cropped-Boltanski-Flying-Books.jpgdi Furio Jesi. A cura di Andrea Cavalletti

[Questo saggio è uscito sull’ultimo numero di «L’ospite ingrato» (Quodlibet), dedicato a Walter Benjamin].

«La natura è triste perché è muta. Ma introduce ancora più a fondo, nell’essenza della natura, il rovescio di questa affermazione: è la tristezza della natura che la rende muta. Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio, e questo è infinitamente di più che incapacità o malavoglia di comunicare. Ciò che è triste si sente interamente conosciuto dall’inconoscibile»[1]. Procedendo come Benjamin ha insegnato, dunque trattando «un testo letterario [quello di Benjamin ora citato] al modo stesso in cui i commentatori medioevali trattavano la Bibbia»[2], è lecito osservare che la «versione interlineare»[3] della frase qui riportata si trova nei primi due versi della Lorelei di Heine:

Ich weiß nicht, was soll es bedeuten
Daß ich so traurig bin.

Non so cosa debba significare
Che io sia così triste.

Le traduzioni correnti per lo più omettono il corrispettivo letterale di quel sollen (Non so cosa significhi […]) o comunque rendono in modo elegante, meno greve, il valore di una forma tedesca così consueta (Non so cosa mai significhi […]). Ma il passo di Benjamin incontra la sua versione interlineare in Heine solo se non ci si lascia sfuggire quel «dovere», sollen, che, quando all’ascolto risulta più greve del necessario, indica la contrapposizione netta fra l’essere «triste», traurig, e il «significare», bedeuten. Essere triste è l’opposto di dover significare, nel senso di bedeuten. «Vive, in ogni tristezza, la più profonda tendenza al silenzio», e bedeuten è un «significare» che esclude il silenzio: un silenzio pieno di significato, un silenzio significante o significativo non è il vero silenzio di cui parla Benjamin, è solo il silenzio di chi potrebbe o vorrebbe parlare, ma non può o non vuole farlo. Il silenzio di cui parla Benjamin è la forma in cavo del lamento e «il lamento è l’espressione più indifferenziata, impotente della lingua, che contiene quasi solo il fiato sensibile»[4]: se questo silenzio divenisse voce, sarebbe lamento e perciò cosa ancor più lontana dal significare di quanto lo sia il puro silenzio. Il vero lamento in cui consiste la Lorelei di Heine è privo di significato ed è contro il significare; «contiene quasi solo il fiato sensibile», e quel di più che contiene oltre al fiato sensibile è la negazione oggettiva, in assoluta «cosità», della possibilità che il fiato sensibile, nel lamento, significhi.

Solo così può essere vero il naufragio che apparentemente conchiude la lirica di Heine, di fatto lo è fin dal primo verso. Ciò che Benjamin diede di grande e di sovversivo alla critica letteraria è proprio questo: l’esempio di un’inversione dei termini, per cui il saggio diviene non pretesto, ma spazio privilegiato entro il quale il testo per eccellenza, canonico, classico, appartenente al passato, si fa versione interlineare di un testo sacro che è il testo del saggio. Così «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”. Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo»[5]. È però un esempio (e il riconoscimento di un privilegio) segnato dalla tristezza, quella stessa che Benjamin, contraddittoriamente, indica all’origine del «procedimento con cui il materialismo storico» ed egli stesso hanno «rotto i ponti»[6]. Questa contraddizione è il vero senso esemplare delle Tesi di filosofia della storia come smentita del continuum e, nel medesimo senso, esemplare, da apologo, è il suono – «quasi solo il fiato sensibile» – della scrittura del saggista che riesce a fare della propria pagina lo spazio tristemente privilegiato entro il quale il passato diviene, nella sua «cosità», versione interlineare del presente: «Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere»[7]. Quando un uomo muore, per un istante subentra, dinanzi agli occhi dei vivi, al suo corpo vero un corpo falso: poi questo pure scompare e, visibili, restano solo le ceneri. Il pericolo – dice Benjamin – è scegliere solo la tristezza o solo l’Inno alla gioia: «Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono»[8]. «Al concetto di un presente che non è passaggio, ma in bilico nel tempo ed immobile, il materialista storico non può rinunciare […] Lo storicismo postula un’immagine “eterna” del passato, il materialista storico un’esperienza unica con esso. Egli lascia che altri sprechino le proprie forze con la meretrice “C’era una volta” nel bordello dello storicismo»[9]. Il lamento privo di significato di Heine è l’eco di un Märchen che «non esce dalla testa». Solo se il significare viene abbandonato, il «C’era una volta», come puro lamento, rende l’uomo nel naufragio, «signore delle sue forze: uomo abbastanza […]»[10].

