cropped-Cuore_-_pic_71.jpgdi Marina Polacco

[Questo saggio è uscito su «Between», III, 6, 2013].

[…] il maestro era di malumore perché non stava bene, e da tre giorni, infatti, viene in sua vece il supplente, quello piccolo e senza barba, che pare un giovinetto. Una brutta cosa accadde questa mattina. Già il primo e il secondo giorno avevan fatto chiasso nella scuol«a, perché il supplente ha una gran pazienza, e non fa che dire: – State zitti, state zitti, vi prego. – Ma questa mattina si passò la misura. Si faceva un ronzìo che non si sentivan più le sue parole, ed egli ammoniva, pregava: ma era fiato sprecato. Due volte il Direttore s’affacciò all’uscio e guardò. Ma via lui, il sussurro cresceva, come in un mercato. […] Il supplente afferrava per un braccio ora l’uno ora l’altro, e li scrollava, e ne mise uno contro il muro: tempo perso. Non sapeva più a che santo votarsi, pregava: – Ma perché, perché fate in codesto modo? volete farmi rimproverare per forza? – Poi batteva il pugno sul tavolino, e gridava con voce di rabbia e di pianto: – Silenzio! Silenzio! Silenzio! – Faceva pena a sentirlo. Ma il rumore cresceva sempre.

(De Amicis 2011: 60)

 Come tutti avranno subito capito, si tratta di un brano tratto dal libro Cuore, pubblicato nel 1886 da Edmondo De Amicis, pochi anni dopo l’entrata in vigore della legge Coppino (1877) che aveva esteso ai primi tre anni della scuola elementare l’obbligo scolastico (con la precedente legge Casati, del 1859, limitato a due), introducendo accanto alla gratuità anche delle sanzioni per chi la disattendeva. Il libro di De Amicis, a prescindere dalle interpretazioni e dai giudizi di valore che attualmente possiamo attribuirgli, ci propone nella maniera più diretta ed efficace il punto di vista della borghesia intellettuale illuminata dell’epoca, pronta a sostenere e celebrare l’alto valore pedagogico e patriottico della battaglia in atto per creare in Italia un sistema d’istruzione pubblica al passo coi tempi. Una battaglia di modernizzazione che, pur con tutti i suoi limiti e le sue inefficienze (mancanza di fondi in primo luogo, tanto per cambiare: i comuni erano chiamati a sostenere le spese dell’operazione, senza avere la benché minima possibilità di farlo, nella stragrande maggioranza dei casi), innesca un processo di crescita culturale e di definizione di una identità nazionale realmente condivisa (basti pensare all’abbattimento del tasso di analfabetismo nel giro di due decenni). Cuore testimonia, ai nostri occhi in maniera fin troppo ingenua, questo investimento: attraverso il diario di Enrico e i racconti mensili dettati dal maestro (senza dimenticare i commenti espliciti dei genitori e soprattutto del padre) la scuola è presentata come la fucina in cui forgiare le nuove generazioni ai valori del patriottismo e della concordia sociale e nazionale. Nessun dubbio, nessuna crisi di legittimazione, nessuna perplessità sul mandato sociale: tutti gli insegnanti, dalle più modeste maestrine d’asilo ai professori universitari, collaborano a questo ambizioso progetto, sono gli umili eroi di questa guerra di civiltà, che travalica persino i confini della nazione, fino a coinvolgere l’umanità intera. Non si tratta solo di fare di piemontesi, calabresi, romagnoli e genovesi un solo popolo, e di educare questo popolo all’esercizio della virtù nel senso più lato (e borghese, ovviamente) del termine (generosità, condivisione, impegno, solidarietà, correttezza, onestà, rispetto reciproco, amor di patria, sincerità, coraggio, spirito di sacrificio…), ma anche di partecipare al più generale cammino di progresso che coinvolge l’umanità intera – secondo lo spirito più ottimista e fiducioso della borghesia ottocentesca:

Pensa, la mattina quando esci, che in quello stesso momento, nella tua stessa città, altri trentamila ragazzi vanno come te a chiudersi per tre ore in una stanza a studiare. Ma che! Pensa agli innumerevoli ragazzi che presso a poco a quell’ora vanno a scuola in tutti i paesi, vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno, per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, in barca nei paesi intersecati da canali, a cavallo per le grandi pianure, in slitta sopra le nevi, per valli e per colline, a traverso a boschi e a torrenti, su per sentier solitari delle montagne, soli, a coppie, a gruppi, a lunghe file, tutti coi libri sotto il braccio, vestiti in mille modi, parlanti in mille lingue, dalle ultime scuole della Russia quasi perdute fra i ghiacci alle ultime scuole dell’Arabia ombreggiate dalle palme, milioni e milioni, tutti a imparare in cento forme diverse le medesime cose, immagina questo vastissimo formicolìo di ragazzi di cento popoli, questo movimento immenso di cui fai parte, e pensa: – Se questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie, questo movimento è il progresso, la speranza, la gloria del mondo. –Coraggio dunque, piccolo soldato dell’immenso esercito. I tuoi libri son le tue armi, la tua classe è la tua squadra, il campo di battaglia è la terra intera, e la vittoria è la civiltà umana. Non essere un soldato codardo, Enrico mio. (Ibid.: 14)

Continua su «Between»

[Immagine: Illustrazione da Cuore (1886) di Edmondo De Amicis (gm)].

 

22 thoughts on “«E quell’infame sorrise». A proposito di somari scolastici e della loro rappresentazione

  1. Torna, Edmondo, tutto è perdonato!

    “Secondo un’indagine condotta dall’Ocse, denominata All, adult Literacy and Life Skills, la maggior parte degli italiani riesce a comprendere a stento la posologia di un medicinale. Il 50% poi, non è in grado di discernere le informazioni su un foglio di istruzioni e il 33%, di fronte a una pagina contenente più informazioni, non è in grado di individuare la soluzione del problema.
    I test sono organizzati per livelli. Il primo step, superato il quale si dimostra di avere una competenza alfabetica «al limite dell’alfabetismo» è quello che prevedeva di decifrare l’etichetta di un farmaco sulla quale è riportato il numero di giorni di assunzione del medicinale. Il 5% degli italiani non è in grado di comprenderlo. Il secondo livello richiedeva di seguire le istruzioni per curare una pianta ornamentale. Il breve testo, contenente due informazioni diverse è comprensibile solo per la metà della popolazione. Il terzo livello richiedeva di montare un sellino, ma il 33% ha una capacità di linguaggio troppo limitata per riuscire a farlo.”

