cropped-1988_6_IN21.jpgdi Niccolò Scaffai

L’origine e l’essenza del moderno pensiero ecologico risiedono in uno straniamento. Solo quando mettiamo in discussione il punto di vista antropocentrico e percepiamo la relatività della nostra posizione rispetto all’ambiente e agli altri esseri che vi abitano, possiamo davvero capire i luoghi nella loro alterità, vederli al di là delle proiezioni utilitaristiche e ingenuamente localistiche dietro i quali li nascondiamo. Ed è proprio in questo senso, per la capacità cioè di esprimere una comprensione profonda dei luoghi attraverso un doppio movimento di partenza e ritorno, che gli scritti di Andrea Zanzotto sul paesaggio possono dirsi ‘ecologici’. Lo spiega in modo efficace Matteo Giancotti nella bella e intelligente introduzione alla raccolta di quegli scritti, da poco uscita per sua cura: Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Milano, Bompiani, pp. 240, euro 11,00. Zanzotto – osserva il curatore – suggerisce «che per capire i luoghi non abbiamo bisogno di radicarci, ma di eradicarci da essi, addentrandoci così profondamente in loro da riuscire a “bucarli” per arrivare altrove, rivedendoli nuovi, forse soltanto allora “nostri”».

Il rinnovamento dello sguardo sul paesaggio è un tema che attraversa i diciotto scritti ora riuniti: un insieme consistente, di cui la maggior parte dei lettori conosceva solo un paio di esempi (le prose Venezia, forse e Colli Euganei, apparsi a suo tempo nel «Meridiano» Mondadori), qui ricompresi nella seconda parte del volume, Mio ambiente natale. Un titolo, come quelli delle altre quattro sezioni (Una certa idea di paesaggio, Un’evidenza fantascientifica, Quasi una parte integrante del paesaggio e Tra viaggio e fantasia), ricavato dalle frasi dell’autore, ma scelto da Giancotti, cui si devono l’ideazione e l’organizzazione non cronologica della raccolta.

Raccolta peraltro molto coesa, nonostante la distanza degli estremi temporali (lo scritto più antico risale alla metà degli anni Cinquanta, i più recenti agli anni Duemila), e percorsa da ricorrenze tematiche e letterali; in qualche caso, infatti, Zanzotto ha trasferito brani di testo da uno scritto all’altro: ripetizioni che il curatore ha scelto giustamente di mantenere, non solo per salvaguardare l’integrità dei saggi d’autore, ma anche per mettere in risalto la costanza della riflessione che li sostiene.

Proprio quella costanza, unita all’estensione dell’arco cronologico, permette di cogliere le sfumature e lo sviluppo cui Zanzotto sottopone nel tempo la propria idea di paesaggio. In uno scritto del 1967 (Ragioni di una fedeltà), ad esempio, il poeta riflette sul «collocarsi» dell’uomo rispetto al paesaggio in cui s’insedia: «Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risaltare». È un punto di vista che Zanzotto stesso, con una parola e un concetto usati qui (Il paesaggio come eros della terra, 2006) e nelle IX Egloghe, definisce ‘biologale’: il paesaggio, la natura contribuiscono a formare le creature che l’abitano, ricevendone in cambio un arricchimento spirituale che va oltre il piano biologico. Quest’idea ancora armoniosa e quasi teleologica del rapporto tra uomo e natura, caratterizzato da un «giusto antropocentrismo» capace di far emergere «l’espressività della figura di un territorio», era già presente anche in un testo di pochi anni prima (1962), Architettura e urbanistica informali, nel quale s’intuisce ancora meglio l’origine culturale (letteraria e più ancora pittorica) dell’utopia di Zanzotto. Ma è un’utopia destinata a erodersi nei decenni successivi, frustrata dall’‘ingiustizia’ dell’antropocentrismo contemporaneo. Se i movimenti nello spazio sono anche «spostamenti nella storia» (La memoria nella lingua), Zanzotto non può fare a meno di rilevare come proprio la storia, nel secondo Novecento, si sia mossa travolgendo la geografia ‘umanistica’ del territorio italiano. «C’è stato un tempo – scrive Zanzotto nel 2006, in Sarà (stata) natura?, una sorta di palinodia al sé stesso di quarant’anni prima – in cui ho creduto che la cultura nascesse e si sviluppasse come manifestazione spontanea di un dialogo in atto tra l’uomo e la natura, quasi di un rapporto di mutua e amorosa comprensione tra una madre e il proprio feto […]. A conti fatti, posso dire di essermi parzialmente illuso. Non si è trattato di due realtà in accrescimento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un vero e proprio “dialogo” […], ma di una monologante e allucinata sequela di insulti.»

