di Francesco Scarabicchi
Cardi, erbe, sassi, canneti, rami, radici, arbusti, foglie, spiaggia, onde, gabbiani, vento, cielo: sono questi gli elementi essenziali ed umili di una nomenclatura a cui lo scultore Pericle Fazzini (Grottammare,1913 – Roma, 1987) è rimasto indissolubilmente fedele per tutto il corso della sua esistenza di uomo e di artista, come se Grottammare, il paese adriatico della nascita, non avesse mai spento la sua profonda ed intensa luce di ispirazione e di vocazione nel corso dei decenni che lo hanno visto fra i più complessi ed insostituibili maestri del Novecento.
Scultore di assoluta purezza lirica e drammatica, Fazzini conferma, ogni volta, la verità che fa classica un’opera: la sua necessità ribadita dalla durata, la persistenza della domanda sul senso del mondo, l’interrogare i regni oltre la contingenza, la coscienza della precarietà eterna testimoniata dalla perenne vita delle cose e degli uomini. Il luogo dei natali si intitolava la mostra aperta, dal 20 dicembre 2003 fino al 15 febbraio 2004, al Teatro dell’Arancio del Paese Alto di Grottammare e ricavata dalla collezione di Lisa Schneider (modella di Fazzini dal ’55) che la Fondazione Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno ha acquistato nella sua integrità che contempla sculture, bronzi, disegni, ciondoli in oro e argento, grafiche, appunti, datati tra gli anni Trenta e Ottanta.
La collezione stessa costituisce il museo permanente che il Comune di Grottammare ha istituito nelle sale interne del restaurato Torrione della Battaglia nell’antico incasato. Il saggio dei lavori esposti (catalogo della Stamperia dell’Arancio coordinato da Riccardo Lupo e Enrico Piergallini con testi di Mariastella Margozzi, Valerio Rivosecchi e Ilaria Falconi) consente di cogliere una rara qualità di Fazzini che lo scrittore Paolo Volponi, in un testo del ’64 per i venti disegni che costituivano Album di Grottammare, individuò con sensibilità acuta: la capacità di ridare agli oggetti “la dignità naturale”, il “posto onesto”. Basterebbero queste notazioni al margine per indovinare l’ampiezza dell’arte di questo scultore che colma il vuoto della perdita con l’essenziale dono di aver saputo restituire, in una forma, il battito e il respiro perduto dell’attimo in cui la vita è trascorsa in esseri, cose, natura e storia (penso, per esempio, ai bronzi del Fucilato del ’45-’46, al Monumento alla Resistenza di Ancona del ’64-65, alla Donna che si asciuga nel vento del ’74).
Rammentando lo Shakespeare dei Sonetti, anche per Pericle Fazzini si potrebbe dire “al fine spirto amoroso s’addice udire con gli occhi” con ciò ribadendo una qualità estrema dell’arte che, silenziosa e tenace, tenta la via per raggiungere l’anima nascosta dell’essere, la voce muta che abita il tempo e i luoghi e conserva natura, tradizione e senso lungo i brividi di un’inquietudine mai sazia, ricca della sua febbre e della sua sensualità, tra eros e morte, in quell’eterna stagione del desiderio che anima un corpo e un sasso, la luce aurorale del mattino e il profilo di un volto, l’erba ai bordi di una spiaggia o un angelo d’oro pieno, la schiena nuda della Sibilla e il memoriale di Auschwitz. La tensione del suo sguardo ancora percorre la leopardiana coscienza che unisce la siepe del proprio risiedere e l’idea di infinito, il paese e lo spazio, il nome comune e l’orizzonte di un’attesa futura.
[Immagine: Pericle Fazzini, s.t., 1985 (particolare). Foto Alessandra Pedonesi e Aldo Cimaglia].