    http://www.lettera43.it/cronaca/studio-dell-ocse-meta-degli-italiani-e-analfabeta_4367589609.htm

  2. Lo spirito di questo pezzo mi piace molto, mentre mi dispiace che il primo commento a comparire tiri fuori cifre di indagini statistiche marcate Ocse, che stonano vistosamente con quanto l’autrice ha voluto sottoporre alla riflessione dei lettori: la Polacco ha infatti voluto aprire le porte delle aule anche ai non addetti ai lavori, per mostrare la complessità delle dinamiche che stanno alla base dell’insuccesso solastico, di quello rilevabile con i metodi statistici e di quello, nascosto, che nemmeno da quelle statistiche emerge. Per fare un po’ l’avvocato del diavolo, con un’aperta provocazione: la popolazione italiana è composta per una buona percentuale da persone anziane, che credo abbiano legittime difficoltà con il montaggio del sellino (di una bicicletta, presumo)… Voglio dire, Buffagni, che la formulazione ‘la maggior parte degli italiani’ è generica, e quindi può includere molti analfabeti over 75 (mai/mal alfabetizzati? analfabeti di ritorno?), oppure (forse) calcolare nel mucchio i parlanti non nativi (gli immigrati), che senza dubbio con i tipi di testo sopra citati potrebbero avere delle difficoltà. Sapremmo montare noi una bicicletta in Ungheria, con le istruzioni in ungherese? O leggere in Finlandia i bugiardini dei farmaci, in finlandese? Forse nemmeno le etichette dello shampoo in Grecia, a causa del diverso alfabeto… Mi scusi, ma il suo commento avvilisce in partenza una discussione che, piuttosto che insistere sempre sulle presunte ‘certezze’ delle cifre statistiche (ormai veri e propri mantra, oracoli indiscutibili… ma no!), sarebbe bene portare alla sostanza delle cose, dei fatti, dei problemi, e delle persone. Ora non posso continuare nel mio commento, ma mi riprometto di riprendere presto la discussione. Intanto un sincero grazie a Marina Polacco.

  3. A roberto buffagni:

    con quel “torna Edmondo” vorrebbe suggerirci forse che l’oggettiva scarsa attuale qualità delle competenze linguistiche dei ragazzi appena usciti dalle scuole italiane può essere combattuta solo con un ritorno “restauratore” a un “età dell’oro” passata? E quale età dell’oro? Quella del 1861, quando, secondo i calcoli di De Mauro del 1863, all’istruzione postelementare poteva accedere lo 0,89% della popolazione italiana? Quella degli anni ’60 del secolo seguente, appena trascorso, con la scuola media obbligatoria frequentata da meno del 60% dei ragazzi in età? Ma forse ho l’impressione, da quello che aveva scritto qui:

    “[…] la scuola italiana è arretrata, grazie a Dio. Arretrata culturalmente, perché informata, almeno nel liceo classico, alla filosofia di Gentile, un hegeliano che aveva il coraggio e i mezzi filosofici per pensare mondo e cultura nel loro insieme, e arretrata socialmente, nella pratica quotidiana, nelle risorse, nell’organizzazione, perché l’Italia è un paese che va in malora e perde i pezzi lungo la strada, grazie soprattutto alle “riforme” introdottevi dai modernizzatori degli ultimi vent’anni: si veda, per la scuola, la nefasta riforma Berlinguer.”

    che la nostalgia più forte che prova è per la riforma Gentile del 1923. Evito subito di soffermarmi sul fatto che Mussolini la definì “la più fascista delle riforme” e mi limito ad osservare che lo spirito di Gentile era che la scuola doveva servire a selezionare un numero limitatissimo di persone da porre ai vertici di una società fortemente gerarchica, vertici caratterizzati da professioni “nobili” ovvero quelle in cui “ci si sporca meno le mani” ovvero letteratura, studi classici, filosofia e storia, le altre professioni come le scienze, sia naturali che sociali, per non parlare delle professioni legate alle applicazioni pratiche di queste scienze sono ritenute più “basse” e quindi da svalutare.

    Come se non bastasse oltre a questa gerarchia di discipline Gentile dava per scontato che il fatto che un ragazzo per natura di nascita si sentisse più portato ad un certo tipo di studi ignorando totalmente tutti i fattori non innati ma socio-culturali che inevitabilmente influenzano la presenza e il peso di queste inclinazioni.

    Ma soprattutto, se è vero che anche oggi la società ha bisogno di un limitato numero di avvocati, ingegneri o professori, mi pare che a tutti, dai futuri direttori d’orchestra ai futuri più umili manovali, la scuola debba dare la possibilità di comprendere e apprezzare il valore di opere artistiche, letterarie delle concezioni filosofiche e delle scoperte scientifiche e delle loro applicazioni, valore di esse in quanto tutte parti di una cultura unitaria e non di culture “umanistiche di serie A” e “scientifiche di serie b”. Ma nessuno si accorge che filo-umanisti contro i tecnocrati adoratori di “scienze portatori di soli mezzi” e disprezzanti un “umanesimo non utilitaristico ma portatore di senso” fanno il gioco di questi ultimi dato che finiscono per confermare una visione gerarchica, seppure in modo opposto, tra le varie culture?

    Insomma, il vero problema di quando ci si lamenta della cattiva scuola attuale non è che è cambiata troppo da un’ipotetica “età dell’oro” passata, semmai è cambiata troppo poco, negli anni ’60 abbassando la selezione e fornendo la “scuola media unica” e “licei per tutti” lasciando però immutato tutto il resto, e negli anni ’90 con Berlinguer e la sua autonomia scolastica (ma nei fatti concreti poco si è realizzato, e dubito, come dice buffagni, che possa definirsi “nefasta” una riforma che ha lasciato intatto l’impianto base di Gentile, rimasto tale anche con l’ultima riforma del 2010). O qualcuno, oltre al “ritorno al passato” ha altre prospettive speranzose da proporre per la scuola italiana?