Questa constatazione storica non si risolve nella semplice idiosincrasia per il presente; è piuttosto la premessa a un auspicio: che la poesia possa «costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”, mantenendo vivo il ricordo di un “tempo” proiettato verso il “futuro semplice” […] della speranza». La riflessione di Zanzotto sulla natura è paragonabile, per costanza e intensità, a quella di Leopardi (e come quella appare ed è per certi versi antimoderna). Ma direi che il poeta novecentesco inverte i termini del confronto: se la promessa di resistenza è per entrambi basata sul valore e la dignità dell’uomo, il fine di Zanzotto è una difesa della natura, non dalla natura come per l’ultimo Leopardi. E se Leopardi ha sempre immaginato la natura come polo, di segno variabile, all’interno di un’opposizione, Zanzotto tende a una conciliazione tra gli elementi del binomio.

A connotare però gli scritti di Zanzotto sono soprattutto due aspetti. Da un lato il legame stretto con l’esperienza di uno specifico paesaggio, quello veneto e prealpino che fa da sfondo anche a molte sue poesie (qui per esempio, in Verso il montuoso nord, si trovano le coordinate geografiche della situazione evocata in Vocativo dai versi di I compagni corsi avanti). Dall’altro, la mediazione attraverso la storia, la letteratura e, come dicevo, l’arte e la pittura.

Tra gli scritti in cui la relazione tra natura e arte è più sostanziale vi è certamente Un paese nella visione di Cima, pubblicato nel ’62 in occasione di una mostra trevigiana su Cima da Conegliano e strettamente legato – come osserva Giancotti – alla quinta delle IX Egloghe. Nei dipinti di Cima, Zanzotto non cerca una via di fuga estetico-contemplativa, ma al contrario una conferma del proprio impegno verso la natura e soprattutto un rispecchiamento o applicazione di quell’idea biologale che informa la relazione reciproca, il dialogo (all’epoca) ancora possibile tra l’uomo e il suo paesaggio: «Nella vigna sovrabbondante dei colori-natura l’uomo si colloca vendemmiatore, dio, centro di “attività” anche quando è composto nell’armonica quiete che supera la tensione degl’incontri […]: ma pur restando signore e punto di equilibrio, eccolo signoreggiato dal suo stesso regno, riequilibrato veramente per esso e in esso, in uno scambio senza fine di comunicazioni e di allusioni».

Se l’arte vale a mantenere vivo il ricordo di un tempo proiettato verso il futuro, la pittura di Cima può divenire anche l’emblema di un’utopia necessaria: il buon governo che potrà interrompere – scriveva Zanzotto nel suo In margine a un vecchio articolo (2005) – la «marcia di autodistruzione del nostro favoloso mondo veneto ricco di arte e di memorie» (un Veneto che è quasi un’allegoria dell’Occidente intero, in questo caso), giunta, «con le sue iniziative imprenditoriali, ad alterare la consistenza stessa della terra che ci sta sotto i piedi.»

[Immagine: Gerhard Richter, Paesaggio (1988) (gm)].

 

6 thoughts on “Zanzotto dietro il paesaggio

  1. Grazie per questo contributo e grazie a Giancotti della bella curatela del volume. Mi auguro che questo post sia interessante per i lettori di LPLC. A.

