di Remo Ceserani
[Questo intervento è uscito su «La ricerca»]
Mi ha colpito, leggendo alcuni documenti prodotti in questi ultimi tempi negli Stati Uniti sull’educazione umanistica nella scuola americana (in particolare nel college, che sta pressappoco a cavallo fra il nostro liceo e il nostro primo triennio dell’Università), l’uso frequente della formula STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) riferita all’insieme delle discipline che stanno erodendo lo spazio o minacciando la vera esistenza delle HSS (Humanities, Social Sciences). Governatori di Stati come la Carolina del Nord o la Florida, rappresentanti della Business community, editorialisti di «Forbes» chiedono con forza di cambiare i programmi di studio nelle scuole medie e nelle università e di liberarsi da tante materie sfiziose e di nessuna utilità per il Paese.
Se un tempo erano disposti a tollerarle come un costoso ornamento, ora sono drastici: «La soluzione del problema è semplice: cancellare programmi e corsi che agli studenti riservano soltanto disoccupazione». Se poi alcuni proprio vogliono studiare sciocchezzuole come il latino, la storia, la geografia o la letteratura inglese, i politici, con tipica brutalità americana, scendono sul terreno della spesa e intimano: «paghino più degli altri».
Le risposte che vengono dagli ambienti delle scienze umane e sociali a me sembrano tutto sommato abbastanza deboli, anche perché tendono a rappresentare lo scontro fra due blocchi: da una parte le scienze umane, o arti liberali (che danno gloria e niente guadagni), dall’altra, in un unico mucchio, le scienze dure, le conoscenze professionali e le applicazioni tecnologiche (che sarebbero molto più remunerative in un mondo dominato dalle ragioni economiche, dagli affari, dalla grande finanza – ma questo è vero per chi fa ricerca nei laboratori scientifici?).
Ho visto, fra gli altri, un documento preparato da una commissione apposita dell’Università di Harvard negli anni 2012-2013, intitolato The Teaching of the Arts and Humanities at Harvard College. Mapping the Future e un altro preparato dall’American Academy of Arts and Sciences, reso pubblico anch’esso quest’anno, intitolato The Heart of the Matter. The Humanities and Social Sciences. For a vibrant, competitive, and secure nation. In questi documenti, e specialmente nel secondo, c’è molta retorica, molte cose note (tutto sommato giuste) sull’importanza della conoscenza storica e delle capacità critiche degli studenti e si arriva, nel documento di Washington, a sostenere che le scienze umane possono aiutare a rafforzare la sicurezza del Paese: «l’America avrebbe migliorato la ‘guerra al terrorismo’ se avesse incrementato la conoscenza della lingua araba prima dell’inizio delle ostilità» (dice la lingua, neanche la cultura). Il documento di Harvard, oltre a difendere il ruolo delle scienze umane nello sviluppo delle capacità critiche, nello smascheramento delle logiche di potere e nella creazione di «cittadini responsabili impegnati a vivere e preservare la società democratica», arriva a esaltare, con qualche esagerazione, il pur importante contributo che gli ‘umanisti’ possono dare all’incremento del relativismo dei valori: «Noi aspiriamo a fondare il nostro senso di noi stessi su una conoscenza stabile dei nostri ideali nella vita (per esempio, il nostro ruolo di cittadini responsabili in una società libera), ma al tempo stesso dobbiamo costantemente aspirare a scoprire di nuovo qual è il modo migliore per caratterizzare e coltivare quell’ideale. Le scienze umane sono il luogo in cui questa tensione viene coltivata, nutrita e sostenuta».
