è un problena mostro, anche, e non soltanto dei poeti.
Buon Natale
La poesia non è letta praticamente da nessuno (anche un libro di un poeta celebre pubblicato da un grande editore al massimo raggiunge le mille copie).
Chi decide che un poeta è davvero degno di tale titolo, del “nome che più dura e più onora”, e un altro no? In base a quali criteri?
E’ possibile stabilire criteri oggettivi e condivisi in base a cui giudicare la poesia (eccezion fatta per casi di banalità e di ingenuità evidenti)? Il poeta deve per forza essere (come io stesso a volte sono stato incline a credere) un letterato, un intellettuale, un teorico, una persona colta? Non potrebbe, per ipotesi, manifestarsi anche oggi un poeta naturale, “ingenuo”, spontaneo, un bardo o un aedo mosso dalla sola forza dell’ispirazione innata? (Personalmente non credo, ma non è del tutto impossibile).
Del resto, quante delle “fonti” e delle relazioni intertestuali suggerite dalla critica (e di cui la critica si compiace con lo stesso narcisismo del poeta, venendo per di più indotta proprio da esse, come in un gioco di specchi, a riconoscere e a legittimare la poesia) derivano, invece, da consonanze casuali, da un antecedente comune di cui a volte il poeta stesso non è consapevole, o, semplicemente, dal grande libro del mondo? (Il che non toglie che quelle relazioni esistano e significhino).
Che cos’è la poesia? Cosa la rende tale? E’ una domanda a cui è quasi impossibile rispondere in modo univoco. Ma se prima non si è risposto a questa domanda, non è possibile decidere chi meriti il titolo di poeta, e chi no.
Parliamoci chiaro: le carriere (siano esse letterarie o accademiche) vengono determinate quasi esclusivamente dagli appoggi familiari e politici di cui una persona dispone, da scambi di favori, dall’appartenenza ad una lobby, una cerchia, un gruppo di potere.
Circolano, in misura pressoché eguale, o simile, versi validi, discreti o mediocri nelle collane dei grandi editori, in quelle dei medio-piccoli, o in rete. Comunque, quasi nessuno li legge, indipendentemente dalla sede di pubblicazione, dalla potenziale visibilità, dal valore.
Alla conferenza o alla presentazione di uno scrittore (a meno che non sia un premio Nobel, una celebrità mediatica o un potentissimo barone universitario) assistono, in genere, poche decine di persone.
Ciò premesso, una cosa è certa. E’ manifestamente assurdo pagare migliaia di euro per farsi stampare un libro che quasi nessuno leggerà (a meno che non si tratti di un’edizione particolarmente pregiata, sul modello di certi libri d’arte a tiratura limitata, di cui fare raro e prezioso omaggio agli happy few).
In ogni caso, non sono la sigla editoriale, la rivista o il premio che danno valore ad un poeta (vale semmai il contrario).
Meglio, in concreto, fare un bel pdf, metterlo su http://www.archive.org, al limite farsi stampare, attraverso una delle tante e comode piattaforme di stampa su ordinazione, poche decine di copie da regalare agli amici.
Sibi et Musis, Musis et paucis.
E i posteri – “se ne saranno, in sede letteraria”, il che è dubbio – decideranno.
http://www.paginatre.it/online/amari-assiomi-sull%E2%80%99odierna-industria-editoriale/
Le questioni che pone Matteo stuzzicano:
a) Chi decide se uno è o non è poeta?
b) E’ possibile stabilire criteri oggettivi e condivisi in base a cui giudicare la poesia?
c) Il poeta deve per forza essere una persona colta?
d) Che cos’è la poesia? Cosa la rende tale?
e) La qualità dell’editoria e i costi per “farst stampare”.
Ho ampiamente affrontato questi temi in un saggio teorico di 120 pp. che non voglio qui pubblicizzare, ma mi piace rispondere in pillole, magari provocatorie, a queste questioni. In quel saggio affrontavo soprattutto il punto B), rispondendo che a mio avviso è possibile, ma sarebbe troppo lungo riassumerlo, pure in pillole. Ma ho affrontato anche gli altri pounti.
a) Il guaio di alcuni poeti è che essi stessi non hanno ancora deciso di essere tali. Un poeta deve “sentirsi” poeta, almeno dopo una prima fase di incertezza, di prove, di confronto, di raccolta di pareri e opinioni sulla sua poesia (com’è ovvio che accada). Il guaio di altri invece è che hanno deciso di esserlo senza riflettere ma soltanto mirandosi allo specchio, acriticamente e con una buona dose di presunzione. Tutte e due queste posizioni sono a mio avviso errate. La prima perché obbliga il poeta a dipendere dalla critica (appunto perché non è ljui stesso critico delle sue opere, non è quindi in gradi di difenderle e di sostenerle da attacchi più o meno leciti o da difenderla anche da pareri troppo favorevoli e pelosi, poco argomentati e collusivi (magari per secondi fini). La seconda perché solipsistica e arrogante, presuntuosa (e spesso ignorante). Chi decide, in sostanza è l’arbitro finale: il lettore. Se l’autore si legge è un poeta, se non si legge non lo è, pur de facto se non in potenza.
Questa questione si aggancia comunque alle altre e precisamente alla questione che abbiamo definito d): che cos’è la poesia? La poesia è il risultato di una proposta artistica in un contesto sociale. Il bravissimo poeta letto da nessuno (dai soliti 4 o 5 autori in tutta Italia) non sarà mai un poeta, perché nessuno lo considera tale. Lo sarà in potenza, per dirla con Aristotele, ma non in atto. Il pessimo poeta targato Grande Editore che vende 1000 copie (posto che 1000 le venda ed effettivamente siano poi lette…) sarà socialmente un poeta “in atto” anche se non lo è “in potenza”. Mettere insieme queste due cose è un piccolo miracolo, un’alchimia, e anche un compromesso, per certi versi.
Ma la questione a) tocca anche la questione c): il poeta è colto o non è necessario che lo sia? Esiste il poeta “£ingenuo”, quello “puro”? A mio avviso no. Esistono i falsi ingenui, come i pittori Rousseau o Ligabue, ma colti. Oppure, per dirla con un aforismo: “Il poeta colto e quello ignorante volano ambedue: il primo come un’aquila, il secondo come un pollo”. Tutti e due sono poeti, ma la differenza sta nel modo di esserlo. Io ho gran rispetto per i polli, ma certo mi fanno sognare di più le aquile, o anche soltanto i gabbiani. La cultuna non sarà indistensabile, ma se uno ce l’ha, fa la differenza, senza dubbio. Anche la poesia infatti è comunicazione e si rivolge a un preciso e particolare ambito dell’umano, che è lo scambio di senso (e di simboli, di arte) e più il messaggio è ricco, più viene apprezzato. Detto questo, la poesia NON è la cultura e teoricamente il poeta ingenuo può esistere, magari anche scrivere in modo accattivante. Deciderà chi lo legge (e non il critico) se è un’aquila o un pollo, o anche “solo” un gabbiano o un passero o un sapiente corvo.
Infine e): l’editoria. Se abbiamo detto che in Italia non si legge, è ovvio che il piccolo editore non possa stampare gratis. Il grande editore stampa gratis, è vero, ma stampa chi vuole lui. L’escluso, se vuole pubblicare, non ha altre scelte. C’è chi dice: ok, ti pubblico, ma mi acquisti 100 copie, ma è la stessa cosa (Usolo che almeno hai le 100 copie: il grande editore te ne regala 5 e se ne vuoi altre le acquisti a prezzo pieno e quindi, in definitiva, è quasi la stessa cosa, perché nessuno si accontenta di 5 libri omaggio, specie se ha molti amici e un certo “giro” di conoscenze “importanti”.