  4. Ottimo pezzo, complesso, ricco di idee. Grazie Marina. Richiede una riflessione più lunga delle poche cose che riesco a percepire a una prima lettura.
    Intanto, mi limito a queste poche cose, oltre a dire che condivido più o meno tutto.
    La Mastrocola vive fuori dalla realtà. Se lei pensa che una certa svogliatezza dei liceali sia il problema della scuola italiana, allora si svegli e cerchi di mettere in contatto quegli studenti con la vitalità del sapere. La verità è che lei esprime un punto di vista passatista.
    Pennac e Affinati sono molto affascinanti. Il problema è in effetti che Franti (che non si trova nei licei, ma in ben altri tipi di scuole; nei licei, se hai voglia di insegnare davvero, ti porti dietro tutti) esiste. Mi sembra di intuire in Affinati una vaga idea che Franti è anche, in una certa misura, una battaglia persa, perché in fondo ci può ben essere chi odia la scuola e basta (e forse in fondo ha ragione, per certi versi…). Però è vero che una società inclusiva deve trovare una risposta da dare a Franti. Intanto, è evidente che il “somaro” è frutto di un curriculum, ampiamente costruito dalle inadeguatezze della scuola. Quindi la risposta è proprio quella dell’inventiva, non programmabile, da mettere in atto nelle diverse situazioni, da parte del docente, nel rapporto con il ragazzo. Così si può riportare quest’ultimo a una sua responsabilità. Ed è vero che insegnare è un’arte molto complessa, che come ogni arte ha una componente di intuizione e di tatto, che “fiorisce” su una competenza tecnica, ma che non può essere insegnata. L’insegnante vero non conosce il somaro. Vuole sempre tirare fuori qualcosa da tutti. Io ho un criterio per distinguere i colleghi o le colleghe poco bravi o brave: se passano sistematicamente il tempo (per esempio in sala insegnanti) a lamentarsi degli allievi. Se lo fanno troppo, sempre, allora non sono bravi insegnanti. Perché un bravo insegnante, quando l’allievo non risponde, si chiede dove ha sbagliato; come un qualsiasi artigiano, di fronte a un’opera riuscita male, si chiede dove ha sbagliato, prima di prendersela con la materia prima, gli strumenti o i fornitori.
    Oltre a questa componente personale, ci sono dei cambiamenti strutturali da fare. I nostri studenti stanno male a scuola, solitamente, e a partire dalla scuola media (non alle elementari). Perché? Perché in realtà, nonostante tutte le nostre chiacchiere, non siamo mai riusciti a cambiare la didattica delle scuole medie, inferiori e superiori; e se questo è un problema secondario per i licei, è un dramma per la media inferiore e per tecnici e professionali. Quando sento qualche collega che si lamenta “non mi stanno ad ascoltare” penso: “perché dovrebbero ascoltarti, ascoltarci?”. Pensiamo che in classe si devono anche fare cose diverse, che stare ad ascoltare. E anche la disposizione dell’aula, la frontalità da plotone di esecuzione dei banchi allineati, è una cosa che non funziona. Vi assicuro che discutere con gli studenti dal fondo dell’aula, in una orizzontalità più o meno anarchica, da molta più soddisfazione a tutti.
    (Di solito io sono un appassionato di statistiche, ma in effetti, caro Buffagni, qui non c’entrano niente, sottoscrivo il commento precedente).

  5. Cara signora Caprara,
    ritiro il commento, così non ci avviliamo.
    L’ho messo frettolosamente (appena prima di leggere questo articolo, avevo letto la statistica), e la fretta è cattiva consigliera.
    Non ho una gran fiducia nelle statistiche, specie in questo campo.
    Mi limito a una modesta osservazione personale.
    Ho conosciuto bene parecchie persone, nate nei primi anni del Novecento o anche negli ultimi dell’Ottocento, che avevano frequentato solo tre o cinque anni di scuola elementare. Tutte sapevano leggere e scrivere correttamente, senza o quasi senza errori d’ortografia e di grammatica; qualcuna si era coltivata, leggeva libri non facili, scriveva con notevole proprietà. Sono quasi tutti morti, ma i pochi vivi, se non soffrono di Alzheimer et similia, continuano a saper leggere e scrivere correttamente anche da vecchi bacucchi.
    Mi è invece capitato, negli ultimi anni, di constatare con sgomento che non pochi studenti universitari fanno sfondoni terribili. Massacrano l’ortografia, torturano la grammatica, squartano la sintassi. Non mi sono note confessioni pubbliche, conversioni, espiazioni, punizioni esemplari dei suddetti crimini.
    Sui giornali mi capita di leggere giornalisti che identificandosi con l’aggressore anglo scrivono “decade” per decennio, “domestico” per “interno” (il mercato). Danno l’impressione di dormire sonni tranquilli e di digerire bene.
    Presidenti del Consiglio, in discorsi ufficiali, travolgono sulle strisce pedonali la lingua italiana e la lasciano agonizzante sul selciato. Gli astanti paiono indecisi tra l’indifferenza, la complicità e la gioia maligna. Rettori di Università pubbliche ne premeditano l’assassinio, proponendo di rimpiazzare la vittima (subito cremata o sciolta nell’acido) con l’inglese, o con il dispositivo mentale che s’immaginano essere l’inglese. Ho il sospetto che non abbiano neppure la giustificazione di essere prezzolati da qualcuno, si svendono e ci svendono gratis, forse per pura libidine di dissoluzione nichilista, per il gusto patologico di incanaglirsi, in una maestosa allegoria sadomaso.
    Quasi nessuno si esime dal servirsi almeno tre-quattro volte al giorno dell’orripilante “OK”, così rivelando d’essere schiavo di una dipendenza devastante. L’unico a me noto che se ne guardi con cura è Giorgio Freda, un nazista (stiamo messi bene). Ci sarebbero, lì pronti e ansiosi di gettarsi nella mischia, il “sì”, il “va bene”, il “d’accordo”, ma nessuno se li fila, restano a fare tappezzeria, panchina, penitenza.
    Perchè? Non lo so. E’ successo Qualcosa…

  6. Caro Michele dr,
    il “torna Edmondo, tutto è perdonato” è una battuta di spirito, tutto lì.
    Quanto a Gentile, certo che era fascista, come Heidegger nazista, Lukàcs comunista, Roberto Rossellini democristiano. Io non sono nè fascista, nè nazista, nè comunista, nè democristiano, però non li cambierei con Scalfari, Cacciari, Veltroni e Nanni Moretti. Per citare il Filosofo, mi tengo le mie figurine Panini (che sono bisvalide).