Ai documenti americani si può accostare, perché mosso da un uguale spirito di difesa delle scienze umane sotto attacco nel mondo scolastico e accademico italiano, Un appello per le scienze umane pubblicato sulla rivista «Il Mulino» nel numero 6 dello scorso ottobre, con motivazioni e discorsi che sono in parte diversi da quelli americani, perché adattati alla nostra situazione e per questo concentrati sull’importanza dell’insegnamento della storia, della lingua e della letteratura italiana. Si tratta di un appello, anch’esso inevitabilmente retorico, come richiede il genere di discorso a cui appartiene, decisamente polemico contro la «crescente tecnicizzazione», contro il crescente «carattere scientifico-tecnologico [della didattica – ecco la versione italiana dello STEM] opportunamente avvolto nell’involucro di un’informe, e non di rado retorica, pedagogia civica (educazione alla Costituzione, all’affettività ecc.) a scapito dei contenuti ‘umanistici’ tradizionali». L’appello è firmato da un letterato come Alberto Asor Rosa, un filosofo come Roberto Esposito e uno storico come Ernesto Galli della Loggia: intellettuali notoriamente diversi fra loro per convinzioni ideologiche, ma uniti nella volontà di gettare un allarme, e anche di esprimere posizioni molto simili a quelle degli umanisti di Harvard e dell’Accademia di Washington. Simile è, per esempio, la tesi (del resto condivisibile) che «molte delle nuove professioni digitali e telematiche, come anche la gestione dei rapporti con il personale nelle imprese, richiedono operatori dotati di una conoscenza di base e di una creatività che solo alcune facoltà umanistiche, opportunamente rinnovate, possono dare».
Uno dei problemi che incombono su questo tipo di discussioni è che il sistema delle discipline nelle nostre scuole, in particolare in quelle americane, che hanno gradualmente abbandonato il modello humboldtiano, non è costituito da due blocchi, ma da tre: da una parte le tradizionali discipline umanistiche, dall’altra le altrettanto tradizionali e importantissime discipline scientifiche (matematica, fisica, chimica, biologia, scienze naturali, neuroscienze) e dall’altra ancora le discipline più legate alla tecnologia e alle applicazioni pratiche (ingegneria, medicina, scienze dell’educazione, scienze politiche, ecc.). Al tempo dell’organizzazione dei grandi sistemi educativi europei, le istituzioni scolastiche erano distinte in scuole di educazione generale (ginnasi, licei, collegi) e scuole di formazione professionale e, a livello accademico, fra «Università» e «Scuole», cioè «Hochsculen» o «Technische Schulen»: i «Politecnici», i «Conservatori», le «Scuole d’arte», ecc. A queste si sono aggiunte, in America, con progressivo cedimento prima delle istituzioni di provincia poi anche di quelle prestigiose come Harvard, Yale, Stanford, le «Schools of Management», le «Business Schools» e altre simili che preparano alle professioni nel mondo degli affari.
Le motivazioni culturali, gli scopi e gli interessi delle discipline umanistiche e di quelle scientifiche sono sostanzialmente simili, ed è necessario secondo me sostenerli e difenderli insieme; quelli delle scuole professionali sono diversi e hanno la loro legittimità e importanza (pensate all’utilità dell’ingegneria o ai grandi trionfi della medicina, che ha allungato in tutto il mondo avanzato la durata media della vita), ma hanno inevitabilmente un diverso rapporto con le fonti di finanziamento, obbiettivi diversi nella formazione e criteri diversi nella valutazione dei risultati.
Le ragioni che hanno ispirato la grande tradizione europea delle scuole e delle università e le hanno volute aperte a tutta la popolazione e finanziate in toto o in parte dallo Stato sono ben note (e spesso sono state sostenute da Habermas): l’incremento della preparazione culturale, della capacità di ragionamento, della responsabilità morale ottenute dagli studenti attraverso il percorso educativo si risolvono in un miglioramento individuale, ma anche in una crescita culturale generale della società. Nel caso delle scuole professionali lo scopo è molto più concentrato sulla preparazione del singolo e gli consente uno sfruttamento anche economico della professione appresa e una carriera di successi e onorari adeguati (magari anche, per scelta individuale, di interventi utili per tutti). In questo caso sembra giusto che, tramite numeri chiusi, esami di ammissione, tasse di iscrizione, prestiti di onore e simili lo studente faccia un «investimento» economico nella scuola e si riprometta di trarne a suo tempo un vantaggio.
A questo proposito va ricordato che il sistema americano è molto diverso da quello europeo e che per questo qualsiasi applicazione di quel modello al nostro sistema è sempre un’operazione delicata, da fare con grande prudenza. I nostri pedagogisti tendono a dimenticarsene troppo spesso. Il sistema americano non ignora forme di investimento statale nelle scuole e università pubbliche, nei Community Colleges e simili; ma la presenza di scuole private è dominante e tanto più pericolosa da quando, sulla spinta delle logiche di mercato, le scuole preparatorie e secondarie, anche quelle di eccellente tradizione, si sono via via trasformate in «imprese» economiche e le grandi università in «Corporations».