Casomai il problema è se chiedere migliaia di € per 100 copie, o max 700 / 800 € per un volumetto di 80 pagine in 100 copie, e un prezzo ragionevole (diciamo sotto i 4 €) per le ulteriori copie oltre la 100seima. Io mi comporto così e non me ne vergogno – e, peraltro, nessuno è obbligato a pubblicare e per dirla all’americana, “L’Italia è un Paese libero” (quasi sempre) e ognuno si rivolge a chi gli pare o a chi può. La qualità dell’editoria sta, invece, non tanto in questo quanto nell’onestà nei confronti del leettore, al quale bisogna proporre cose degne (non dico opere da Nobel, ma opere almeno dignitose) al lettore, facendosi aiutare da critici onesti anche se non perfetti (ce n’era uno, di perfetto, ma ha fatto una brutta fine).
Perchè non parlare invece della “brutta critica”? Per tanta “brutta poesia” c’è altrettanta “brutta critica”, spesso mossa dalla stessa ingenuità di cui si parla nell’articolo. Non credendo al discorso di ingenuità ma piuttosto a quello di ego smisuratamente “mal educato”, ritengo che lo stesso appartenga anche al “critico” che si presta alla poesia. Chi è il critico oggi? Andiamo anche a guardare la formazione di queste persone (poeti esclusi, la poesia parte dal fuoco dell’ispirazione e della creatività – bella o brutta ). Cenacoli di poesia, concorsini a pagamento, cerchie chiuse ai più basate su associazioni, compromessi etc etc. Sarebbe bello che una critica venga fatta da una persona che abbia scelto lo studio di questa disciplina , ovvero la critica letteraria, come grande interesse della propria vita e VOCAZIONE. Ci vuole vocazione anche per essere critici letterari, Non bastano riviste online che una qualsiasi persona può “aprire”, non bastano più tutte queste parole iempite di pacchianerie vuote. La sostanza della critica è il testo. Il filosofeggiare sopra la parola senza andare al “nervo” è da dilettanti. Dunque, chi decide che la poesia è “bella” o “brutta”, sempre se poi si vogliono credere adeguati questidue termini per parlare di poesia.
Direi che c’è ,troppa carne al fuoco nello scritto di Bertelli, troppi argomenti, che vanno dal giudizio estetico al commercio, all’editoria a pagamento, a mille problemucci che formano un problematico mare. É impossibile discutere in questo modo.
Mi fermo soltanto su un punto, allora, ed è il giudizio estetico, giocato sulle “Revolverate” del mio omonimo (non parente) Lucini, nei giudizi di Arbasino e Sanguineti. Per dire che il giudizio critico è un’opinione e basta, che viene – a mio avviso impropriamente – giocato sulla notorietà del critico stesso. Il critico però deve fare soltanto una cposa “far vedere” ossia argomentare, quello che egli trova in un testo. Se poi sia bello o brutto, dipende dal gusto del lettore e a volte anche dal fatto che uno abbia il mal di pancia o abbia fumato una canna. Il giudizio critico è un mito, del quale dobbiamo disfarci. Non esistono i giudici della poesia. Il giudizio critico per eccellenza è quello del lettore che decide, dopo alcuni versi, di continuare a leggere perché ne vale la pena, o riporre il libro perché non ci trova nulla. Ecco allora il critico, che interviene e dice “occhio: tui hai riposto un testo nel quale io ho trovato questo, quest’altro e quest’altro ancora”. Al che il lettore potrebbe avere un ripensamento ed effettivamente convenire che il critico ha visto giusto, oppure dire, semplicemente: “OK, ma questa cosa non mi dice comunque nulla”. QUSTO è il giudizio. Il giudizio infatti NON PUO’ essere critico, se si parla di letteratura e di arte, perché chi si accosta all’arte lo fa CON TUTTA la sua dotazine individuale: intellettiva, logica, affettiva, emotiva, intuitiva e non c’è nulla che possa adattarsi a qualche criterio in tutto questo, perché ognuno, in fatto di gusto, è criterio a se stesso e nessuno può sostituirsi al suo modo di intendere, accettare o rifiutare un’opera d’arte. L’essere umano, insomma, è integrale, non è scotomizzato in razionalità e a-razoinaluità, ma è questo e quello INSIEME, col coipo, peraltro. Pertanto, nessuno potrà mai dimostrare che l’Odissea di Omero è un bel libro o un brutto libro, ma soltanto mettere in risalto il suo valore e il suo disvalore (antropologico, storico, letterario, ecc. ecc.), tenendo anche presente che ciò che vale e non vale è sempre solggettivo anch’esso. Questo è CRITICA, a mio avviso…
L’approccio attuale, figlio dell’estetica, è a mio avviso completamente da rivedere, perché non riene conto dell’uomo, ma soltanto della cultura.
La riposta a questo problema e a questa esigenza sta forse nella figura del critico-poeta, del critico-artista, del critico-scrittore, oggi vista, non a caso, con tanto sospetto e tanta supponenza. Critica fatta dall’interno, dal cuore del fare, da chi la poesia la sente e la vive, pur se con un necessario filtro intellettuale. E la critica, oggi, più che giudicare o classificare, deve interpretare. Nessuno, oggi, è degno del titolo di poeta, che riferito ad una persona vivente suona quasi derisorio. A decidere saranno i posteri. Chi scrive è già morto, e parla a chi non è ancora nato. Per questo la parola poetica è il luogo dell’assenza, lo specchio abbagliante di un riconoscimento impossibile. Il passaggio dal ruolo di legislatore a quello di interprete ha questo risvolto in certo modo liberatorio, che ci rende per così dire assoluti.
Ma che problemi ancora vi fate? Altri l’hanno già risolti e sanno chi sono I VERI POETI!
Rivolgetevi a loro per ulteriori chiarimenti.
Vedete ad esempio:
Da: La Casa Della Poesia di Milano [mailto:segreteria@lacasadellapoesia.com]
Inviato: martedì 22 aprile 2014 06:52
A:…….
Oggetto: mar 29/04 ore 21: Domande ai veri poeti. Seconda puntata: C. Viviani e G. Consonni. Alla Casa della Poesia di Milano
Priorità: Alta
Cari amici,
Vi segnaliamo, per il prossimo giovedì,la seconda serata della serie “Domande ai veri poeti”, un’indagine di Giancarlo Majorino e di Tiziano Rossi sulla poesia contemporanea.
martedì 29 aprile 2014, ore 21
Domande ai veri poeti. Seconda puntata: Cesare Viviani e Giancarlo Consonni
a cura di G. Majorino e T. Rossi
Giancarlo Majorino e Tiziano Rossi affrontano un viaggio attraverso la poesia contemporanea interrogando, alla maniera socratica, i veri poeti.
In questa seconda serata della serie, interrogano Cesare Viviani e Giuseppe Consonni.
Palazzina Liberty, Largo marinai d’Italia 1 – offerta libera
Confidando di avervi tra il nostro pubblico e in una vostra diffusione,
vi inviamo i nostri cordiali saluti
La Casa della Poesia di Milano
web: http://www.lacasadellapoesia.com
e-mail: segreteria@lacasadellapoesia.com
Come raggiungere con i mezzi pubblici la Palazzina Liberty Largo Marinai d’Italia – Milano:
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Caro Castiglione ma tu hai veramente letto le tue poesie? ti sei mai veramente soffermato se la tua è brutta o bella poesia?
Questo articolo dovrebbe farti riflettere e fare riflettere quelli come te che si sentono poeti e critici allo stesso tempo; essendo in realtà solo scrittori di pensieri personali. (la vanità e qualche buona conoscenza uccidono l’animo)
e poi diciamo la verità: se leggo poesie di piccole case editrici la maggior parte dei prodotti sono scadenti
Se leggo editori grandi (specchio, bianca,) insieme a prodotti scadenti (amici degli amici) trovo sempre anche qualcosa di molto bello.
Ottima iniziativa quella di Majorino e Rossi ma peccato che per Milano ci sono 130 Km, da dove mi trovo… :) auguri comunque.
