di Andrea Cortellessa
Se c’è un assunto passato in giudicato, riguardo a Gadda, è che fu scrittore grandissimo, sì; ma, si aggiunge, non certo «un narratore». Così concludeva Edoardo Sanguineti uno dei suoi ultimi articoli (letto su un suo ricordo del settimanale «Gli Altri»): non so se consapevole di essere d’accordo, su questo, con Pier Vincenzo Mengaldo e i suoi Giudizi di valore (1999). I nostri due massimi lettori di poesia condividevano un’idea di «narrativa», insomma, insensibile alla clamorosa soluzione di continuità rappresentata da Gadda (il «“vero” passo del racconto», per Mengaldo, non è «ingorgo ma sviluppo»). Questa pelosa ipostasi di Gadda «non-narratore» lo dimidia, come autore; ma soprattutto ci riconsegna un’idea di narrativa asettica, piallata, stolidamente taccagna. Quella oggi dominante, infatti, le ubique classifiche di vendita e i premi più televisionati (e dunque «prestigiosi»). Nel museificare Gadda lo si è espunto, di fatto, dallo sviluppo (o dall’ingorgo) della letteratura contemporanea.
Di contro avvertiva Gianfranco Contini, profetico di andazzi imminenti, nel 1985: «il Gadda narratore rischia perfino di essere più temerario del Gadda stilista». Se si sale all’orchestrazione della Cognizione del dolore e del Pasticciaccio, non ci sono dubbi. Ma un terreno di confronto più equo, diciamo, si dà nella narrativa breve, nella musica da camera di Gadda: dove a volte davvero si limita «a dilatare e giustapporre “poemetti in prosa”» (Mengaldo). Ma ciò poteva avvenire nei libri più legati alle riviste fiorentine, non nei testi raccolti una prima volta, nel 1953, col titolo grandioso Novelle dal Ducato in fiamme – spiegando a Contini, proprio: «novelle (= notizie) dal ducato (= dallo stato del duce merda) consegnato alle fiamme: (della lussuria demenziale, della follia narcissica, e delle bombe al fòsforo)». Sottolineando cioè come si trattasse di testi scritti nell’imminenza, durante lo svolgimento, e alla fine da tregenda, della guerra del «duce». E infatti questo libro di Gadda, fra i massimi interpreti della guerra vissuta al fronte (la Prima), è l’unico suo che esplicitamente metta in scena la Seconda – vissuta nelle retrovie da sfollato, bombardato e atterrito (basti Prima divisione nella notte, sulla battaglia navale di Capo Matapan).
Per capire il tormentato sviluppo del libro, che dieci anni dopo muta di struttura e acquista il titolo definitivo (mutuato dall’ultimo racconto) di Accoppiamenti giudiziosi, è ora fondamentale la nuova edizione approntata – dopo lavori ultraquindicennali – da due filologi di razza (allievi più o meno diretti di Dante Isella) come Paola Italia e Giorgio Pinotti. I quali nel ricchissimo apparato di note (che riportano goduriosi frammenti e «poemetti in prosa» inediti, eliminati da Gadda per equilibrio narrativo – il suo equilibrio, ovvio – o convenienza: come la satira del letterato «proustiano» Anacleto Baistrocchi, trasparente controfigura del protettore e «negriero» Alessandro Bonsanti) raccontano non solo la gimkana dell’Ingegnere fra i suoi editori (che se lo contendevano ben prima del boom del Pasticciaccio); ma anche la più delicata vicenda per cui racconti-capolavoro come l’esplosiva satira del San Giorgio in casa Brocchi o il formidabile Incendio di via Keplero (che reinventa la topografia milanese come il Pasticciaccio farà con quella romana e laziale; e la cui prosa «simultanante» e multiprospettica davvero non sfigurerebbe nel confronto con Joyce) risultano «torsi» di più estesi progetti narrativi di stampo naturalista – di quello che una volta si definì «minimo Zoluzzo di Lombardia». Come dimostra l’inedito trattamento cinematografico del racconto eponimo, restaurato da Pinotti in appendice.
Il processo per cui in Gadda il racconto (racconto-racconto, spiacenti) deriva da un progetto con caratteri così distanti, è lo stesso per cui in generale nella realtà i «fatti» (scrive Gadda ricapitolando in Accoppiamenti giudiziosi sue annose teorie) cadono come «dure pere, dall’albero di natale d’una precedente sospensiva, denominata “il possibile”» – cosicché noi si dia «il nome di destino» al loro «postumo logico». La narrativa gaddiana è fra le poche che si siano sottratte, con radicalità, al determinismo e alla consequenzialità che nel Novecento hanno accomunato classicismo e avanguardia. E si rivela, così, la più simile alla vita. Perché il suo senso lo acquista solo a posteriori: ogni volta sorprendendoci come ci sorprende la realtà, allorché ne facciamo davvero esperienza.