È il caso di ricordare che la retta per gli studenti che frequentano le scuole medie private, dove si impartiscono insegnamenti preparatori di materie umanistiche, scientifiche e professionali (dai 6 ai 12 anni) è in media di circa 30.000 dollari all’anno (38.000 se gli allievi frequentano corsi speciali di «Academic Support Programs», cioè di corsi avanzati per coloro che pensano poi di andare al college) e che la retta per quelli che frequentano gli istituti superiori privati («High Schools») è di 35-40.000 dollari all’anno (50-60.000 per quelli che scelgono di vivere in comunità). Le rette universitarie sono naturalmente più alte.
Fra i testi del dibattito suscitato dalla pubblicazione dei due documenti americani mi piace citare, per il suo vigore polemico, l’editoriale di Thomas Frank, intitolato Course Corrections, nella bella rivista «Harper’s Magazine» dell’ottobre scorso (pp. 10-13). Frank, che è un intellettuale progressista e democratico, non risparmia critiche alla combinazione di velleità retoriche, buone intenzioni e vacuità di proposte che ritrova nei due documenti. Poi, con schiettezza, riporta il discorso sulla crisi delle scienze umane alle sue basi economiche e quindi sull’intero sistema politico della società statunitense. Gli studenti che scelgono, al termine del percorso scolastico, le scuole professionalizzanti, hanno investito, oltre alle notevoli somme delle scuole inferiori, circa 60.000 dollari all’anno per tutti gli anni della loro formazione universitaria (prima del dottorato). Se hanno fatto prestiti d’onore ci vorranno non pochi anni di carriera professionale per ripagare i circa 240.000 dollari spesi da loro o dai loro genitori, ma alla fine saranno soddisfatti. Nessuna meraviglia che la grande maggioranza degli studenti segua questa strada. Gli altri, che hanno scelto il percorso umanistico o quello scientifico, spendendo cifre esattamente uguali, si ritroveranno sì con una bella formazione culturale, ma con pochissimi sbocchi lavoratovi e con scarse prospettivi di ripagare i debiti fatti. Conclude Frank, rivolgendosi agli estensori del documento di Harvard: «Professori, smettete di far propaganda per le vostre istituzioni. Cambiatele. Afferrate le leve del potere e azionatele».
[Immagine: Simone Giaiacopi, L’uomo che legge, particolare (gm)].
Molto interessante Ceserani, come sempre. Il tema del resto ha una ricaduta amplissima. Su temi vicini vi segnalo questo video e video collegati: http://www.youtube.com/watch?v=xG8TNRgJYsk&feature=youtube_gdata_player
D’accordissimo sulla poco utilità della retorica civistica (ho lasciato a un terzo Non per profitto della Nussbaum, l’ho trovato stucchevole davvero).
Ma “afferrare le leve del potere e azionarle”? Come, come?
Mah, la tripartizione qui proposta, che poggia tutto sulla differenziazione tra discipline scientifiche e discipline applicativo-tecnologiche, mi pare molto discutibile.
In verità, se l’autore facesse riferimento invece che al corso di studi, ai singoli insegnamenti che concorrono a costituirli, si renderebbe facilmente conto che la distinzione non è così netta come egli sostiene. La fisica che studiano gli studenti di ingegneria è sostanzialmente la stessa di quella dei loro colleghi di fisica, ed anche gli altri corsi di studi, pur differenti nel senso di essere orientati per sbocchi professionali differenti, partono comunque da insegnamenti analoghi.
Se quindi la drastica distinzione proposta salta, salta mi pare tutto il discorso sotteso.