  2. Vorrei ringraziare il prof. Niccolò Scaffai per la sua recensione, e lplc per la pubblicazione; “Luoghi e paesaggi” è una raccolta su cui vale la pena attirare l’attenzione, e la discussione.

    Particolarmente interessante è, secondo me, l’impostazione teorica che Giancotti dà alle prose zanzottiane sul paesaggio, sia attraverso l’introduzione (come ricorda Scaffai) sia proprio grazie all’ordine non cronologico della raccolta.

    L’effetto è quello di restituire ai lettori l’Andrea militante degli scritti d’occasione che già conoscevano i suoi compaesani e corregionali. Gran parte dei brani considerati era infatti apparso in quotidiani locali, o, nel caso di “Ragioni di una fedeltà”, nel catalogo per una mostra estremamente radicata nel territorio, “Abitare in campagna. Il Feltrin”o (Padova 1967) di spiccato impegno ambientale ed estetico. Soffermiamoci un attimo su questo testo.
    Intanto per sottolineare la congiunzione di questi due termini, ambientale, ed estetico, che Zanzotto riunisce in quello, a lui molto caro, di “paesaggio”. Originariamente, l’intervento di Zanzotto era seguito da un articolo – il più lungo del catalogo – di Orioli, “Note per un approccio scientifico al problema dell’architettura rurale feltrina”, in cui il focus è sul recupero delle tipologie abitative di Feltre e dintorni. Le abitazioni “meritano” questa cura perché esprimono sia funzionalmente sia esteticamente il territorio su cui nascono. Sono esposte al sole, e protette dal vento, e a giusta distanza da boshi e pascoli; si sviluppano per moduli orizzontali come gli anelli di un lombrico, non sforzano verso l’alto il senso delle colline ma ne seguono, a mezza costa, il digradare.

    Non c’è opposizione tra naturale e antropico, quanto piuttosto il riconoscimento di una realtà “biologale” (come sottolinea Scaffai): l’uomo, abitando nella natura, è colui che le dà senso, è il«dio indigete» dello speranzoso “Architettura e urbanistica informali” (in “La provincia di Treviso”, 3, 1962), testo su cui “Ragioni di una fedeltà” è modellato. Notare che questa espressione è però nel frattempo scomparsa; l’audacia della definizione non è bastata a restituire il territorio alla tutela dell’uomo dall’uomo.

    Per concludere: Giancotti ha il merito di recuperare e riunire scritti altrimenti poco noti, ma soprattutto quello di inserire il poeta nel vivo dell’attuale dibattito sullo statuto del paesaggio e sul nostro esserne (più o meno consapevolmente) parte, tramite la divisione della raccolta in due “luoghi”, se mi si perdona il bisticcio, uno teorico (“Una certa idea di paesaggio”) e l’altro pratico-applicativo (“Mio ambiente natale”).

  3. Nella sua bella introduzione, Giancotti parla di “giacimenti” a proposito di queste prose di Z. sul paesaggio, distribuite dal curatore in 5 sezioni tematiche e non cronologiche. Si tratta di “prose di luogo” o forse meglio di “fantasie di avvicinamento al paesaggio” , dedicate a un raggio spaziale che va dalle Dolomiti ai Colli alle Lagune, con una freccia divergente su Vienna.
    Si sa che Z. è per eccellenza il “poeta del paesaggio”. “Qui però abbiamo davanti Z. prosatore e dunque dobbiamo raffrontare queste prose alle prose critiche delle “Fantasie di avvicinamento”, alle prose memorial-narrative di “Sull’Altopiano”. Z. in prosa non è ancillare o parassita di Z. in versi: Villalta nel Meridiano del ’79 ha messo in luce la circolarità di materiali tematici dalla prosa ai versi. Anche le prose sui luoghi, come le prose critiche su Leopardi, Ungaretti o Pasolini sono “prospezioni”, nel senso di indagini “telluriche” compiute per approcci e approssimazioni soggettive (e ulceranti) al proprio oggetto.
    Se nelle prose sul paesaggio, Z. mantiene la proprisa fedeltà al proprio “esile mito”, ai suoi luoghi dell’anima, come nota il curatore, li rappresenta con modalità più positive che nei versi: qui il pieno supera il vuoto, vi sono più appigli che baratri.