  7. A proposito di somari scolastici e della loro rappresentazione, può essere istruttivo riflettere sui dati relativi all’assenteismo del personale, all’abbandono scolastico e ai voti massimi attribuiti ai diplomati nel nostro paese. Si tratta di dati, facilmente reperibili nelle riviste specializzate e nei rapporti dell’Istat, che ripropongono il tema del divario esistente tra il nord e il sud nel sistema scolastico italiano. Dopo aver precisato che risulta che le percentuali più alte della dispersione scolastica si registrano non solo in regioni meridionali come la Campania, la Sicilia e la Sardegna, ma anche in località del nord come Novara e Bergamo, vorrei soffermarmi, partendo da un’esperienza personale, sulla differenza relativa alle alte valutazioni attribuite agli studenti del sud e le più contenute valutazioni attribuite agli studenti del nord negli esami conclusivi del ciclo di studi delle scuole superiori.
    All’inizio dell’estate del 1992, sùbito dopo l’attentato a Falcone e durante l’attentato a Borsellino (il boato dell’esplosione, verificatasi a poche decine di metri di distanza dalla sede di servizio, ci raggiunse facendo tremare le pareti e gli infissi dell’edificio, mentre stavamo svolgendo i colloqui con i candidati), in una Palermo sconvolta dall’offensiva mafiosa e fortemente militarizzata, io mi trovai a svolgere, presso un noto liceo statale di quella città, il ruolo di commissario agli esami di maturità (ruolo che, dopo un intermezzo genovese, mi trovai nuovamente a rivestire nel 1994 a Napoli, presso l’Accademia Militare della Nunziatella).
    Ricordo queste due esperienze professionali con un interesse e un’intensità del tutto particolari perché, essendo anch’io, in linea paterna, di origine meridionale, ma essendo nato, avendo vissuto ed essendomi formato al nord, ero interessato a conoscere i livelli e la qualità della preparazione degli studenti e degli insegnanti del sud. Orbene, devo dire, pur con la consapevolezza dei limiti inerenti alle esperienze di natura personale, che, se l’impressione che ricevetti sul piano dell’accoglienza e del trattamento fu ottima, il giudizio strettamente tecnico e professionale che maturai nel corso di tale esperienza non fu altrettanto positivo. Infatti, non mancarono, sia nella fase della correzione delle prove scritte che in quella dei colloqui di esame, momenti di duro contrasto tra chi scrive e gli altri commissari, nonché tra il medesimo e il presidente della commissione (tutti di provenienza locale o regionale) a causa dei “criteri principeschi di elargizione delle valutazioni” (in questi precisi termini formulai e richiesi che fosse messo a verbale il mio giudizio) cui i colleghi citati, compattamente, come un sol uomo (con l’unica eccezione costituita da un membro interno, insegnante di greco e di latino di elevata preparazione culturale e non meno elevata serietà professionale), si attennero, sotto la vigile e, all’occorrenza, aggressiva regìa del presidente (il quale era, tra l’altro, un docente universitario e, per la cronaca, anche un consigliere comunale della Dc palermitana). È superfluo aggiungere che il comportamento improntato a rigore culturale e coerenza professionale, da cui non mi discostai di una jota anche in quella occasione, fu scambiato dai colleghi siciliani per una manifestazione di ‘spirito nordista’ e io finii con l’essere isolato in una posizione di costante minoranza, oltre ad essere gratificato dell’appellativo di ‘kantiano’ per una linea di condotta che a me sembrava semplicemente doverosa al fine di assicurare la massima omogeneità e uguaglianza di trattamento dei candidati sul piano di un serio accertamento della loro effettiva preparazione disciplinare e della loro complessiva maturità culturale, linea di condotta che non poteva non divergere dalle modalità corrive, e talvolta abusive, di una cooptazione familistica, corporativa e localistica, praticate dal resto della commissione e avallate, in chiave retoricamente buonista, dall’intervento di un ispettore scolastico regionale.
    Muovo, pertanto, da questa esperienza personale per sottolineare che il problema del divario tra scuola del nord e scuola del sud ha un fondamento reale, come, peraltro, dimostrano, da un punto di vista oggettivo, i dati disaggregati delle prove Pisa (‘Program for International Students Assessment’) dell’Ocse sulle competenze degli studenti italiani in lettura, matematica e scienze, che risultano fortemente squilibrate tra un nord, che si attesta sui livelli medi europei, e un sud, che è marcatamente al di sotto di tali livelli. Dubito, naturalmente, che per sanare il divario testé richiamato sia sufficiente organizzare, come pure fu proposto qualche tempo fa da un ministro dell’Istruzione, corsi di aggiornamento e di riqualificazione degli insegnanti del sud, poiché l’origine e la portata del fenomeno sono da inquadrare nel divario complessivo che si è venuto a determinare storicamente e che viene riprodotto e aggravato, sia sul piano strutturale che su quello sovrastrutturale, dalla dinamica dello ‘sviluppo ineguale’ del capitalismo. È, infatti, questa dinamica, ‘progressiva’ per un verso e ‘regressiva’ per un altro verso, che determina il dualismo dell’economia italiana e condanna in perpetuo il sud a svolgere la triplice funzione di serbatoio di manodopera a basso costo per il nord, di parcheggio per la disoccupazione strutturale e sorgente del correlativo parassitismo fondato sull’espansione della rendita fondiaria e sull’ipertrofia del pubblico impiego (il sud come ‘discarica europea’ sia in senso figurato che in senso reale) e, ‘last but not least’, di base territoriale della criminalità organizzata. La questione meridionale è, dunque, anche una questione scolastica e le eccezioni, che pure vi sono e indicano quali grandi potenzialità il sud potrebbe sviluppare se i rapporti di produzione che lo inchiodano a una condizione di permanente subalternità fossero ribaltati, confermano la regola per cui non solo le grandi masse della popolazione del sud non fruiscono delle opportunità, delle risorse e dei servizi accessibili al resto della popolazione italiana, ma anche i migliori ingegni e talenti che esso produce sono destinati o all’esportazione o alla dispersione e non possono essere valorizzati, in un quadro di organica integrazione dell’economia nazionale, a beneficio dello sviluppo economico, culturale e civile della terra che li genera.

  8. Mauro, grazie. Nulla da aggiungere, se non che il tuo metro di valutazione è perfetto.

  9. Pezzo ricco di molti spunti, soprattutto per la prospettiva ricca e sfaccettata, mai unilaterale o fondato su una tesi precostituita.

