di Rino Genovese
[Questo articolo è già apparso, con alcuni tagli redazionali, sul “manifesto”]
Non è di poco momento il compito cui, in maniera forse non del tutto consapevole, si dedica un gruppo di scalmanati sociologi, sotto lo pseudonimo di Douglas Mortimer (l’indimenticabile personaggio di Per qualche dollaro in più di Sergio Leone interpretato da Lee Van Cleef). Nel rapporto che stabilisce tra lotte sociali e produzione dell’immaginario, lo si potrebbe dire, senza troppo esagerare, la resurrezione del materialismo storico applicato alla vicenda dell’industria culturale italiana negli anni fatidici che vanno dal 1960 al 1980. La tesi del libro (Quando tutto era possibile. 1960-1980: come l’Italia esporta cultura, manifestolibri, 2013) è semplice e risoluta: se l’Italia ha potuto avere un cinema di esportazione, un’architettura e un design di rilevanza internazionale, finanche un teatro o una letteratura non banali, ciò è dovuto all’intenso conflitto sociale circolante allora nel paese. Spentosi quel conflitto, si è passati dalle invenzioni violente e tipicamente nostrane degli “spaghetti western”, dei “poliziotteschi”, degli horror alla Bava e perfino dei “mondo movies” alla Jacopetti, alla melassa dei serial televisivi e a una produzione stucchevolmente “d’autore” che – se si lascia da parte l’aspetto di una estetizzazione diffusa e continuamente incrementata – non restituiscono nulla della vita sociale del paese se non la sua morta gora.
Bisogna anzitutto riconoscere, in accordo con Mortimer, che il conflitto sociale accende la fantasia un po’ di tutti, e che questo può effettivamente riverberarsi sulla produzione culturale di massa; tuttavia, mi sembra, non nel modo lineare descritto dai sociologi che hanno dato vita al libro. Se per esempio il poliziottesco (si pensi ai film di Fernando Di Leo, oggi esaltati e all’epoca considerati dalla critica soltanto dei sottoprodotti del genere poliziesco) venne fuori proprio in Italia, in un periodo di lotte operaie e studentesche, ciò può essere imputato alla volontà di diffondere un senso comune contrario a quelle lotte suscitando le paure di un pubblico disorientato. Anche la “strategia della tensione”, con tutta la sua violenza reale e per nulla metaforica, può essere vista come un effetto indiretto di quella stagione: ma appunto indiretto, adatto a creare un riflesso d’ordine nell’opinione pubblica. Invece il libro assume quasi come suo presupposto che le diverse forme di violenza siano tra loro affini: come se ammazzare a sangue freddo qualcuno in un conflitto senza capo né coda o, poniamo, in una rapina – quella che in un film sarebbe la rappresentazione di un’anomia sociale irredimibile – sia sullo stesso piano, a parte il diverso grado d’intensità, di una violenza interna a una lotta operaia che si esprime nell’organizzare un picchetto ai cancelli di una fabbrica o un corteo nei suoi stabilimenti. Del resto una forma di violenza estetizzata ha nutrito anche il vissuto delle azioni brigatiste (mi pare che sia stato Valerio Morucci, in un libro di memorie, a dichiarare la propria immedesimazione in certi personaggi di vendicatori con la pistola). Ma è molto più probabile che quello sia stato un effetto del riflusso anziché un’espressione del conflitto sociale aperto, di massa. Se un rapporto tra mobilitazione dell’immaginario e forme di conflitto radicale nella società può essere trovato, questo non è a senso unico ma sempre rovesciabile. E ciò anche a causa della costitutiva ambivalenza della ricaduta emotiva di qualsiasi conflittualità, che può aprire alla speranza così come alimentare la paura.
Una seconda questione, più o meno direttamente proposta dal libro, riguarda dall’interno la vicenda dell’industria culturale. È poi vero che soltanto un certo cinema di genere, o una letteratura che per comodità si può etichettare come postmoderna (anche anticipando, proprio nel contesto italiano, la sua data di nascita), siano stati in grado di varcare i confini del paese? Il successo internazionale dell’Italia in campo cinematografico è in realtà precedente all’irruzione di quei nuovi generi che emergono tra i sessanta e i settanta. Risale al neorealismo e alle sue propaggini. Tra i quaranta e i cinquanta l’Italia ha praticamente inventato il cinema d’autore. Intendiamoci: gli autori nel cinema ci sono sempre stati, ma erano autori che partivano dai generi. Nelle produzioni degli studios hollywoodiani, che spesso si avvalevano anche di sceneggiatori di livello letterario, i Lubitsch e i Wilder hanno posto le basi del genere commedia, i Lang e gli Hitchcock del noir e del giallo, e così via. Gli autori erano i fondatori dei loro rispettivi generi e spesso si dedicavano a più di un genere. L’Italia ha creato – con i Rossellini, i Visconti e gli altri – un cinema che invece prescindeva largamente dai generi. È solo alla fine dei cinquanta e all’inizio dei sessanta, anche sull’onda del successo italiano precedente, che un Sergio Leone può permettersi il “peplum”, cioè il film di ambientazione antica e mitologica, e di reinventare il western. Il suo è il caso di un autore ancora in stretta simbiosi con i generi. Nel cui ambito rientra anche la produzione seriale, per lo più dozzinale, tipica dello sfruttamento commerciale successivo (non solo gli “spaghetti western”, come si sa, ma gli stessi film “medievali” di Pasolini conobbero un proliferare di derivati). Insomma la complessa dinamica autore-genere-opera significativa-opera seriale, che è poi la via crucis di qualsiasi arte nell’epoca della sua riproducibilità, non è qualcosa su cui si possa sorvolare come fa Mortimer.
Si potrebbe sostenere che proprio lo svuotarsi di questa dinamica – fino a un certo punto ancora interna all’industria culturale ma divenuta desueta dopo l’avvento di una estetizzazione diffusa che non si preoccupa tanto delle opere quanto piuttosto di realizzare incessanti effervescenze – rende così poco apprezzabile e competitiva la produzione italiana contemporanea, a parte naturalmente qualche eccezione. Un cinema artigianale, fatto spesso con pochi mezzi ed estraneo a una rigida divisione tra una serie a e una b, era una peculiarità del nostro paese non solo perché c’era un conflitto sociale (negli anni cinquanta in verità non ce n’era molto), ma anche perché c’era un sistema produttivo capace di rischiare e di mettere in campo risorse. Il conformismo successivo – che risplende soprattutto, a partire dagli anni ottanta, nella formazione di un genere “d’autore” ormai omologato, senza capacità d’innovazione né sul piano formale né su quello dei contenuti – è il portato del peggioramento generale delle arti dello spettacolo in un mercato, mai come in Italia, dominato completamente dalle televisioni. I ragazzi di oggi non trovano più un pistolero così sorprendentemente italiano come Douglas Mortimer in cui identificarsi: potranno magari farlo nei personaggi dei film americani. Nel frattempo è accaduto che molte sale cinematografiche abbiano semplicemente chiuso, tutte le altre si siano trasformate, e gli esercenti al pari dei produttori preferiscano non rischiare. Le televisioni fanno la parte del leone in un mercato dell’estetizzazione quotidiana in cui nemmeno il vecchio Sergio, che Leone lo era davvero, troverebbe più posto.
[Immagine: Lee Van Cleef (Douglas Mortimer) in Per qualche dollaro in più di Sergio Leone (gm)].