Tornando però alle parole e al senso dell’intervento di Matteo e di Ennio: la questione di chi è o non è poeta. Che poi è sempre un giudizio.
Beh, io non ce l’ho col giudizio “in sé”, che è una delle attività collegate alla libertà umana ed espressione della decisione personale. Ma non sono d’accordo con gli elenchi e le distinzioni fra chi scrive e deve essere considerato “poeta” e chi invece è, poverino, uno stupidotto o giù di lì che non ce la fa e magari ha anche l’arroganza intellettuale di sentirsi poeta…
Sbarazzo il campo subito, affermando che essere poeti (o meglio, avere il senso dell’arte, perché la poesia è una delle arti scritte, con la narrativa, l’aforisma, il teatro… fra mille arti inventate dall’uomo) è di tutti, basta frequentare l’arte. L’uomo è un essere simbolico e l’arte è senso veicolata in simboli, in figure retoriche, in allusioni, in mille modi. Il cane non trova un particolare significato in un bel quadro: il massimo del suo apprezzamento e farci una pisciatina sopra. Ma noi tutti, intellettuali raffinatissimi, scaricatori di porto o guerrafondai, “sentiamo” qualcosa in presenza di un’opera d’arte, scritta, cantata, suonata, dipinta… se ci pisciamo sopra è per sfregio, non per istinto. Dunque, il senso dell’arte è una caratteristica costitutiva dell’essere umano, fisicamente e mentalmente. Qualcosa che attira, che sprona a continuare un certo discorso, un certo senso che vi troviamo. Così, alcuni di noi decidono di cimentarsi in questo discorso, altri se ne stanno fuori ma diventano cultori ed estimatori dell’arte, altri occasionalmente, altri invece decidono di dedicarsi ad altre occupazioni.
Perciò, io non mi scandalizzo degli artisti che considero mediocri e anzi, trovo che sia apprezzabile il loro sforzo di produrre un’arte dignitosa. Il problema è che alcuni di loro, a ragione o a torto, pretendono un riconoscimento sociale, molto spesso anche economico e di potere, in nome di un certo “talento”. E’ così che l’arte, da libera e apprezzabile in se stessa perché fine a se stessa, diventa strumento per un altro fine, magari anche lecito o alto, come l’arte che celebra l’ideologia, ma sempre “altro” rispetto alla sua libertà.
Non mi scandalizzo neppure se molti poeti pubblicano intere raccolte sciatte e vuote: fatti loro e peraltro con la enormità del loro narciso che li spinge a spendere danari (e molti danari a volte) pur di pubblicare le loro sciatterie, almeno contribuiscono a dare il pane a tipografi ed editori rapaci, che poverini devono vivere anche loro. Se la dicono e se la giocano, cazzi loro. Saggezza è, a mio avviso, ignorarli e malafede è, come fanno certi critici, incensare il vuoto che essi esprimono.
detto questo, mi sembra esagerato e comunque improprio affermare che soltanto i posteri daranno un giudizio valido sulle opere d’arte. L’arte è adesso, non fra 100 anni. E noi di adesso abbiamo il dovere di approvare o dissentire, apprezzare o ignorare, riconoscere o misconoscere gli artisti. L’artista è uno di noi, che parla, che mangia che dice scemenze e cose alte, che parla alle folle, che va al cesso, insomma, uno di noi che – e questo è il nocciolo – ha un ruolo, che nessun altro può svolgere. Ebbene, non riconoscere l’artista significa non riconoscere il ruolo dell’artista nel contesto socio-culturale e, direi un po’ da vigliacchetti, demandare il tutto a un futuro, quando ormai il discorso pro-vocatorio dell’artista ha largamente esaurito il suo impatto e certo riveste importanza per la cultura, ma fino a un certo punto. Significa condannarci a restare sempre indietro rispetto alle provocazioni dell’arte contemporanea.
Non si tratta pertanto di “celebrare” gli artisti del passato, ma discutere sul contenuto e sulla forma di arte che ci propongono i bravi poeti come Viviani o Consonni (che io non conosco, ma qui prendo per buono l’apprezzamento di Majorino e Rossi, che sono persone di indubbia competenza). Questo si deve fare, per tutti gli artisti e non soltanto per quelli più noti come questi due.
Certo, c’è grado e grado di artisticità, mica tutti sono Picasso o Montale o Rosselli. Ma va anche osservato che l’artista bravo e soprattutto “vero”, non nasce come un fungo ma è “anche” il prodotto di un lavorìo culturale sotterraneo fatto da artisti che vengono poi dimenticati, credo a torto. Ci sono legami insospettabili nei contenuti e nelle forme artistiche, trasversali peraltro nelle stesse arti (la letteratura che prende spunto dalla pittura o dalla musica e viceversa: si pensi ad es. ai “Quadri per una esposizione” di Mussorgskij o all’enorme produzione musicale e pittorica collegata al poema di Dante o ai poemi omerici. Trovo pertanto che l’idea di dividere il mondo in “bravi artisti” o “artisti mediocri”, sia un poco romantica, impraticabile. Mussorgskij prende spunto da quadri ormai dimenticati e di scarso valore artistico e compone un’opera fondamentale per la cultura del tempo. E molti altri esempi si potrebbero fare. É così che si fa arte e cultura, credo.
Pertanto, se qualcuno mi domanda “sei poeta?” io gli rispondo che sì, lo sono, anche se ci ho messo anni per capirlo e non sono ancora del tutto sicuro, anche se ho forse 5 o 6 lettori, uno dei quali in fin di vita e anche se non mi sono mai preoccupato di diffondere o presentare le mie opere. A qualcosa serviranno, non sta a me finalizzare la mia scrittura a qualcosa. E se non serviranno a nessuno, va bene anche così: a me sono servite e a mia moglie per dire che sono un perdigiorno. Che siano belle o brutte non mi importa: a me piacciono anche se vedo, col senno di poi, cose che nella loro forma potevano essere espresse meglio. Insomma, lasciate che i cattivi poeti scrivano, purché lo facciano cercando una loro verità poetica e non per fini ambigui: sempre meglio che essere un politico ladro, un mafioso o un operaio che fa gli straordinari con l’illusione di diventare benestante. O peggio, un intellettuale che scrive cazzate sapendo di scriverle, perché molta gente vuol leggere cazzate ed è disposta persino a pagarle… Io credo che lp’artista debba ignorare tutto questo e tirar dritto per la sua strada. E credo anche che l’artista debba essere un buon critico, perché non si fa arte “a caso”, per grazia divina, per “inclinazione” o per “vocazione”, ma ragionando sul mondo e su quello che altri dicono di questo mondo. Non credo all’artista meteorite, che ci viene dalle stelle per grazia ricevuta, anche se, per una serie di mille concause, qualcuno riesce meglio di altri nell’applicarsi a una disciplina artistica.
Caro Matteo, tu hai letto le mie poesie, le mie critiche, e le riflessioni che cerco di articolare regolarmente? se si’, ti prego di entrare nel merito; se no, ti chiedo di risparmarci queste uscite che si rivolgono solo contro di te. Io non mi sento poeta, ma cerco di praticare la poesia; non sono sicuro di potermi definire critico, ma cerco di praticare la critica. Il sottotitolo nel mio blog (se a quello ti riferisci) capisco possa dare fastidio, ma va inteso come un’etichetta che aiuti i navigatori a valutare i contenuti per conto loro – cosa che tu non sembri aver fatto.
matteo mette il dito nella piaga, ma dove c’è mercato non bisogna mettere il dito, un mestiere è un mestiere
l’editoria molto piccola e a pagamento esiste perché c’è una forte domanda di accesso alla produzione simbolica e a vedersela riconosciuta, incontra dunque un bisogno diffuso; dall’altra parte, l’editoria maggiore ha rinunciato al ruolo guida e si ripete stancamente, ha del tutto scaricato la poesia come forma privilegiata di conoscenza dell’umano o di esperienza della bellezza
sui giovani che parlano in modo personale: cercano una loro strada, del resto hanno trovato macerie e non si lesinano loro le critiche, quasi fossimo in un mondo ancora a portata di “voce”
Se è vero che il critico dovrebbe mettere in luce dei tasselli appartenenti a qualche logica sottorranea del poeta, a me sembra che chi si dedica alla critica oggi si senta troppo spesso in diritto di utilizzare il concetto di bello e brutto. E questo è ridicolo, oltre ad essere indice di profondissima ignoranza. E’ più facile “distruggere” una poesia con parole gonfie piuttosto che costruire sopra essa un discorso logico che parta dal testo, oggettivamente distante dal “bello e brutto”. La critica è luce sul testo. Oggi a me sembra di vedere tanta inutile nebbia, pentolone di parole in ebollizione.