Carlo Emilio Gadda, Accoppiamenti giudiziosi 1924-1958, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Adelphi, pp. 485, € 27.00
(Apparso già su «Tuttolibri – La Stampa» del 1 ottobre 2011)
Lo trovo curioso il giudizio di Sanguineti sulla narratività di Gadda, visto che le sue prove narrative si chiamano “Capriccio italiano” e “Il gioco dell’oca”. Quanto poi al mengaldiano “vero passo del racconto” definito dallo sviluppo e non già dall’ingorgo, direi che la grande narrativa del ‘900 è ingorgata più che mai, e che bisogna arrivare ai nostri giorni per trovare il “disingorgo”, ossia la storia ombelicale che fila liscia verso i “prestigiosi” premi letterari ma… de gustibus
Spero che la filologia di Italia e Pinotti (allievi più omeno diretti di) sia stata sufficientemente dimostrativa di fronte a questioni in cui gli stralci gaddiani possono favorire la minuzia labirintica rispetto a verifiche più sostanziali e ad ampio spettro
@ Matilde “…verifiche più sostanziali e ad ampio spettro…”
e cioè? non ci la sciccosì tra(se)color che sonso spesi
Secondo me il metro da utilizzare è il seguente: le metafore, le immagini, le visioni raccontano qualcosa, e cioè fanno avanzare l’azione (che può essere anche semplicemente un’azione intellettuale, conoscitiva eccetera) oppure sono, appunto, ingorgo?
Dante è stilista perfino maggiore di Gadda, ma in lui ogni immagine fa avanzare l’azione; le immagini di Gadda invece ristagnano. Gadda parla con sé stesso, Dante parla col mondo; e come Dante, tantissimi altri narratori più modesti ma o’connorianamente “incarnati”.
Gadda, prigioniero nella ma(ta)ssa dei vocaboli, è uno spettro che si dissolve dopo averci a lungo e ammirevolmente circuito, ma senza aver davvero raccontato. E’ un acrobata senza rete che non rischia mai di cadere perchè è già caduto, già afono. E in lui “romanziere” l’esibizionismo ha talvolta la meglio sul genio.
Secondo me in Gadda l’azione è contenuta nell’atto di scrivere.
Lo schema gaddiano è lontano dal procedere scorribando narrativo. I capolavori di Gadda sopracitati riescono a far entrare il narrativo nella pagina gaddiana, ma in chicchi, centellinati e soppesati. Gadda non ha il dono della “superificialità”, non può incrunare dentro la penna fatti e fatti e fatti senza scatenare il suo torchio verbale, che ha bisogno di più tempo, più calma per pasteggiare colla “realtà”; Gadda col narrativo è come un fumatore sorvegliato dalle figlie che non possa oltrepassare le 4-5 sigarette al giorno. Joyce-padre non era pure lui così?
In questa ottica, il Gadda è grande narratore, narratore scelto e di scelte.
Quando poi parliamo di Gadda, almeno io, parlo del Gadda saliente, dell’innovativa poetica gaddiana, perché altrimenti, volendo mettere al centro le qualità dello scrittore, è indubbio che Gadda nasca narratore e in questo tutù danzi come un ballerino, ma un ballerino che ci saremmo ricordati come ci ricordiamo di Capuana; era nelle sue corde, ma Gadda è qualcosa di molto altro e l’uso che fa del narrativo è perfettamente dentro la planimetria della sua arte.
Curioso che Cortellessa concordi pienamente in questo articolo con ciò che sostiene da anni Carla Benedetti.
Che cosa vuol dire narrare? Come si fa a rimpiangere la linearità referenziale del racconto, in un’epoca in cui la scienza stessa non fa altro che mettere in dubbio tutte le altre nostre finzioni di linearità e consequenzialità?
@ Gerace
Vero?
Ma per quale motivo si deve forzatamente “narrarre”? Per quale motivo non ci si riesce a liberare delle vecchie categorie che, essendo dei semplici strumenti, non possono e non devono avere un valore ontologico, ma fenomenologico? E perché dover a tutti i costi andare a spulciare tra frammenti appunto “volutamente eliminati da Gadda per equilibrio narrativo” per dimostrare che anche lui aveva delle “cadute” nella narrativa di stampo naturalista? Come fosse non si sa che scoperta inusitata. Come dire: ah, t’ho beccato! Magari non li aveva eliminati “per equilibrio narrativo”, ma perché la scrittura è un faticoso (faticosissimo nel caso di Gadda) processo di costruzione e composizione e molta parte in questo processo di costruzione è appunto esercizio ed esperimento e, pur contribuendo in modo decisivo alla forma finale, ne è poi sottesa e va eliminata.
Può certo essere utile nel ricostruire il processo della composizione e del pensiero. Ma nulla di più. Perché non rispettare le volute e assai consapevoli scelte di Gadda?
Carmelo Bene aveva proprio ragione quando, parlando dell’Ulisse di Joyce, dice che riesce a raccontare non raccontando. Parla dell’incredibile immediatezza di Joyce. Per Gadda il suo giudizio è quello di “una grande ingegneria meccanica”, ma io applicherei le sue parole su Joyce anche a Gadda. Certo, Joyce crea dalla sua prospettiva di esule da un’Irlanda ormai sognata e interiorizzata come idea platonica. Gadda dall’Italietta tetra del fascismo. C’è in effetti una certa differenza di prospettiva.
Anche le loro due nature erano opposte, ma entrambi erano mossi da una perdita, da una ferita originale interiorizzata. E in quel luogo non può esserci “narrazione”. Credo che il ruolo che Gadda ha avuto nella nostra letteratura debba ancora trovare la sua giusta lettura.
@ Donnarumma: Altroché!
Curioso perché? Lo diceva Contini nel 1985. E dopo di lui (nonché, detto diversamente, prima di lui – penso addirittura a una delle primissime voci in bibliografia, Vittorini nel 1931) tanti altri. Ma al di là dell’ipse dixit basta leggerlo, Gadda, e da dire viene proprio questo. Specie oggi, almeno a me. Infatti l’ho detto. Saluti.