cropped-Guidi-strada-ovest.jpgdi Giorgio Falco

[Questo articolo è già uscito su «La Repubblica»].

Appena finito di leggere Storia di un oblio, di Laurent Mauvignier (Feltrinelli, pagg. 64, euro 8, traduzione di Yasmina Melaouah), ho cercato qualche informazione sul fatto di cronaca che ha ispirato il libro. Il testo non necessitava di altro, volevo soltanto conoscere gli elementi tralasciati dallo scrittore francese. Mauvignier ha scritto un libro eccellente, partendo da – e ignorando – quelle notizie che cercano di colmare il vuoto dopo un evento tragico, quando la bulimia informativa spinge all’accumulo, e ascoltiamo o leggiamo con la vana speranza che ogni dettaglio possa aprire la piccola breccia e rivelare senso, invece sentiamo solo la ripetizione modulata su minime variazioni, percezione fisica di nausea, e ogni parola aggiunta ci allontana da noi stessi. Ecco i fatti che non si trovano nel libro: Michael Blaise, 25 anni, si aggira nel centro commerciale Part Dieu, al numero 18 di rue du Docteur Bouchot, a Lione. Entra nell’ipermercato Carrefour. È un pomeriggio di fine dicembre 2009, tra Natale e Capodanno, il periodo in cui perfino all’interno di un ipermercato c’è un po’ di tristezza per il Natale già passato, sebbene la malinconia sia stemperata dall’ennesimo prossimo evento del calendario commerciale. A Michael Blaise non interessano le bottiglie di vino e champagne, lui si accontenta di una lattina di birra. La stappa nella corsia dell’ipermercato e beve fino a quando quattro vigilantes lo circondano. Sono lavoratori di un’azienda esterna. La Biblos fornisce la sicurezza dentro l’ipermercato, forse anche nel resto del centro commerciale. Le cronache racconteranno semplicemente di quattro vigilantes dell’ipermercato. Non è la stessa cosa. Le grandi aziende appaltano quasi tutti i servizi che considerano marginali – pulizia, sicurezza, assistenza clienti – ma si aspettano risultati eccellenti a basso costo.

La pressione è tutta sui lavoratori. Con questo, sia chiaro, non voglio giustificare i quattro vigilantes, che prendono Michael Blaise per un braccio e, quando lo afferrano, Michael Blaise cessa di essere un cliente, diventa altro; suppongo sia già altro mentre appare in uno dei monitor in bianco e nero, nell’ufficio dove è seduto un uomo che da ore fissa l’opacità delle immagini, frammenti di mondo, che lui cerca di ricomporre in un quadro lineare, privo di asperità, un’immensa pianura lussureggiante di colori e merci, attraversata dai carrelli della spesa, spinti dai corpi. L’uomo avvisa i colleghi, ricevono l’informazione negli auricolari tutti collegati fra loro, qualche economica tecnologia Fabriqué en Republique Populaire Chinoise. Nonostante la grandezza dell’ipermercato, i quattro conoscono i reparti alla perfezione, come se fossero i luoghi della loro infanzia. I vigilantes prendono Michael Blaise per il braccio “e il procuratore ha detto che un uomo non può morire per così poco, che non è giusto morire per una lattina di birra che uno ha tenuto in mano troppo a lungo”. Comincia così il libro di Mauvignier, con una e, come se il testo fosse strappato al corpo, al flusso inarrestabile che compone le solitudini di ognuno, tenute insieme dalla lettera e. Michael Blaise comprende che la propria vita vale trentatré centilitri di malto d’orzo, e acqua: “io valgo, valevo, una vita deve valere un po’ più di una birra, un pacco da sei? da dodici? da ventiquattro birre, no, che dici? è troppo?”.

La morte è narrata con misura in questo canto funebre, chiara fin da subito, nel luogo dove è rimossa sistematicamente, non a caso avviene nel retro, lontano dagli occhi dei clienti, sotto lo sguardo asettico di una telecamera di controllo. Mauvignier evita qualsiasi riferimento esplicito all’omicidio lionese, così che la tragedia dell’ipermercato francese possa essere la morte in qualsiasi luogo. Dosa con bravura le continue oscillazioni tra lo stato di violenza latente e reale – in cui tuttavia sembra quasi possa esserci una possibilità, almeno nel testo, di salvezza – e il dramma già avvenuto, ma il fluttuare nella lingua, i piccoli scostamenti dei punti di vista creano uno stato claustrofobico, consono all’ambientazione del testo. Per i vigilantes immersi nel paesaggio “dove c’è un finto muro vegetale e un’aiuola sintetica”, il corpo dell’uomo circondato è la sola direzione reale da seguire, i quattro colleghi trovano in quel corpo la risoluzione momentanea delle loro vite. Magari i quattro non si sopportano, ma davanti al corpo finalmente si coalizzano, ognuno offre il proprio contributo alla creazione del cadavere, e, come nell’incipit del libro, non si riesce a capire chi inizi per primo, tutto sembra già nato e appena nato, “di fronte allo stupore di un cadavere”. La voce narrante continua a rivolgersi all’ipotetico fratello della vittima, “dovrai invecchiare per due, è così, dovrai prenderti cura di te stesso come non ha saputo fare lui”.

Ci identifichiamo con il morto, certo, e con i quattro vigilantes, durante i momenti quotidiani in cui ci sentiamo peggio. In ogni istante il mondo che abbiamo deciso di vivere, o che semplicemente ci è capitato vivere, si può manifestare davvero d’improvviso. Così, mentre nel centro commerciale una madre fotografa il bambino dentro la giostra cavallina – gioia sì, ma azionata da moneta – , alle casse una nonna contratta il lecca lecca con la nipote, e appena oltre il confine dei prodotti irrompe la morte, e di conseguenza, la vita.

[Immagine: Guido Guidi, da Strada Ovest 04.02 (Linea di Confine) (particolare) (gf)].

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