    Sono d’accordo con Marina Polacco, in effetti se non avessimo un po’ di sogni e di romanzesco in testa nessuno inizierebbe a fare l’insegnante. So però anche che ci sono sogni che si fortificano nel confronto con la realtà (sono i sogni veri) e quelli che vengono cancellati da un refolo di realtà. Per mantenere vivi i primi c’è bisogno di una intenzionalità esplicita, di una lotta costante, di tanta, a volte troppa, fatica.
    Perciò, io credo che il buon livello medio, l’onesto professionista che entra in classe come un dentista, sia più importante di quanto non conceda l’autrice. Il mestiere deve soccorrere ogni volta che tocca spiegare una cosa che non ci piace. Non dovrebbe accadere, uno dice, se hai studiato quella cosa lì, dovrebbe almeno piacerti: purtroppo non è così. A volte a scuola fai una cosa diversa da quella a cui pensavi.
    Il problema della formazione degli insegnanti è infatti enorme. Tralasciano i problemi tecnico-organizzativi e, anche, quelli disciplinari. Noi continuiamo a formare gli insegnanti, e gli insegnanti continuano a formarsi, secondo certi idealtipi, e forse non tutti sono adeguati all’oggi, si è creato uno scollamento tra realtà e desideri. Per quanto riguarda l’insegnante di lettere, credo che sia risaputo che quanti di noi dopo la laurea decidono di fare l’insegnante abbiano in testa, grosso modo, il modello di un professore liceale: un po’ perché la maggior parte di noi è stata liceale, un po’ perché vogliamo sopratutto insegnare la letteratura. Certo, poi far scrivere, discutere, quello che volete, ma il nocciolo duro quello è.
    Esiste poi un altro modello di insegnante, che ha sposato la causa che in Italia è stata identificata sopratutto con don Milani e le tesi Giscel: una scuola non più giocata sul perno dell’umanesimo letterario, ma sull’educazione linguistica (approssimando). Credo che comunemente si sottovaluti la presenza e l’incisività di questo tipo di insegnante soprattutto nelle scuole medie, su cui vorrei dire qualcosa dopo.
    Questi sono, forse, i due modelli principali. Credo sarebbe interessante indagare in modo meno rozzo la fenomenologia degli insegnanti, la motivazione che li ha spinti a diventarlo, però non per via statistica, meglio l’autoracconto o il dibattito, credo. Magari scopriremmo che questa mia modellizzazione in realtà non funziona.
    Ma dicevo del modello “insegnante di letteratura”. La letteratura è un continente piuttosto vasto. Ci sono regioni, in esso, adeguate a tutti, dai bambini delle elementari fino ai liceali classici, dai Franti (forse) ai preadolescenti delle medie. Credo che noi ne abbiamo un’idea troppo ristretta, il canone ottocentesco con le sue successive integrazioni. Questa è anche, credo, la ragione per la quale un laureato in Lettere ha un bagaglio culturale adeguato solo se lavorerà in un liceo classico, scientifico, linguistico, o in un buon tecnico, inadeguato invece agli istituti professionale e alle medie. Questa è (ripeto: credo) la ragione per la quale la didattica dell’italiano in certi segmenti funziona meno. Di questo problema dovrebbero farsi carico sopratutto l’università e i corsi di formazione degli insegnanti, ma de hoc satis.

    Sulle medie. Sono d’accordo solo in parte con Mauro (Piras): la didattica nelle medie forse ancora non funziona a puntino, ma è cambiata moltissimo dai primi anni della scuola media unificata. Perdonami Mauro, ma questa tesi Cidi continua a non convincermi, troppo brutalmente schematica.
    Basterebbe vedere i libri (almeno le antologie di italiano e i manuali di storia e geografia; forse sulla “grammatica” il discorso sarebbe diverso). Io ne ho usati diversi di pregevolissima fattura. E sono assolutamente moderni, altro che scimmiottamento del liceo in piccolo. Credo che almeno una parte delle discussioni e delle proposte didattiche nuove degli anni di fermento (Settanta Ottanta) siano state recepite. Probabilmente tutto ciò non basta: abbiamo, appunto, un problema di formazione dei docenti, che escono da Lettere insegnanti di liceo e imparano dai manuali e nelle aule a fare un altro mestiere.
    Manca anche una riflessione accademica su cosa significhi fare italiano in certi segmenti di scuola. In particolare mi preme sottolineare che manca una riflessione seria sulla letteratura per la preadolescenza (o, se c’è, a noi non arrivano notizie), ciò che fa sì che gli insegnanti sappiano abbastanza bene quali libri di lettura proporre alle superiori, ma che improvvisino, non sempre bene, quando si parla degli 11-14 anni. Esistesse un “canone per le scuole medie”, avremmo qualche classico irrinunciabile, e meno supinità rispetto alle proposte delle case editrici, che non sempre sono di livello adeguato. Il canone potrebbe anche essere costruito dal basso, dall’esperienza accumulata dai docenti.
    (Segnalo a chi fosse interessato questo volume scaricabile gratuitamente dalla rete. Consiglio caldamente soprattutto l’intervento di Simone Giusti, che cerca proprio di abbozzarre un piccolo quadro teorico del fare letteratura nella scuola media, cogliendo la specificità di quel segmento:
    http://www.laricerca.loescher.it/index.php/quaderni/89-quaderni/604-i-quaderni-della-ricerca-05-).