Per quanto riguarda l’editoria a pagamento, facciamoci una domanda. Perchè esiste? Solo perchè il mercato incontra le necessità della moltitudine di gente che scrive? Il problema è che c’è gente che pagherebbe non 1 volta, ma 2, 3 volte un editore pur di vedere il proprio nome su di una copertina. E ritorna il discorso dell’ego. Pensate che tutti i poeti, o tutti gli scrittori, aderiscano alla legge dell’editoria a pagamento? Beh, c’è chi si rifiuta e cerca altre strade, dalle riviste alla pubblicazione NON a pagamento (ancora esiste ve lo assicuro). Rifiutarsi di pubblicare, come rifiutarsi di pagare per partecipare a questi mediocri concorsi dovrebbe essere il punto di partenza di chi davvero sente la poesia per quello che è nella sua natura.. Ma oggi essa è venduta, come le anime che spesso la abitano.
Di discorsi onesti, lungimiranti e realistici sul poetare oggi, come quello appena scritto da Gianmario Lucini, non ne vedo molti in giro.
Nel suo commento, però, c’è una pecca (ma forse nella saggia schiera degli “astuti come colombe” Lucini sa stare meglio di me…): trova ottima l’iniziativa di Majorino e Rossi, sulla quale istintivamente a me è venuto di fare dell’amaro sarcasmo.
E per due ragioni:
– oggi, a causa della fiacchezza del discorso critico sulla poesia contemporanea, mi pare più arduo (di ieri l’altro; e mi riferisco agli anni Settanta all’incirca…), stabilire quali siano i criteri non esclusivamente o troppo soggettivi per fissare un netto confine tra *veri* e *falsi* poeti (che è poi il succo anche del commento di Gianmario);
– comunque un’iniziativa come quella di Majorino e Rossi, e cioè di poeti e/o poeti-critici apprezzabilissimi ma meglio piazzati accademicamicamente o editorialmente, continua imperterrita a benedire come *veri* la ristrettissima quota dei poeti e poetanti che essi arrivano ad annusare. E coi criteri (soggettivistici e un po’ elitari per lo più) di sempre.
Il problema è invece quello del *resto del mondo *, che non viene annusato o indagato a sufficienza né dai poeti piazzati né da quelli spiazzati. ( Ho cercato di argomentare ancora una volta tutto ciò qui: http://moltinpoesia.wordpress.com/2014/02/28/ennio-abate-appunti-su-quadernario-2014-di-lietocolle/). Ma anche l’elaborazione di altri *più veri* criteri critici.
Altrimenti, come dice Gianmario, siamo condannati – piazzati e spiazzati – « a restare sempre indietro rispetto alle provocazioni dell’arte contemporanea» o a «“celebrare” gli artisti del passato» senza relazione con *questo presente*. Hic Rodus, hic salta. Se no, chiacchiera, chiacchiera.
P.s.
I miei appunti sul Quadernario 2014 erano stati pubblicati anche sul sito della Lietocolle. Mi accorgo adesso che non ci sono più.
Segnalo a chi fosse interessato che Richard Herley, un romanziere inglese noto ma non celebre, e molto, molto bravo, (consiglio a tutti i suoi libri) da qualche anno si pubblica i libri da solo in forma di ebook.
Qui spiega il perchè, con un senso pratico e una chiarezza molto british:
http://richardherley.blogspot.co.uk/2010/02/authorship-in-information-age.html
Il mio era un voler mettere il dito nella piaga, esattamente.
Non mi è simpatico l’atteggiamento di chi è inserito in una casta e per questo si prende il diritto di etichettarsi come vuole. Poeta e critico sono categorie che dovrebbero essere gli altri a metterci addosso, dopo anni di lavoro e di studio. Naturalmente non eri solo tu il bersaglio del mio commento; volevo mettere in risalto un mondo andante banalmente verso un eccessivo relativismo. Ognuno può e deve avere il giudizio di merito che vuole. Quale soluzione può esserci contro l’editoria scadente? ma se ho appena detto che anche l’editoria maggiore è scandente…..non esiste, credo, soluzione. Potreste ben dire che nel catalogo Mondadori esistono veri poeti? forse tre o quattro. Fuori dai tre o quattro a pubblicare sono gli amici degli amici. E qui un altro nodo……chi è che decide chi è un vero poeta? la critica militante o la pubblicità e i media, o gli editor?
ho letto le tue poesie e non mi piacciono. Mi sono preso quindi il diritto di dirtelo come tu ti sei preso il diritto di dirti poeta, ma non è attacco alla tua persona o alla poesia.
Sono poi in perfetta sintonia con Lucini; lasciamo che ognuno si esprima come vuole senza però mettersi sul bel viso etichette forse poco alla loro portata.
(Per fortuna che la portata e l’affidabilità delle critiche possono essere valutate, in primis, osservando lessico e, in questo caso, sintassi del “critico”.)
Fermo restando che un filosofo dell’arte come Nelson Goodman notava che le domande “Che cos’è l’arte?” e “Che cos’è la buona arte?” sono ben distinte, e dunque, anche se la maggior parte delle poesie sono di scarso valore, sono comunque sempre poesie, ritengo, come abbiano già fatto segnalare altri interventi sopra, che, a prescindere da discussioni sulla scientificità della critica letteraria, ogni critico, nelle sue segnalazioni sulle poesie più rilevanti uscite di recente, evidenzi comunque sempre le argomentazioni sulle sue valutazioni (e che magari segnali a volte un bel po’ di esempi di “stroncature”) in modo che anche il lettore possa avere, almeno un minima parte, competenze da critico.
Che poi il mercato abbia leggi che portino a far sì che scarsi successi di critica abbiano ampi successi di pubblico è un altro discorso, ma in fondo bisogna dirlo, un sacco di persone che va a guardarsi “Sole a catinelle” di Zalone lo fa per rilassarsi la mente e non pretende certo di oscurare il valore di “Quarto potere” di Welles ma mi risulta che per le opere letterarie il discorso è già migliore rispetto a cinema e musica, dato che questi ultimi due media sono pubblicizzabili in modo più “immediato” (anche se ho notato con favore la sempre più grande diffusione dei “booktrailer”).
Bisogna comunque ammettere che l’apporto della scuola italiana non aiuta per nulla, a causa della modalità acritica in cui vengono esposte le opere letterarie nell’ora di letteratura, dove non si insegna affatto agli studenti di sviluppare capacità di buon lettore e valutatore di testi letterari, in modo che il riconoscimento dei valori letterari avvenga con modalità “dal basso” e che coinvolgano lo studente come attivo scopritore di questi valori. Al contrario, si utilizza un metodo autoritario, del tipo “noi ti diciamo a priori che queste opere hanno un grande valore per la nostra cultura e storia e per questo tu devi passivamente accettarle e conoscerle” e qui si notano palesi illogicità taciute da fin troppi, del tipo: anche se è dimostrato che la nostra storia è stata molto influenzata da Alfieri o Carducci, questo basta a dimostrare un loro valore letterario (non storico, letterario, sia ben chiaro) ? E poi perché deve esserci un legame tra la “nostra” cultura con il valore di un’opera? Più gli autori vivevano lontano dall’Italia più diminuiscono le opere da loro prodotte di valore? E soprattutto, perché non si può pensare al valore di un’opera come qualcosa che può essere sempre messo in discussione nel corso del tempo? Insomma mi pare siano domande che tutti i lettori debbano porsi.