Il problema che qui si tratta mi sta molto a cuore. Sarà perché insegno italiano e latino in un liceo classico e dunque ho a che fare con discipline sommamente “inutili” in una scuola che molti considerano un “lusso da scioperati”. Va da sé che non ritengo affatto inutili le discipline che insegno e considero il liceo, classico e scientifico, dignitosissimi al di là di tempo e spazio. Trovo perniciosa e pericolosa e fuorviante la distinzione tra i saperi, in ogni forma essa sia presentata, perché sono dell’avviso che tutte le discipline nel loro insieme concorrano a formare in individuo pensante. È questo un punto sul quale è opportuno insistere con fermezza. Ho osservato decine e decine di studenti brillantissimi nelle mie discipline, eccellere ugualmente all’università in studi economici o giuridici o scientifici; li ho osservati parimenti, non senza timore invero, lanciarsi con passione verso lo studio della letteratura, dell’arte, della musica, della filosofia; i primi forse troveranno più facilmente un impiego, anzi sicuramente, ma siamo sicuri che la nostra società non abbia bisogno dei secondi? Perché dissuadere – eppure ho tentato, mi sono sentita in dovere di farlo! – uno studente dallo studio della storia dell’arte? se non la studia lui qui, in Italia, ma chi deve studiarla? Se ne può fare a meno di studiarla? E perché mai? A chi affideremo la cura del nostro immenso patrimonio artistico?
In merito ai pochissimi sbocchi lavorativi di chi affronta studi umanistici avrei molto da obiettare, mi pare un trito luogo comune, alla luce della ventennale esperienza mia e di tanti come me che lavorano non solo nel mondo della scuola (una delle vie più ardue, in realtà), ma nel mondo dell’editoria, del giornalismo, della pubblicità… Si tratta di essere più flessibili, di sapersi un po’ inventare, di guadagnare poco e in modo non stabile, ma non sottoscrivo affatto questa immagine dell’umanista condannato a indigenza, ininfluenza sociale e disoccupazione.
Non siamo negli Stati Uniti, paese nel quale i nostri studenti tendono a eccellere in tutti i campi, laddove se la sentano di tentare l’avventura; teniamo vivo e difendiamo il patrimonio immenso e GRATUITO di sapere e saper fare dei nostri licei, al di là di divisioni che appartengono in modo marginale alla storia culturale del nostro paese, laddove Dante, Machiavelli, Galilei e tanti altri, dimostrano senza tema di smentita che ogni steccato è vano per chi ha desiderio di conoscere.
L’intervento di Ceserani verte chiaramente su una problematica che coinvolge non solo l’Italia e non solo il modello di formazione scolastica, ma anche il modello di società che saremo in grado di immaginare per risolvere le gigantesche questioni economiche, ecologiche e sociali che il pianeta si trova ad affrontare. È in questo àmbito che si inserisce quella che una pensatrice statunitense, Martha Nussbaum, ha definito nei suoi saggi (cfr. il più recente, “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”, 2012) come «crisi dei saperi socratici», ossia dei saperi fondati su competenze non misurabili quali la capacità di argomentare e di riflettere, di confrontarsi e di mettersi in discussione, di assumere il punto di vista dell’altro, di elaborare soluzioni innovative rispetto ai contesti in cui sorgono i nostri problemi. Vale dunque la pena di individuare le cause che, nel passaggio epocale da un’economia di mercato ad una società di mercato, hanno determinato la crisi dei saperi socratici e posto in discussione il futuro degli studi umanistici. Orbene, le cause della crisi della cultura umanistica possono essere individuate in primo luogo, assumendo l’ottica della ‘lunga durata’, nella progressiva dissociazione fra discipline storico-letterarie e costruzione delle identità nazionali; in secondo luogo, nella diffusione di una cultura di massa, resa possibile dalle tecnologie audiovisive, che ha ridotto in misura notevole la funzione mediatrice ed orientatrice della scuola e dell’università nei processi di formazione delle nuove generazioni; in terzo luogo, a partire dall’ultimo trentennio, nella globalizzazione capitalistica e nel correlativo dominio, sempre più totalizzante, di una logica di mercato che nega ogni criterio di valore che non sia quello di scambio; in quarto luogo, in un disegno neoliberista ed oligarchico di destrutturazione delle società democratiche dell’Occidente e del loro sistema di valori. In effetti, se si riflette sulle continue riforme degli ordinamenti scolastici che negli ultimi venti anni hanno contraddistinto le politiche educative dei paesi occidentali e sul mutamento profondo che subisce la formazione scolastica nel passaggio da un’economia di mercato ad una società di mercato, non è difficile comprendere perché sia dato assistere oggi, negli Usa e in altri paesi occidentali, ad un tentativo di smantellamento dell’istruzione umanistica che, avendo il suo principio ispiratore in un rozzo utilitarismo di ispirazione benthamiana, considera la cultura un costo superfluo e fa della competenza tecnica e della divisione del lavoro un feticcio intangibile. Sotto questo profilo, un esempio di rilegittimazione degli studi umanistici è proprio quello offerto dal libro della Nussbaum, nel quale non solo si afferma che l’insegnamento delle materie letterarie e scientifiche deve essere salvaguardato rispetto a un’educazione incentrata sui saperi tecnici e specialistici, in quanto tale insegnamento rappresenta le finalità di una formazione culturale rivolta alla costruzione di una comunità democratica, ma si giunge a sostenere che esso ha una finalità economica indiretta, in quanto «l’innovazione richiede intelligenze flessibili, aperte, creative», «la letteratura e le arti stimolano queste facoltà» e, «quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta». Così, richiamandosi alla tradizione americana del pragmatismo di Dewey, la Nussbaum identifica nel suo ‘pamphlet’ l’insegnamento umanistico con il “metodo socratico”, ossia con l’istanza di un’indagine critica guidata dalla ragione ed autonoma rispetto ad ogni autorità imposta dalla tradizione. La tesi sulla necessità dei saperi socratici sviluppata dalla pensatrice statunitense dimostra come sia difficile elaborare una proposta teorica che sia in grado di legittimare oggi l’esistenza e il finanziamento degli studi umanistici, senza accettare come terreno di confronto le stesse premesse dei loro detrattori: senza, cioè, accettare l’urgenza, peraltro in qualche misura innegabile, di dimostrare alla politica e al mercato l’utilità pratica dei saperi socratici. Tuttavia, se è vero che bisogna andare oltre un utilitarismo di corto respiro, ciecamente efficientistico ed organicamente funzionale al potere economico dominante, è anche vero che non si deve buttare via l’acqua sporca assieme al bambino, poiché espungere dall’àmbito della conoscenza e dell’azione una prospettiva utilitaristica correttamente intesa vuol dire liquidare interamente il progetto della modernità: la rivoluzione scientifica, le scienze sociali, il ‘Welfare State’ e la tradizione del socialismo.
Del resto, la sfida che la crisi dei saperi socratici pone all’‘humanitas’ nasce oggi da due posizioni, diverse nelle motivazioni teoretiche ma convergenti nell’esito pratico: da una parte, il nichilismo che impronta le concezioni decostruzioniste secondo cui la realtà è sostituita dai testi e le diverse interpretazioni si equivalgono; dall’altra, l’ideologia del ‘politicamente corretto’ che si esprime nell’equazione fra democrazia liberale e saperi umanistici formulata dalla Nussbaum. Entrambe le strategie mirano a preservare uno spazio alla filosofia e alla letteratura all’interno di una logica utilitaristica. Per quanto riguarda le tesi decostruzioniste, le conseguenze che da esse derivano nel campo dei saperi umanistici sono semplicemente rovinose. La radicale demistificazione di ogni sapere disciplinare dissolve le ragioni tradizionali di legittimità degli studi umanistici: se la storia non insegna niente (è la drammatica domanda che si pone Pier Paolo Pasolini nelle “Ceneri di Gramsci”: «Ma come io possiedo la storia, / essa mi possiede; ne sono illuminato: / ma a che serve la luce?»), se la letteratura indulge ai cattivi sentimenti anziché sollecitare all’amor di patria, se la filosofia decostruisce ogni simulacro di verità, perché mai il governo dovrebbe finanziare gli studi umanistici? Da un punto di vista orgogliosamente aristocratico, si potrebbe sostenere che la vera sfida è quella di legittimare la cultura umanistica anche in quegli aspetti che con il nostro modello di società non hanno alcun rapporto: saperi che ‘non servono’ (né alle democrazie né al profitto). La legittimazione della cultura umanistica, si afferma secondo tale ottica, non va ricercata attraverso una faticosa rincorsa delle scienze o della tecnologia, della pedagogia o del mercato sul loro stesso terreno, ma va perseguita indipendentemente da ogni utilità pratica rivendicando le autonome peculiarità del sapere umanistico. Il limite di questa posizione è che essa risulta sostanzialmente sterile e improduttiva: non all’altezza della sfida che deriva, per l’appunto, dalla crisi dei saperi socratici.
In realtà, le vie che è necessario percorrere per attuare un riscatto e una rivalutazione dei saperi socratici sono altre. Finora la questione dell’utilità degli studi umanistici si è limitata a quella dell’utilità di questi studi per gli studenti. Ma ciò che ogni processo di trasmissione culturale chiama necessariamente in causa è l’eredità culturale di una comunità, la sua ‘tradizione’, ossia ciò che merita di essere trasmesso e conservato. Da questo punto di vista, non si può disconoscere che la cultura umanistica è un patrimonio estremamente prezioso per l’Italia, laddove questa constatazione non ha nulla di retorico, ma vale anche in termini molto secchi e pragmatici di politica economica. Può sembrare un paradosso, ma gli studi umanistici sono proprio ciò che oggi ci serve di più. La cultura scritta e il senso della storicità sono infatti le basi di un modello di educazione umanistica che appartiene in modo peculiare al nostro Paese: un modello tutt’altro che statico e conservativo, se è vero che, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, esso è stato integrato e potenziato con la filosofia e la storia della scienza, giungendo a configurarsi, grazie soprattutto all’opera preziosa svolta dalla scuola di Ludovico Geymonat, in termini dinamici e innovativi e facendo compiere alla nostra cultura un grande passo avanti verso il superamento della separazione tra la scienza, la tecnologia e gli studi umanistici.
In conclusione, se è vero che l’umanesimo non è un valore in sé, è altrettanto vero che esso ha svolto una funzione storicamente concreta quando è stato assunto come veicolo ideologico di classi o di gruppi sociali in conflitto con lo stato di cose esistente e quindi in cerca di un’espressione simbolica dei loro interessi e dei loro bisogni. In attesa che i conflitti reali riportino in primo piano forze sociali, politiche e culturali simili a quelle che nel passato hanno tentato di praticare quei valori di verità, giustizia ed eguaglianza che hanno caratterizzato prima l’umanesimo cristiano e poi quello socialista e comunista, si può per ora soltanto affermare che il futuro della ‘humanitas’ dipenderà dalla ‘humanitas’ del futuro. «Nell’uomo c’è molto», diceva Bertolt Brecht, «facciamo molto dell’uomo».
Da leggere anche Not for Profit di M. Nussabum. Un lettura davvero interessante sul tema.
L’idea di fondo è, molto semplicemente, di riservare lo studio delle materie umanistiche a due categorie umane: chi non ha di meglio da fare ( decorativi), e chi deve comandare uomini (gli strateghi).
Gli altri, meglio che tengano lo sguardo fisso sul solco sudato di servo sudor.
Segnalo infatti che a) proprio nel mondo anglosassone, diverse tra le scuole superiori private più elitarie reintroducono, nel curriculum di studi obbligatori, latino e anche greco b) nelle accademie militari anglo (West Point, Sandhurst, etc.) è obbligatorio, e molto seriamente condotto, lo studio della storia (non solo militare) e l’attenzione per i classici greco-latini.
Comunque bisogna dirlo, in Italia sinceramente in Italia non mi pare proprio che gli studi umanistici siano “minacciati” da quelli scientifici ( e non diciamo che i secondi hanno più “applicazioni immediate e vendibili” dei primi, l’Italia possiede un patrimonio senza pari al mondo di storia, arte e musica per il quale la gente fa la fila per pagare il biglietto…). Sembra anzi che la cultura “scientifica” venga non solo considerata “inferiore” alla cultura “umanistica” ma che non venga neppure considerata “cultura” tout court. Nel nostro paese scoprire che pochi studenti dopo la maturità ricordano cosa ha scritto di importante Torquato Tasso si ritiene una notizia negativa (ma oltre a dire a parole di conoscere opere specifiche bisognerebbe verificare le competenze linguistiche in generale, OCSE docet…) mentre scoprire che degli stessi studenti pochi sanno spiegare come si può scoprire il principio d’inerzia è visto come un semplice fatto che non tutti sono interessati alla fisica, come dire che è affare da manovali, utile per costruire ponti o lanciare missili ma che non avrebbe valore di per sé. Mi sembra un’impressione abbastanza diffusa, o sbaglio?
Segnalo comunque, sempre sul dibattito tra scienziati e umanisti negli Stati Uniti, il seguente articolo di Felipe De Brigard:
http://www.3ammagazine.com/3am/the-new-paideia/
Ciao.