    Mi ha dato da pensare l’affermazione di Affinati, ripresa da Polacco, sul fatto che proprio i ragazzi culturalmente più disarmati (i Franti) avrebbero bisogno di un percorso lungo, non di una precoce professionalizzazione. Sono anche abbastanza d’accordo, però ho avuto un’esperienza in una scuola media difficile e posso garantire che i Franti (come descritti da Affinati, che spaccano tutto e disturbano tutti) non sono gestibili. Sono pochi, ma esplosivi: ne basta uno per classe e la classe cessa di esistere come comunità di apprendimento, nel senso che o li fai fuori come De Amicis, o, se li vuoi tenere dentro, praticamente tutte le energie ti vengono da loro assorbite. Io ho avuto ripugnanza a scegliere la prima strada, se non per brevi momenti di esasperazione o strumentalmente volti a stare in pace con gli altri, solo per un quarto d’ora (poi rientravano, e si ricominciava da capo). Tuttavia oso affermare che così non andava proprio. Io non ero in grado di fare tutto da solo. Mauro dice, giustamente, che è l’istituzione che se ne deve far carico. Come se ne faceva carico? Aspettava i 16 anni, poi li indirizzava a corsi di scuola-lavoro, dove, a dirla tutta, la parte di “scuola” (per l’ottenimento della licenza media) era ridotta all’osso ed era preponderante la seconda parte del binomio. Non per tutti, qualcuno neanche a lavorare riusciva: troppoa inquietudine, nessuna capacità di inserimento sociale. Insomma, non so davvero come, in questo mondo, si possa pensare di includere in percorsi scolastici lunghi ragazzi come questi. Forse siamo di fronte a un caso di giustizia ipotetica, di adynaton (come la società senza classi e il paradiso, ecc…), ostinandosi a perseguire i quali (voglio dire pretendendo che non siano solo ideali regolativi, cui ovviamente neanche io vorrei rinunciare, ma pretendendo che si incarnino) si finisce per creare una terribile impasse nella realtà.
    Mi domando quindi quanto della proposta della Mastrocola sui percorsi differenziati non andrebbe meditata, prima di etichettarla come classista.
    Cioè, quella proposta E’ classista, ma più che per quanto essa è in sé, per quanto sottende, per il retropensiero.
    Non amo la Mastrocola, non la amo perché non è nemmeno una grande moralista. Che so, Sallustio capisci che legge la crisi dei suoi anni solo con categorie moralistiche (questi giovani viziosi e violenti, queste donne emancipate e corrotte, …), però ha una statura tragica e un acume antropologico che non lasciano indifferenti. La Mastrocola (parva magnis compono) è solo moralistica e basta, cioè è lamentevole. Capisci che, come ha correttamente osservato Polacco, vuole quella divisione della scuola per non dover avere a che fare con studenti svogliati. In gioco è solo un interesse personale.
    Tuttavia, proprio perché la motivazione dei docenti, la loro adeguatezza personale e culturale al contesto è importante per la riuscita di una buona didattica, forse lei, se è davvero una brava insegnante (non voglio desumere un giudizio dai suoi libri, in quell’interstizio spazio-temporale che è l’ora di lezione in classe potremmo scoprire che l’autrice di quei libri resi grigi dal moralismo e che propalano pessimismo e passatismo, facendo un cattivo servizio alla scuola e alla società, è una bravissima insegnante), dicevo, se per lei essere insegnante è riuscire ancora a parlare dell’animo umano attraverso il velo pudico dei classici, ed è brava a farlo, visto che sono convinto che ci sia ancora un certo numero di studenti che di ciò ha bisogno, che da ciò impara, forse la Mastrocola ha il diritto di farlo. Davanti agli studenti giusti. Magari potremmo suggerirle che molte cose sono cambiate e che forse dovrebbe aprirsi di più (che so, ai colleghi giovani) e discutere, ma senza liquidarla come una cosa vecchia. Altri insegnanti sapranni fare bene altre cose, davanti a ragazzi affatto diversi.
    Insomma, tornando al principio, mi pare che se davvero la società è complessa, complessi, sempre più complessi ne stanno diventando i bisogni, e per affrontarli dovremmo avere a disposizione non “l’insegnante di italiano”, ma “gli insegnanti di italiano”, diversi fra loro e ciascuno vocato a mestieri in fondo abbastanza diversi. Torna, quindi, il problema di una formazione plurale e differenziata, che a me continua a parere, al netto di tutto, il vero problema della nostra scuola.

    Chiedo scusa per la lunghezza, il dibattito mi pare molto concreto e ho detto quel che di concreto (spero) mi è venuto in mente.
    Saluti a tutti

  10. Mi preme affondare un po’ il coltello su un paio questioni ottimamente sollevate da Marina Polacco.

    1) Normalità di Franti. Verissimo. Chi sono, in fondo, questi “somari”? Sono gli eccentrici rispetto ad una linea stabilita. Più rigida è la linea stabilita, più fitti i paletti che segnano il cammino formativo, più Franti avremo. Quanto più rigide ed omogeneizzanti sono le tipologie di verifica delle conoscenze/competenze acquisite, tanto più elevato sarà il numero dei ragazzi che falliscono. Vedi i test Invalsi, Pisa, eccetera. E’ credibile che nei paesi sviluppati (non solo in Italia, anche in posti favolosi come la Germania) le percentuali di incapaci scolarizzati siano così alte? La verità è che molti capaci non si assoggettano alla scolarizzazione così concepita. L’ossessione valutativa in sé danneggia del resto la qualità del risultato. I tempi di apprendimento sono molto variabili da persona a persona, ma ora nella scuola si vuole fare tanto in poco tempo, unità didattiche che durano un paio di settimane, e giù verifica. Conta molto il ‘quanto’ e poco il ‘come’. Una sorta di taylorismo dell’istruzione. Da questo modo di concepire lo studente, ossia come un ‘prodotto’, discendono conseguenze devastanti. A questo modello, infatti, non si piegano non solo i non-volenterosi, ma anche i naturalmente lenti, i sensibili, i visionari, eccetera. I Pennac o gli Einstein, insomma. Ecco perché odio le misurazioni quantitative dei risultati scolastici. Poi: non tutti gli esseri umani sono fatti per apprendere tutte le discipline nella stessa misura. Lasciamo odiare la matematica o il greco a qualcuno: è normale. Non si muore. La scuola dirà a queste persone: non sei fatto per il greco, per la matematica; l’insegnante questo dice, quando mette 4, quando boccia. L’importante è che dica: bene, in queste cose non sei proprio capace; vediamo, in cosa sei capace? Un giorno, nella sala professori della mia scuola, a una collega di italiano che si lamentava degli errori madornali di ortografia del suo alunno ginnasiale un’altra collega placidamente disse: “Beh, sicuramente fa un sacco di errori di ortografia, ma magari ha delle belle idee, un bel modo di pensare. Guarda anche quello. Magari al triennio troverà la sua strada nella storia dell’arte, nelle scienze. Non lo bocciare per questo, dagli la possibilità di crescere”. Mesi fa Mauro Piras proponeva su questo blog di abolire le bocciature, offrendo agli studenti la possibilità di privilegiare le materie a loro più congeniali ad un certo punto del corso di studi liceale. Ma non voglio allontanarmi troppo da nucleo del problema: stiamo attenti a non moltiplicare i Franti costringendo i bambini e i ragazzi in percorsi rigidi e ‘a tempo’. Se vogliamo avvicinarci a quello che resta comunque un adynaton, un’utopia, come dice Lo Vetere, ossia che i somari siano pochi, non possiamo prescindere da una riflessione seria su questo: quanto vogliamo, e in quanto tempo.