Nel catalogo Mondadori, Einaudi, Guanda, Pinco e Pallino ci sono ottime penne e penne scadenti. Credo che in tutti i cataloghi sia così, compreso il mio. Certo, anche l’editore fa errori di valutazione, ma c’è modo e modo. Può essere una valutazione sbagliata pubblicare un autore scarso, ma è un crimine contro l’intelligenza chiamare poesie quelle di Bondi (io ne ho letto qualcuna: a mio avviso hanno un’età mentale che oscilla da 9 a 14 anni, per esser larghi). Ma lasciamo stare il B., che è come sparare sulla Croce Rossa. Si può sbagliare e si sbaglia, sed perseverare diabolicum. Il catalogo di una casa editrice deve essere valutato globalmente e guardando anche alle buone pubblicazioni (certo, la citata M. non brilla, grazie anche agli addetti ai lavori, vien da dire).
L’editoria a pagamento è a mio avviso lecita, se non è una truffa. Io ho esposto i miei prezzi su Internet e non dico la pagina per non fare pubblicità. Ma anche le grandi case editrici pubblicano a pagamento (ignoro di alcune, ma di altre so per certo), da qualche anno in qua, non solo i piccoli editori. E c’è anche chi pubblica gratis: io stesso lo faccio quando trovo un bravo poeta che è povero, perché se è povero ma bravo deve essere aiutato. Tanto la stampa di 100 copie iniziali, che poi pagano le successive ristampe, costa in genere più o meno come l’acquisto di 25 copie a prezzo pieno, che vivaddio se uno è bravo le si sbologna con una presentazione o due. Non guadagnerò il tempo che ci metto, ma certo non ci perdo. Ma se dovessi pubblicare soltanto aggatiss, ciau pèp, chiudo domattina.
Dunque, pubblicare non è difficile e neppure pubblicare bene. Se chi pubblica e non vale, paga troppo, non ho certo compassione e non ne farei una questione, neppure etica: è un patto fra un narciso-pollo e un editore-rapace: fatti loro. Punché non vengano a rompere gli zebedei chiedendo la critica, la recensione, l’incenso. Ma va anche detto che se si trova un autore degno, se è possibile, se si ha tempo, se davvero crediamo egli abbia fatto un buon lavoro, allora è bene scrivere anche solo una paginetta, non certo di “lode”, ma segnalando le cose degne che troviamo. Io l’ho fatto per anni, ma ora non ce la faccio più. Il bravo autore deve essere sostenuto: è anche così che trova l’incoraggiamento per scrivere ancora: sono gli altri che ci riconoscono, non tanto il fatto che noi “ci sentiamo” poeti, che è vero, bello e giusto ma alquanto egocentrico se non è convalidato anche dall’esterno.
Comunque va detto che soprattutto i poeti sono dei gran narcisi e questa storia dello scandalizzarsi per il pagamento di un’edizione proprio mi fa ridere. In musica, in pittura, in architettura, nel teatro, o vali o ti cacciano. E per arrivare ad essere un un bravo attore, un bravo pittore o architetti, devi mandarne giù di rospacci. Se vuoi essere un discreto musicista, in grado di vivere come concertista o come compositore, devi aver fatto decenni di lavoro duro e incessante ed aver speso un sacco di soldi in formazione (un pianoforte degno di un concertista costa sui 20-25.000 € e di riffe o di raffe un pianista ne cambia almeno 3 o 4 nel corso della sua carriera): carta e penna non costano un tibo. E se anche paghe 1000 € per pubblicare un libro…
Ogni arte ha i suoi costi, a carico dell’artista: riflettiamoci e rendiamocene conto: la polemica è davvero sterile…
Quasi superfluo ricordare che Dino Campana, dopo il tiro fattogli da Soffici, pagò di tasca sua la pubblicazione dei Canti Orfici. Idem fece Alberto Moravia. Tanto per ricordare due, tra i molti, esempi paradigmatici per poesia e prosa.
C’è sempre molto imbarazzo, irritazione quasi, quando ci si trova di fronte a tanti titoli della piccola, media e invisibile editoria di poesia: qualcuno è arrivato a non considerare l’opera omnia di Giuliano Mesa solo perché il titolo non aveva la registrazione ISBN, che fastidio.
Semmai ci sarebbe da scandalizzarsi quando si sentono certi editor delle Major che recitano in pubblico il peana dei conti da far quadrare: come se una azienda editoriale dal fatturato milionario debba rifarsi con le vendite di quei 5-8 titoli annui di poesia a tiratura ridicola.
Tentare di far bilanciare i conti della poesia è fuori target, e nasconde una certa dose di insana ipocrisia da parte di chi lo propone: in realtà per le Major è diventato quasi un fastidio, piuttosto che un fiore all’occhiello, stampare libri di versi che non hanno un pubblico, o quel grande pubblico educato a suon di best sellers, libri di ricette di cucina, autobiografie di calciatori e di starlette. Un grande editore dovrebbe pubblicare non 6, o 8 o 10 libri di versi per annata, ma almeno il triplo, facendo un grande servizio alla poesia. Forse per questo nelle collane più prestigiose si stampano i versi di narratori, giornalisti, politici, giuristi: hanno già un pubblico ed una certa visibilità. Peccato che la poesia sia altra cosa.
La verità è che la poesia è stata destituita di ogni fondamento di autorità. Come, d’altro canto, la critica. Basta leggere la recente prefazione alle poesie di Cappello, per rendersi conto della considerazione che un grande editore abbia per chi faccia critica (e poesia).
Esiste una tale confusione. Conosco una persona in particolare che scrive ottime poesie, pubblicate in rivista, ma ancora all’età di 41 anni non si è deciso a pubblicare nulla. Lui, vanesio certamente, e forse non poeta fino in fondo, non riesce a decidere quale casa editrice scegliere (molte lo hanno accettato e corteggiato), pensando, e forse sbagliando, che da questo dipenda il suo futuro di poeta. Ho letto ultimamente una sua intervista in un sito letterario, di cui non dirò il nome per non fare pubblicità, dove parlava dell’impossibilità nel riconoscersi in una collana di poesia; in tutte, a suo avviso, sono presenti autori con cui non vorrebbe confondersi. Il suo discorso appare certo di una presunzione tale da rendermelo antipatico immediatamente (ancora più presuntuoso di Castiglione che si scrive poeta per orientare il prossimo), ma alla fine il suo discorso mi convince.
Arriveremo al punto o siamo già qui, che non esisterà più differenza tra poesia e non poesia e allora quale sarebbe l’utilità di scrivere buona poesia se quella poi non verrà riconosciuta (nemmeno dalla critica, che, confusa più che mai, scambia sempre poetese per poesia e l’amico per poeta)? Ma si scrive per se stessi o per gli altri?
Ultima cosa poi credo che il discorso sia esaurito: che ruolo date, in questo contesto, alle riviste di poesia e alle riviste online di poesia? anche in quelle vengono pubblicati tantissimi autori e spesso di non eccellente fattura. Parlo anche di questa rivista o di Nuovi argomenti o di Poetarum, Poesia, ecc. ecc.