© Marta Rossi Jesi, Sofia e Stefano Jesi

Nota al testo

Il testo come versione interlineare del commento è stato pubblicato postumo nel volume a cura di Enzo Rutigliano e Giulio Schiavoni, Caleidoscopio benjaminiano (Istituto italiano di studi germanici, Roma, 1987, pp. 217-20).

Sulla base del carteggio di Jesi ci sembra possibile datarne la stesura con una certa precisione all’inizio del 1980. Così il 28 gennaio di quell’anno Jesi risponde infatti a Tito Perlini, che lo aveva invitato a collaborare a un volume su Benjamin e la sua fortuna italiana:

Caro Tito,

eccoti una nota un po’ extravagante su Benjamin, mio unico modo di rispondere al «cosa ne pensi?».

L’unico mio contributo esplicito (e di un certo numero di pagine) allo studio di W. B. è il capitolo del Mito che mi avete segnalato. Per estremo scrupolo bibliografico, allego una schedina in cui ho elencato alcune mie rifl essioni (!) su Benjamin non occasionali.

La «schedina» non è conservata tra le carte di Jesi, mentre la «nota un po’ extravagante» (l’espressione ricorda quella usata una volta da Jesi a proposito del suo Spartakus. Simbologia della rivolta: «è completamente “fuori tema”») ci sembra appunto riconoscibile nel testo che segue, di fatto una vera e propria ricapitolazione teorica dell’intenso e costante confronto con Benjamin che durava ormai da un decennio. Se al «contributo esplicito» del capitolo 4.5 di Mito (1973), dedicato alla polemica di Benjamin contro le riabilitazioni reazionarie di Bachofen, possiamo oggi affiancare solo un importante frammento dello stesso periodo (pubblicato col titolo Ermetismo di Benjamin, in «Cultura tedesca», numero monografico dedicato a Furio Jesi, a cura di Giorgio Agamben e Andrea Cavalletti, 12, 1999, pp. 145 sgg.), si può qui ricordare che già nel 1971 Jesi proponeva all’editore Ubaldini un volume su Benjamin per la serie «Che cosa ha “veramente” detto». Scriverà invece (dopo il Rousseau, 1972) un Pascal (1974) dove il riferimento alle Tesi di filosofia della storia ha un ruolo centrale così come in altri testi scritti tra il 1973 e il 1976 (per esempio il grande saggio su Bachofen, Bollati Boringhieri, 2006, o quello, non meno importante, Conoscibilità della festa, ripubblicato in Il tempo della festa, Roma, Nottetempo, 2013). È ispirandosi al modello benjaminiano del montaggio di citazioni che Jesi costruisce i suoi saggi ed elabora una personale teoria della «conoscenza per composizione». A partire dal 1976 (l’anno di Esoterismo e linguaggio mitologico, ora Quodlibet, 2002), egli si concentra e rifl ette sul testo del 1921 Per la critica della violenza e soprattuto sui due grandi saggi Sulla lingua e sul Compito del traduttore: il suo ultimo progetto, il libro Traduzione e duplicità dei linguaggi, di cui restano solo alcuni capitoli e materiali preparatori, è anche un’originale ripresa di questi ultimi testi nel segno dell’equivalenza «pura lingua» (reine Sprache) – «mito».

A.C.


[1] W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua degli uomini, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. e introd. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 65-66. Parrebbe una citazione rilkiana, ma per semplice ragione di date non può esserlo: è praticamente da escludere che Benjamin conoscesse a quel tempo le ancora inedite lettere di Rilke a X. Kappus (le cosiddette Lettere a un giovane poeta); e i Sonetti ad Orfeo non erano ancora stati scritti.

[2] L’osservazione, di Adorno, è citata da Solmi nell’Introduzione ad Angelus Novus, p. X.

[3] W. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus cit., p. 50: «La versione interlineare del testo sacro è l’archetipo o l’ideale di ogni traduzione».

[4] W. Benjamin, Sulla lingua in generale cit., p. 127.

[5] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus cit., p. 74.

[6] Ivi, p. 75.

[7] Ivi, pp. 74-75.

[8] Ivi, p. 74.

[9] Ivi, p. 81.

[10] Ibid.

[Immagine:  Christian Boltanski, Flying books (gm)].

1 thought on “Il testo come versione interlineare del commento

  1. “Ich weiß nicht, was soll es bedeuten / Daß ich so traurig bin.”
    Grazie per avere pubblicato questo testo, così bello. E così giusto.

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