    A dimostrazione dell’impossibilità di una mappa oggettiva del paesaggio e delle sue mutazioni, e viceversa della necessità di una lingua amorosa, che corporalmente avvolga e compenetri il paesaggio (paesaggio che in Z. non è mai davvero “fuori”) vanno considerati soprattutto i due testi “Venezia, forse” e “Lagune”: l’approccio di Z. a Venezia è tale da demistificarle l’immagine-cartolina, da nonluogo turistico. Venezia è abbagliante, pericolosamente imprendibile, cinematografica prima del cinema per la sua immagine acquea, ingannevole, onirica. Come Carlino nelle “Confessioni” di Nievo ( o come il suo maestro Diego Valeri) Z. arriva a Venezia dalla laguna, su un’isolotto galleggiante, fondendosi con alghe e giunchi e canne. Si sofferma sui milioni di pali sepolti nel fango e si identifica con l’uccello marino che porta un giunco nel becco. Solo in tal modo, il suo incontro di Natura e Civiltà diviene una modalità della gioia. Nonostante la derealizzazione turistica e la mutazione ecologica, le conclusioni di Z. sono utopiche : “Vivono le grandi barene: la vicenda umana non è terminata” , in cui sembra di sentire l’eco del “Sogno di un prigioniero” di Montale (il sogno di te non è finito).

    Insomma: lo stile di pensiero che accomuna queste prose è la “riaffermazione delle ragioni della speranza”. Viene in mente una nota scritta da Z. per i suoi 85 anni per “L’immaginazione” con questo titolo, che dichiarava come dopo i campi di sterminio fosse subentrato lo sterminio dei campi e che considerava la poesia come “una piccola fata” che si sposta dalle vite private al “megatempo” e capace di avvicinarsi alla natura e di “avvertirne gli allarmi”. Qui Z., oltre all’allarme per la devastazione, avverte tuttavia la speranza, paradossale, per un’armonia possibile (di specie pittorica, come in Cima da Conegliano) con il paesaggio. Come scrive Scaffai: un auspicio: che la poesia possa «costituire il “luogo” di un insediamento autenticamente “umano”,

  4. Ciò che sta all’origine della problematica e quasi disperata ricerca sulla tradizione e sulle convenzioni della poesia, che Andrea Zanzotto ha perseguito paradossalmente all’insegna di un ultrasperimentalismo tanto sofisticato quanto avventuristico, è la negazione della possibilità di una linea neorealistica incentrata sulla “riforma intellettuale e morale” delle coscienze. In questo senso, è giusto inserire Zanzotto, come ha suggerito Alfonso Berardinelli, nel solco della poesia di radice virgiliano-petrarchesca e di ascendenza arcadica, laddove questa specifica ispirazione, rintracciabile anche in altri poeti italiani (si pensi a Caproni, a Bertolucci o a Pasolini) e tale da conferire alla sua opera un carattere marcatamente anti-moderno e nel contempo nichilistico, concerne la sua poetica e in particolare il suo modo di guardare al paesaggio. Non vi è dubbio che alla base di questa singolare attitudine, distopica nella forma e utopistica nel contenuto (che si configura, per contrasto, come l’esatto contrario dell’attitudine di un Fortini), vi sia l’esperienza dell’ultima guerra mondiale e l’orrore del nazifascismo, sfociati in quella degradazione della soglia di ciò che è umano (“dai campi di sterminio allo sterminio dei campi”, per usare la formula del poeta di Pieve di Soligo), a cui il neocapitalismo ha posto il suo conclusivo sigillo. Da qui nasce la ricerca spasmodica e nevrotica di un ‘buen retiro’, di un luogo incontaminato al riparo dalla incombente e dilagante barbarie storica, che, questa volta all’insegna della regressione allo stadio intrauterino della “matria”, fa del paesaggio l’omologo della parallela ricerca sulla tradizione e sulle convenzioni della poesia. Sennonché il centro focale di siffatto ‘itinerarium mentis et corporis in Deam’ è il rapporto paradigmatico tra il concetto di tradizione e il concetto di luogo. Ecco dunque che “the classic is the local fully realized: words marked by a place”, secondo la formulazione resa canonica da William Carlos Williams (tradotto, non a caso, da quell’altro arcade ‘refoulé’ della poesia novecentesca italiana che risponde al nome di Vittorio Sereni). Così Zanzotto e Bertolucci, allestendo il loro dittico proustiano ‘alla ricerca dei luoghi perduti’, si sono illusi, a differenza del capitalismo “che cancella lo spazio attraverso il tempo” (Marx), di cancellare il tempo attraverso lo spazio, e però hanno consumato sino in fondo, novelli Epimenidi in versione italica, l’idillio come auto-inganno, pagando il prezzo della riduzione della poetica (se non della stessa poesia) a sintomo: quando hanno detto la verità hanno mentito e quando hanno mentito hanno detto la verità.