    2) Il professore e il somaro. C’è chi può, e chi non può, come professore. Non c’è niente da fare. La Polacco dice tutto benissimo a questo proposito. Il bravo insegnante è una miscela di tutte le cose che lei dice qui. Un pedagogo australiano, John Hattie, ha fatto discutere tutto il mondo (tranne che l’Italia, naturalmente) perché per 15 anni ha fatto delle rilevazioni nelle classi, osservando tutto, tutto quello che accadeva nel chiuso delle aule, tra insegnanti e allievi. Ebbene, ha coniato l’espressione “visible learning”, che riassume il succo di tutta la faccenda, al termine della sua ricerca: l’apprendimento si vede negli occhi. Negli occhi dell’allievo e in quelli dell’insegnante. Non è folle come sembra, credetemi. L’efficacia dell’insegnante sta a volte in cose banali, è un fatto di postura, di voce, di occhi. E’ l’efficacia dell’attore. Ed è mestiere. Ed è attitudine a quel mestiere lì, un mestiere di palcoscenico. Non esiste anche qui una tipologia unica. Ognuno si scelga la propria, ma agisca, ‘actio’ retorica come nella migliore tradizione classica, e guardi, guardi negli occhi gli alunni, perché il primo feedback è tutto lì. Chi non lo sa fare, non deve insegnare. Anche se è il miglior filosofo italiano, anche se è un genio matematico (pericolosissimi, in genere patologicamente introversi), anche se è uno scrittore affermato. “Perché non cominciamo a controllare chi l’insegnante lo sa fare e lo fa, e mandiamo altrove gli altri?”, mi scriveva ieri sera un collega (bravo) di storia e filosofia. Già, perché? Perché i ‘punteggi’ degli insegnanti in ruolo come dei precari sono il risultato di due fattori principali, ossia il numero di anni di servizio prestato e le esigenze di famiglia? I titoli, quanti e quali siano, ti procurano al massimo 12 punti, mentre un coniuge 6 (istigazione al matrimonio! siamo a questo punto). Perché non c’è un fattore come la conoscenza delle lingue straniere (quante, e a che livello)? Perché non si può differenziare il ‘valore’ di un insegnante che è molto apprezzato dagli alunni, che innova nella didattica con buoni risultati, che è attivo nella società civile insieme ai suoi ragazzi, e simili? Non siamo tutti uguali. C’è chi lo sa fare, e chi non lo sa fare. Giù la maschera.

  11. Un approccio complessivo capace di mettere in luce l’interdipendenza fra gli indicatori dell’insuccesso scolastico e le altre variabili interne alla scuola dovrebbe essere il primo passo di una ricerca che si proponga, mobilitando tutte le risorse umane e materiali disponibili, di: a) passare dal recupero alla prevenzione; b) passare dagli interventi straordinari ad una strategia ordinaria di prevenzione primaria e di promozione del successo formativo per tutti (laddove ciò significa portare tendenzialmente tutti agli stessi risultati e non solo garantire l’accesso e la frequenza); c) assumere le indicazioni che scaturiscono dalle ‘buone pratiche’ realizzate nel campo della prevenzione del disagio e della dispersione e passare quindi dalla sperimentazione alla generalizzazione di tali pratiche (laddove ciò significa sviluppare, a sostegno di un’azione integrata sul territorio, progetti di ricerca e di sperimentazione basati sulla definizione e sulla generalizzazione di percorsi didattici e organizzativi per il successo formativo).
    In questa prospettiva è evidente, da un lato, che la dispersione scolastica si pone come indicatore della qualità del sistema educativo di istruzione e formazione e, dall’altro, che l’adozione di questo o di quel modello interpretativo del disagio e della dispersione influenza profondamente le linee di politica scolastica e sociale e le conseguenti scelte di intervento.
    La complessità del discorso sulla dispersione connota, per altro, lo stesso significato del termine, il quale deriva etimologicamente da ‘dispergere’, composto di ‘dis’ e ‘spargere’, ma è percepito come derivato da ‘disperdere’, composto di ‘dis’ e ‘perdere’. Così, se il primo verbo richiama l’atto di spargere cose qua e là senza un ordine predefinito, ossia l’atto di dilapidare, il secondo verbo richiama l’atto del dividere, del separare, ossia dell’allontanare. Inoltre, entrambi i verbi, nell’uso intransitivo, evocano il fatto di sbandarsi e di svanire (si pensi al ‘disperso’ o alla nebbia che ‘si di-sperde al sole’).
    In un’epoca come la nostra, dominata dalle ‘passioni tristi’, le parole e le azioni della educazione alla cittadinanza, per essere davvero convincenti sul piano pedagogico e per essere efficaci sul piano etico-sociale, dovrebbero delineare all’interno della scuola un percorso capace di trasformare la convivenza civile in cittadinanza attiva e solidale e gli individui isolati in persone capaci di agire e interagire. Il potenziamento dei legami di coesione sociale e quindi l’inclusione sociale dovrebbero essere gli obiettivi della educazione alla cittadinanza cui la scuola, svolgendo la sua specifica missione di educare istruendo, è chiamata a contribuire insieme con le altre istituzioni e agenzie che operano sul territorio. Forse, come insegnanti, dobbiamo porre di più l’accento sull’importanza del legame (legame sociale, legame famigliare, legame scolastico, legame nazionale ecc.) e un po’ meno sull’importanza dell’autonomia delle persone, che a tutta prima appare indiscutibile, ma che nondimeno pone qualche problema. La lezione di Edmondo De Amicis, a questo proposito, lungi dal venire ridicolizzata, va invece ripresa e attualizzata sia perché ha segnato un momento alto della costruzione dell’egemonia da parte del ceto dirigente dello Stato unitario, sia perché l’unico modo per fare in modo che “l’infame non sorrida più” è promuovere e diffondere, attraverso la scuola di base, un’etica del legame sociale, della solidarietà e della cooperazione educativa (altro che percorsi differenziati!).

  12. Nota a margine.

    Finchè sorridono, cioè ironizzano nichilisticamente, “gli infami”, tutto va secondo copione: sempre ci sarà da ironizzare nichilisticamente, con buone o meno buone o pessime ragioni, sul mondo così com’è.
    Quando invece i primi a sorridere, cioè ad ironizzare nichilisticamente, sono i maestri, rien ne va plus (e guai, guai a tutti gli scolari: agli Enrico, agli Stardi, ai Franti, ai muratorini col loro “muso di lepre”).