Mi direste a vostro avviso (per concludere il discorso) quale il ruolo delle riviste di poesia online e non? Anche quelle pubblicano tantissima poesia e non sempre eccellente. Parlo di Nuovi Argomenti, Poesia, questo sito, poetarum ecc. ecc.
scusate mi si era notificato invio fallito e ho riscritto
C’è molta confusione tra i piani e gli ambiti (Critica e Ufficio stampa, Recensione e mera Informazione giornalistica, autore e sue adiacenze o propaggini: notorietà accertata in un campo non specifico della scrittura in versi (con i dovuti distinguo e per non restare sempre nel vago:De Luca, Calabrò, Bondi); la distinzione tra poesia e non poesia, di stampo crociano e arretrato, mi pare che non abbia più senso. Come non ha senso discettare di bella e brutta poesia: un arbitrio troppo privato e privo di fondamentali. C’è un che di velleitario, oltre che di non provabile, non riscontrabile in una distinzione presunta tra bello e brutto. Semmai andrebbe rilevato se un testo sia congruo e interessante. Se sia pertinente e intelligente.
Visto che è stato nominato più volte Erri De Luca, ditemi voi se non è grande poesia questa:
(…) Non giocare con l’acqua,
non chiuderla, frenarla, è lei che scherza
dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini e vasche di saline.
È alleata col cielo e il sottosuolo,
ha catapulte, macchine d’assedio, ha la pazienza e il tempo:
passerai pure tu, specie di viceré del mondo,
bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte
fino a metterle fretta.
In effetti non sono numerosissimi i casi di grandi prosatori che siano anche grandi poeti. Ma “Opera sull’acqua” è un eccellente libro di poesia, carico di risonanze bibliche, junghiane, eliotiane (la simbologia della “morte per acqua”). L’esito di una Musa parsimoniosa ed essenziale.
Il merito e i demeriti della distinzione crociana tra poesia e non poesia vengono forse “superati” da altre distinzioni (tipo: poesia bella/brutta, congrua/incongrua, interessante/non interessante)? Non mi pare. Anche queste hanno vantaggi e svantaggi, tutti da soppesare. Non si può sfuggire ai due passi fondamentali e obbligati: – distinguere o non distinguere; – e, se accettiamo di distinguere, il criterio deve essere soggettivo o oggettivo; più o meno fondato sull’arbitrario o su qualcosa di sfuggente (com’è la soggettività) o più o meno fondato su qualcosa di “meno sfuggente” ( qualcosa di condiviso da un gruppo, una comunità di studiosi, di critici di “esperti”, autonominatasi tale o che passa per tale)?
Quando mancano – come oggi – autorità “forti” o “abbastanza forti” capaci di distinguere *in modi convincenti* (almeno per una parte di quanti si occupano di poesia), la “molta confusione” può solo persistere. A vantaggio di chi?
Per me, come ho detto, il problema è la rinascita di una buona critica che faccia ordine in questa “molta confusione” (in parte negativa e in parte forse anche positiva, perché ha rivelato il limite di quella precedente). Se rinascesse (se fossimo in grado di farla rinascere…), anche i confusi, invece di intestardirsi a ripetere scampoli di vecchi schemi, avrebbero pane da masticare e cibo per crescere.
Non parla di poesia, ma leggetevi Cesare Cases, *Scegliendo e scartando. Pareri di lettura, a cura di Michele Sisto, Torino, Aragno 2013*; e poi ditemi, se non c’è bisogno oggi di critici capaci di dire, come Cases ai tempi suoi: «è bene che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciar cibo ai suoi piccoli finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido. Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che «omnis determinatio est negatio» e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando. Il rischio di sbagliare c’è sempre, ma è meno grave di quello di perdersi nella melma dell’accettazione universale».
Non credo siano troppi i poeti che scrivono e vengono pubblicati; sempre meno, purtroppo (e lo dico anche ricordando recenti dolorosissime dipartite, quali quelle di Segre e Raimondi), mi sembrano i critici in grado di orientare seriamente – sceverando il grano dal loglio – la lettura di quei poeti (e romanzieri, drammaturghi, etc.) che davvero meritano di essere letti.
* a Matteo* Quel poeta schifiltoso del quale parli era (credo che sia lui) un tempo mio amico. Ed è anche bravo lavora benino. Ha conosciuto mezzo mondo, gli americani, poeti di altre culture… O forse non è lui, perché quello a cui io alludo ha pubblicato, anche parecchio, ma ha il medesimo atteggiamento spocchioso nei riguardi di poeti che non sono “alla sua altezza”. Riveriamo. Ci sono certi bravi poeti che non si associano alle pubblicazioni collettive per paura di mescolarsi agli autori meno bravi, con una sorta di “igienismo intellettuale” che sconfina nell’analità trattenuta (per questo non publbicano :-)). C’è in giro tanto di quel narcisismo e di quella spocchia da rabbrividire (ma questo è il secolo del narcisismo, e non solo in poesia).
Vero è che mamncano i buoni critici, o meglio: che nessuno si preoccupa di indicare i criteri che usa per la sua critica o in qualche modo renderli evidenti. Si sproloquia, Si va buttando il cerino in aria e seguendo la direzione che indica quando è caduto. Ho letto critiche di gente che contraddiceva la critica fatta il giorno prima. Ho letto “critiche” basate sul niente, sulla chiacchiera da salotto, oppure su argomentazioni talmente labili che un ragazzetto delle medie si scandalizzerebbe. Ho letto critiche con concetti intricatissimi, conditi da neo-logismi insensati, per arrivare al succo della banalità o della complicazione degli affari semplici (peggio che in poolitica). E ho letto critici acuti, che giungono al centro delle cose in semplici e chiare parole (il linguaggio della critica deve essere semplici, perché il merito è quello di semplificare i concetti difficili). Hegel (che non amo) ci insegna però che i concetti non sono acqua fresca e che la cultura, l’intelligenza e la competenza di un intellettuale, la si vede da come sa padroneggiare i concetti in maniera da farsi intendere con chiarezza).
E poi ci sono quelli che se la menano sul linguaggio della poesia, come se la poesia fosse il suo linguaggio. Ci sono quelli che si tormantano per la forma come se la forma fosse l’essenziale – ma un bicchiere non mi serve a nulla se non ho l’acqua da metterci dentro. Insomma, io pretenderei da tutti i cosiddetti o sedicenti critici, che argomentassero il loro modo di criticare, da dove partono, da quale epistemologia. Io l’ho fatto e sono pronto a sostenere i miei principi. Altri invece attaccano soltanto ma non si sbottonano mai, non ti dicono da quali fondamenti teorici prendono le loro mosse. Ma è ovvio: mancano i concetti e allora spadroneggiano le opinioni (la doxa, dicevano i greci), le cose buttate là, le sparate che riempiono la bocca, le stroncature mai argomentate, le celebrazioni dei nientini d’oro legati con fil d’argento. E quando mancano concetti, manca una epistème, manca un punto di vista o un orizzonte onestamente dichiarato (sì, perché anche il critico e non soltanto il poeta, deve attenersi alle regole che dichiara: se non vi si attiene è un cialtrone e se non ne ha è semplicemente un millantatore), allora ti arrampichi sulle parole, in critica come in poesia: butti là a caso, come gli americani che dicono sempre che se funziona va bene. Ma le cose di questo genere, per farle funzionare come oggi funzionano, ci vuole un po’ di “giro”, di compagnoni, di cricche, di parrocchiette, di gruppi e sottogruppi il cui compito è quello di volere a tutti i costi prevalere, fare la voce grossa anche se quella voce non esprime parole ma guaiti e latrati. Fare numero più che cultura. Questo è il mondo della critica e della poesia, con le pregevoli eccezioni, di bravi e meno bravi, di conosciuti e sconosciuti (essere conosciuti o anche famosi e riveriti, peraltro, non è infatti sinonimo di competenza: conosco ottimi poeti sconosciuti e pessimi poeti noti e idem per i critici).
Tempo fa sono incappato in un gruppo che voleva “fare critica” sul web. Ho detto “sì, è una buona idea, ma con quali criteri”? Ebbene, non sono riuscito a far capire a costoro che la critica dell’arte ha (dovrebbe avere) criteri epistemologici riconoscibili, perché anch’essa deve poter essere criticata. Non mi capivano. Per loro era importante “dire quello che ti senti di dire”, che certo va bene, ma vuol anche dire poarlare un po’ in vacca, senza una verifica di quello che dici, e con questo atteggiamento parlare dei lavori degli altri e magari pretendere di giudicarli…
Insomma, siamo nel campo della “poetica”, dove sia i critici che i poeti hanno un terreno comune. La poetica è il “come” fai la poesia: se non lo sai, come puoi sentirti poeta o sentirti critico? Il “come” è peraltro terreno di assoluta libertà, è il gioco linguistico che uno inventa e dichiara di voler giocare, la sua regola che si è scelta con libertà. Ma la deve dichiarare, altrimenti come facciamo a criticarlo se è un poeta e come facciamo a dirgli “tu spari cazzate” se è un critico? Si resta insomma nell’ambiguità, perché l’ambiguità fa comodo a chi della poesia se ne frega e la usa per gratificare il suo narcisismo e basta. Così mi pare che vada il mondo dalle parti della poesia…
lol … matteo non lo conosco, gianmario sì … il punto è se queste faccende poetiche abbiano rilevanza pubblica comunitaria (quindi un valore simbolico da perseguire) o siano un atto privato individuale (sostanzialmente ludico da esperire) … per la vita che ho fatto e che sto facendo, prendo la seconda e se deludo pazienza
Eh sì Giuseppe (bentrovato): lecito anche questo: scrivere per il piacere di scrivere (anzi, senza il piacere di scrivere, è meglio lasciar perdere – e per “piacere” non intendo, ovviamente, soiltanto qualcosa come Natale e Ferragosto messi assieme: c’è anche un piacere doloroso, per dire…). E però anche il piacere sadico di far leggere agli amici le scemenze che si scrive, pure con la pretesa di “interrogarli” per vedere se le hanno lette (C’è anche chi lo fa, e non sono pochi) e di “cassarli” dalla propria lista se mostrano tepidità di giudizio (biblicamente: “non sei caldo né freddo e perciò ti caccerò dal mio cospetto… :-))
Ma Giuseppe è onesto: lo dice: scrivo se mi diverto e lo faccio per divertirmi. Scelta lecita e di tutto rispetto, ma almeno è dichiarata, consapevole e, direi, molto seria.
Di Ruscio sosteneva di scrivere perché provava piacere nel farlo e scrivere per dovere è una vaccata senza senso. Si divertiva come un matto a scrivere – molte cose davvero belle, ma anche molto brodo, a mio avviso e non di rado ripetendosi e buttando molta fuffa. Peccato perché era un vero poeta, un bravo poeta (gliel’ho anche scritto e allora si è eclissato, circa una diecina di anni or sono). E’ uno dei pochi contemporanei che ha inventato una sua poetica, originale e convincente, ma era così prolisso e logorroico da scoraggiare (almeno me). Per lui la vita era poesia e viceversa, senza distinzione e il sangue stesso era poesia, il corppo, il gesto, le litigate con la sua Mary, la fabbrica, il suo lavoro di “metallurgico”…
A mio avviso c’è anche un dovere nello scrivere, ma non nel fare poesia (Dio liberi). Il dovere riguarda il ruolo dell’artista e la sfera della deontologia, che nessuno vuole affrontare, come se un ruolo potesse esistere senza principi deontologici. (Di Ruscio ce l’aveva invece una sua ontologia e vi si atteneva con coerenza). Ma forse è perché si rifiuta il ruolo di artista e di conseguenza non ci si sente nel ruolo: si aspetta il riconoscimento esterno, la conferma da una qualche autorità a sua volta già confermata dalle accademie, dal pubblico, dalla pubblicità, dalle campagne di acculturamento. In pratica: non ti senti artista, perciò non sei nel ruolo, perciò non hai probolemi deontologici e giochicchi con l’arte, aspetti l’investitura, l’alloro e tutto il suo condimento di chiacchiere. Di Ruscio aveva palle e si sentiva poeta anche quando nessuno lo filava, a parte pochissimi critici (e se ne lamentava con me con parole amarissime: peccato che con questa amabile e utilissima porcata della tecnologia ci illuda di poter conservare tutto, mentre invece si perdono i pezzi, le discussioni, le lettere, i momenti di confronto e di crescita, pian piano: basta un disco fisso che ti dà l’addio e tutto si dissolve in nabili ricordi). La cultura è tutto ciò che si dimentica, diceva Sartre e un po’ aveva anche ragione. Vabbé, il backup, è vero, ma per fare il backup bisogna – appunto – sentirsi poeti. Ecco dove casca l’asino. Io mi sento poeta ma non fino mal backup… :-))
Be’ la deontologia è finalizzata al testo: letti la Bibbia, Shakespeare, Dante, Cervantes, Tolstoi, i poeti inglesi, i mitteleuropei, i russi, qualche americano, qualche cinese, scrivi solo se puoi aggiungere qualcosa, se no stai zitto. Purtroppo ho scritto una quarantina di poesie. Che fo, mi ammazzo? Ciao e buone cose a te. Giuseppe
Aggiungere? Non credo sia possibile… La letteratura è quella cosa che esiste, orale o scritta, da sempre e che possiamo soltanto ridire in altro modo, scoprendo un altro “senso” che era sinora nascosto, per il semplice fatto che la letteratura è l’uomo stesso e l’uomo è sempre quello e se ci sono cambiamenti (parlo della natura profonda dell’essere umano e non dei “cambiamenti antropologici” cosiddetti, che avvengono piuttosto di frequente) se qualcosa cambia, dicevo, capita ogni 2 o 3.ooo anni, forse… ma non ne sono sicuro. Il vero “salto”, nell’arte, è il passaggio da primate a Homo e un sottopassaggio è da animal symbolicum a “sapiens” – l’arte viene prima ancora dell’homo sapiens, e strutturalmente è sempre quella.
La “deontologia” di cui parlo, non ha a che fare con la letteratura, ma piuttosto con il ruolo sociale del letterato o dell’intellettuale, ossia il modo di rapportarsi con gli altri in quello specifico ruolo (così come il medico, il professionista, il ladro, il militare, il prete o il killer, hanno una loro “deontologia”, che è un insieme di regole non scritte ma tipiche del ruolo, sanzionabili non tanto dalla legge ma dal feed-back nei rapporti sociali – ovviamente quando c’è, quando almeno si ignora i “devianti” invece di stare al loro gioco).
Ecco, stranamente i poeti non ce l’hanno. Vendersi, ad esempio, dovrebbe essere un punto di vergogna per ogni artista (ma oggi dire “vergogna” è piuttosto una ingenuità che sa di dolorismo e di passatismo): molti poeti tranquillamente si vendono e sgomitano per vendersi, senza ritegno magari se ne vantano e nessuno dice niente – ma è ovvio, perché in mancanza di deontologia il “valore” di riferimento non può che essere il valore sommo della nostra civiltà: il danaro, anche se fa ridere parlare di danaro in abbinamento con la poesia, ma vale anche un certo potere del narciso, un certo riconoscimento che comunque procura incarichi, premi, giurie, conferenze, curatele ben remunerate, testimonial, ecc. ecc. e si sa: da cosa nasce cosa…). Non parliamo poi di altri intellettuali (ma tirare in ballo l’intelletto, qui, ha il sapore dell’azzardo) come certi giornalisti, certi saggisti, certi sociologi, certi psicologi, certi medici, ecc. ecc.
Di questo intendo dire. Scrivere 40 poesie, in sé non è contro la deontologia e non è un gran peccato… :-))
“letti la Bibbia, Shakespeare, Dante, Cervantes, Tolstoi, i poeti inglesi, i mitteleuropei, i russi, qualche americano, qualche cinese, scrivi solo se puoi aggiungere qualcosa, se no stai zitto.” (Il fu GiusCo)
A parte che nessuno sta zitto, neppure di quelli che lo consigliano (agli altri), mi pare tremenda questa visione dei Grandi scrittori che, invece di essere visti come quelli che aprono nuovi continenti (anche di scrittura) agli altri, vengono presentati come Cerberi che impongono il silenzio. Ah, Bloom, come ci hai rotto…
@Gianmario: se fornisci servizi a gente che ti annoia, faglieli pagare, non è un tuo problema. Ripeto, il mestiere è un mestiere e l’impresa ha un bilancio, non vergognarti di fatturare.
@Abate: suvvia, non sta mica parlando ad un cattedratico che travia i minori. Avrò anche il diritto di farmela come meglio credo, no? La guerra, se mai ce n’è stata una, è finita da tempo.
Lascio il testimone al coetaneo ludico-snobbino invitato da matteo, se avrà voglia. Passo e chiudo. Saluti.
Beh, se uno mi annoia lo mollo appena posso e quanto al fatturare… lo impone la legge di farle. Compilerei con piacere almeno 10 blocchetti di fatture Buffetti e risolverei così i miei problemi, senza enfasi, ma non arrivo a quattro… No problem, non è comunque un problema, ma piuttosto lo è quello di pagare le fatture…
:-))
e un bilancio di oltre 10.000 di spese fisse già preventivate ad inizio anno, prima di guadagnare un miserabile euro). Ma questo, sì che annoia e neppure fa argomento quando si parla di editoria ladra per partito preso e generalizzando, come spesso sento e leggo. Chiudo anch’io. Ciao a tutti.
.., in ogni caso, chiedo ai gestori di questa lista di lanciare un post soltanto sulla “editoria ladra”: ne avrei delle belle da raccontare… :-))
Bravo Lucini, chiarezza e sincerità esemplari. Si vede che la poesia a qualcosa serve ancora: intanto migliora i poeti, per i resto si vedrà.
L’eccedenza spropositata, l’iperproduzione sono fenomeni che non coinvolgono solo la poesia ma qualsiasi altro spazio dell’opera umana nella contemporaneità. “La musica è stanca, non ce la fa più” scriveva Franco Battiato una trentina di anni fa. “La parola è stanca, non ce la fa più” rimanderei io. Il punto focale è il problema dell’equilibrio tra libertà e norma, tra liberazione e misura, problema che la civiltà contemporanea ha rimosso sbilanciandosi in favore di un’ esondazione anarcoide, in una stagione nella quale “è vietato vietare” e tutto è permesso. Un privilegio della licenza e non della libertà che, attenendoci al campo artistico, conduce a una prevalenza dell’indistinto con una conseguente svalutazione del vero capolavoro, ammesso che lo si possa ancora notare fra tanto guazzabuglio. L’iperattivismo poetico, le parole inutili non si possono vietare a nessuno così come non è possibile impedire a chicchessia di imbrattare tele, ma nel cuore di una mia privata utopia mi immaginerei una qualche forma di sana censura, un collegio di saggi che almeno impedisca pubblicazioni offensive o ne limiti la visibilità. Ma è un’utopia un po’ ingenua e crudele, anche perché in tempi piuttosto grigi per la poesia non sta molto meglio la critica. E anch’essa, dunque, andrebbe assoggettata a qualche libera forma di controllo. E allora non resta che lasciare al singolo il compito eroico e certosino di rovistare tra le cianfrusaglie alla ricerca di qualche piccolo tesoro.
La cosa è fattibilissima e intelligente. Il problema è che per analizzare (anche solo con un’occhiata, anche solo leggendo attentamente un paio di poesie a caso in una raccolta) tutte le raccolte che vengono pubblicate ogni giorno in un anno, e della sola poesia italiana, non basterebbero 50 critici a pienotempo. Chi li paga? :-)) E chi sceglie i critici? :-)) E con quali criteri? :-))
Immaginiamo però di analizzare soltanto un migliaio di raccolte e non le 30.000 più o meno di ogni anno: la cosa è già più abbordabile. Mille che sanno scrivere ci sono, magari anche 2000, e a mio avviso non sarebbero tantissimi, una piccola, ragionevole % se rapportata a 60.000.000. Certo, non tutti sono il “grande poeta ma, anche qui: sfatiamo i miti… I bravi e degni poeti non sono soltanto quelli che appaiono nelle antologie o nei testi scolastici! Il poeta che valica il secolo e diventa memoria, è il frutto di una koiné letteraria: da solo non potrebbe farsi, perché nessuno si fa da solo.
Certo, oggi sono troppi, esiste un problema di “selezione”, per dire, ma non lo vedo così disperante.
La proposta di Stefano a mio avviso è concreta, logica e realizzabilissima e ci ho pensato e avrei anche un semplicisismo piano di attuazione (regolarmente proposto e fallito come altre mie proposte che cercavano un coinvolgimento largo e democratico). Ma in queste cose ci si aspetta che sia il solito somaro a tirare la carretta e magari affondarlo poi al primo errore che compie.
Servono i famosi 50 lettori o critici (ma non editori) che valutano chi vuol farsi valutare “prima” di andare in stampa e ricevere un attestato di lettura di almeno 5 lettori o critici con una nota di lettura da inserire in appendice. Chi potrebbe vantare questo “marchio”, che potrebbe essere anche un “logo” da mettere in copertina, verrebbe avvantaggiato dall’attenzione dei lettori…
Ma li troviamo 50 che, a turno, fanno questa cosa? Significa leggersi 20 raccolte ANONIME all’anno, valutarle e darne un sintetico parere. Io lo farei, ma non posso farlo gestendo i processi in prima persona, perché sono editore e quindi parte in causa e incompatibile, pur indirettamente. Ma QUANTI LO FAREBBERO GRATIS? Certo, magari poi viene loro regalato il libro, ma sostanzialmente è un impegno molto oneroso. Anche qui: chi compenserebbe i critici: il “solito” editore? O aumentiamo i costi di stampa e quindi il prezzo di copertina e paghano i lettori? O aumentiamo il “contributo” richiesto ai poeti? Il parroco di Piateda mi ha detto che, con tutto il rispetto e la considerazione, lui non li paga… e neppure il compagno Bottai.
Le cose si possono fare, ma fra il dire e il fare… c’è di mezzo tutti i discorsi inconcludenti di anni. Così come, per abbassare i prezzi, pubblicare opere migliori e sopravvivere meglio, sarebbe sufficiente che 50 piccoli e insignificanti editori – ma seri – si mettessero insieme per fare massa critica e iniziative comuni, acquistando visibilità, mercato, ottenendo la fiducia degli autori e dei lettori, risparmiando una barca di soldi per le iniziative di commercializzazione e per i servizi, divenendo visibili anche come soggetto contrattuale (verso le istituzioni, la distribuzione, le tipografie, i Mass-media…)
Ma in Italia ognuno va per i cazzi suoi nella medesima direzione: in vacca.
Doemnticavo: buon 1° maggio a tutti coloro che lavorano e a quelli che vorrebbero lavorare…
Caro Lucini (mi permetto il tu),
sono a tua disposizione per iniziare il lavoro gratuito di lettore.
a presto
Matteo
OK, su
gianmario[at]poiein.it
General Facts Around this product
L’ultimo commento e’ spam, tuttavia il necroposting cade a fagiolo. A distanza di tre anni, il collasso e’ totale: la poesia in lingua italiana e’ ormai un fatto pubblico solo per le dieci-quindici persone che ancora ne ricavano un qualche riscontro, cioe’ anziani maestri ed operatori settoriali molto attivi sul territorio. Per tutti gli altri, e’ infine divenuta un fatto privato. Molti meno ego latranti a far la morale e l’abbandono di questa forma espressiva come volano di pulsioni emozionali, etiche o comunitarie. Purtroppo e’ mancato anche Lucini, operatore isolato ma volenteroso e privo di ogni senso di entitlement.