  5. Vorrei ringraziare Niccolò Scaffai per la sua recensione, e lplc ovviamente per la pubblicazione; “Luoghi e paesaggi” è una raccolta su cui vale la pena attirare l’attenzione, e la discussione.
    Particolarmente interessante è, secondo me, l’impostazione teorica che Giancotti dà alle prose zanzottiane sul paesaggio, sia attraverso l’introduzione (come ricorda Scaffai) sia proprio grazie all’ordine non cronologico della raccolta.
    L’effetto è quello di restituire ai lettori l’Andrea militante degli scritti d’occasione che già conoscevano i suoi compaesani e corregionali. Gran parte dei brani considerati era infatti apparso in quotidiani locali, rielaborazione da presentazioni orali, o, nel caso di “Ragioni di una fedeltà”, nel catalogo “Abitare in campagna. Il Feltrin”o (Padova 1967) di spiccato impegno ambientale ed estetico.
    Vorrei sottolineare la congiunzione di questi due termini, ambientale, ed estetico, che Zanzotto riunisce in quello, a lui molto caro, di “paesaggio”. Originariamente, l’intervento di Zanzotto era immediatamente seguito da un articolo – il più lungo del catalogo – di Orioli, “Note per un approccio scientifico al problema dell’architettura rurale feltrina”, in cui il focus è sul recupero delle tipologie abitative di Feltre e dintorni, che meritano questo recupero perché esprimono sia funzionalmente sia esteticamente il territorio su cui nascono. Sono esposte al sole, e protette dal vento, e a giusta distanza da boshi e pascoli; si sviluppano per moduli orizzontali come gli anelli di un lombrico, non sforzano verso l’alto il senso delle colline ma ne seguono, a mezza costa, il digradare.
    Non c’è opposizione tra naturale e antropico, quanto piuttosto il riconoscimento di una realtà “biologale” (come sottoliena Scaffai): l’uomo, abitando nella natura, è colui che le dà senso, è il«dio indigete» dello speranzoso “Architettura e urbanistica informali” (“La provincia di Treviso”, 3, 1962), testo su cui “Ragioni di una fedeltà” è modellato. Notare che questa espressione è però nel frattempo scomparsa.
    La taglio corta: Giancotti ha il merito di recuperare e riunire scritti altrimenti accessibili solo alla cerchia degli specialisti, ma soprattutto di inserire il poeta nel vivo dell’attuale dibattito sullo statuto del paesaggio e sul nostro esserne (più o meno consapevolmente) parte; e questo tramite la divisione della raccolta in due “luoghi”, se mi si perdona il bisticcio, uno teorico (“Una certa idea di paesaggio”) e l’altro pratico-applicativo (“Mio ambiente natale”).

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