  13. Dopo aver letto l’intervista all’insegnante tedesco e la recensione di Caprara mi viene immediato notare che Precht parla proprio della scuola tedesca, che poco ha a che fare con quella italiana. Da noi c’è, al contrario, proprio una carenza di “misurabilità” e di attenzione alle cosiddette “eccellenze”. La nostra scuola è – con ogni evidenza – più inclusiva, nonostante tutto. Ci lamentiamo della carenza di insegnanti di sostegno, dimenticando che altrove non si parla neppure di inserimento dei disabili. Ogni volta che leggo qualcosa relativo alla scuola di altri paesi rimango basito dal linguaggio usato, che a noi apparirebbe antiquato, rozzo, eccessivamente “concreto”, per non dire naif. Già, noi italiani siamo molto più raffinati nel didattichese. Noi non parliamo di “ortografia”, ci mancherebbe! O di “tabelline”… I sofismi dei nostri obiettivi (o “competenze”) sono inarrivabili. Resta da chiedersi perché, dunque, nonostante i don Milani della nostra storia, i Mario Lodi (e magari pure Gentile, và…) le cose da noi sembrino non funzionare, mentre la scuola “semplicistica” degli altri paesi parrebbe più efficiente. O magari siamo noi che, come al solito, ci sputiamo addosso più di quanto meriteremmo? Così, butto lì…

  14. Ho la netta impressione che per comprendere meglio i casi di studenti “difficili” bisognerebbe capire quanto nella scuola italiana è ancora presente come centrale una trasmissione passiva insegnante-studenti di “contenuti”, (non chiamerei “conoscenze” la “trasmissione” di date e nomi legati alla Guerra dei 30 anni o delle proprietà dei logaritmi, saltando tranquillamente come gli storici risalgono a tali informazioni e i matematici hanno scoperto tali proprietà). Insomma una scuola come “servizio di leva” dove gli studenti sono soldatini tutti uguali da “riempire” passivamente come vasi. Invece se si operasse compiutamente una “rivoluzione copernicana” in cui al centro ci siano i risultati attivi dei ragazzi, ognuno di essi diverso dagli altri (risultati che nulla hanno a che fare con memorizzazioni e ripetizioni degli studenti dopo precedenti “trasmissioni” ) con l’insegnante come “consulente” che dà strumenti che lo studente usa autonomamente per arrivare a questi risultati i ragazzi più “problematici” sarebbero molto più aiutati di adesso. Mi verrebbe da dire che con questo mutamento di paradigmi finirebbe che l’ambiente più importante dove apprendere non è a casa con i compiti e i ripassi ma a scuola con gli insegnanti (e di conseguenza non dovrebbe avere alcun senso controllare se gli studenti hanno fatto i compiti per casa, prima di tutto perché sarebbe una deresponsabilizzazione e poi anche perché non si dà la possibilità agli studenti di esercitarsi più in una certa materia in cui si va meno bene e di tralasciare esercizi in cui si è già molto capaci).

    A questo aggiungo il tema sopra già accennato dell’approfondire, man mano che si sale di anno, solo le materie in cui è più portato ciascuno studente, fermo restando che anche per queste ormai l’enciclopedismo nel periodo di scolarizzazione non ha più senso in una società in cui lo sviluppo continuo scientifico-tecnologico e la facilità di accesso alle informazione spingono a un apprendimento che deve durare per una vita intera. Infine ritengo che la divisione tra “arti liberali” in cui si usa solo la mente e “arti meccaniche” in cui si usa solo la mano è di fatto ormai superato, in un mondo in cui non solo le scienze ispirano nuove applicazioni tecniche ma dove le tecniche forniscono strumenti di indagine per le scienze e spunti di riflessione per la filosofia e le discipline umanistiche (applicazioni tecniche che peraltro vengono sempre più velocemente sostituite da altre nuove).

  15. @paolo durando

    E’ certamente difficile confrontare in concreto le esperienze scolastiche dell’Italia con quelle di altri paesi europei. Né bisogna farsi sempre piccoli rispetto agli altri. Il caso Germania mi è abbastanza noto, oltre che per il libro di Precht, anche per legami personali che ho con quella realtà: il classismo e la selezione precoce degli alunni (a 9 anni) colpiscono molto negativamente noi italiani, e a ragione. Lei poi parla di “eccellenze”, parola che mi piace poco proprio per come suona, e perché non vedo bene cosa si dovrebbe fare di speciale per questi studenti. Un mio collega propone seriamente di fare dei test d’ingresso di conoscenze dell’italiano per selezionare gli alunni dei licei classici: dobbiamo fare così? E in generale, qual è il punto? Se ci confrontiamo onestamente, noi vorremmo che le eccellenze facessero tutto più rapidamente, per arrivare prima, bruciare le tappe… E’ questa l’idea di ‘bravura’ che si sta sviluppando, che sta prendendo piede. I Franti danneggiano le eccellenze perché rallentano lo svolgimento dei programmi: non è questa la ‘vulgata’? No, mi oppongo a questo modo di vedere la formazione. Chi è bravo si godrà la minor fatica, e avrà il suo tempo per leggere, fare sport, fare musica, fare quello che gli pare, anche solo passeggiare per la città. Io un’eccellenza non la spremerei, insomma. Certo, condividerei di più del mio sapere. Ma a scuola non stiamo fabbricando un ‘prodotto’: stiamo insegnando a delle persone (a dei bambini, a dei ragazzi!) cos’è la conoscenza. Lo so, a molti sembrano belle parole vuote. Ma anche Michele Dr mi pare che abbia ben chiari i limiti dell’insegnamento puramente trasmissivo, e io sono d’accordo con lui.

  16. Ringrazio Caprara per la risposta. Anche a me non piace il termine “eccellenza”, ma confesso che mi sono un po’ stancato della sufficienza “politicamente corretta” con cui è d’obbligo parlare dei “bravi a scuola”. Dei bravi, c’è bisogno, invece. Soprattutto in un contesto che non li incoraggia di certo, in cui la cultura scolastica, ma anche la cultura tout court, non è davvero in cima alla scala della considerazione sociale. Si può poi discutere di riforme e metodi di insegnamento (la strada proposta dal suo collega non è sicuramente quella giusta, anche perché il classico non è l’unica scuola concepibile!). Ci tengo poi a precisare che ho insegnato per 13 anni negli istituti professionali. So quindi di che cosa stiamo parlando e non ho nessuna intenzione di inneggiare ad una scuola puramente “trasmissiva”. :-)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *