cropped-Roland-Barthes.jpgdi Enrico Filippini

[«A me Filippini è sempre apparso come l’uomo che nel momento giusto si poneva le domande giuste», ha detto una volta Alfredo Giuliani: il che, specie se riferito a un uomo che dell’intervista ha fatto un singolare ed efficace strumento di indagine culturale, non è poco. Ma «intervista» è in fondo un termine che va un po’ stretto alle conversazioni di Filippini. «Con un minimo di strategia – ha scritto Sanguineti – si riuscirebbe a leggere tutte le interviste di Filippini come una serie di autointerviste: intervistava se stesso».  Ne è ora testimonianza il primo dei due volumi degli scritti di Enrico Filippini, Frammenti di una conversazione interrotta, in cui Castelvecchi propone, per la cura di Alessandro Bosco, un’ampia scelta commentata delle interviste che tra il 1976 e il 1987 Filippini realizzò per «Repubblica» con alcuni dei più importanti protagonisti della scena culturale del secondo Novecento. La conversazione con Roland Barthes, che presentiamo qui ai nostri lettori, fu originariamente pubblicata il 26 maggio del 1979].

Parigi – Roland Barthes. «Caro Roland Barthes…». È talmente amabile, cortese e soprattutto «lui», che viene spontaneo apostrofarlo così. Al telefono mi ha detto che si sente a terra, vuoto, come un citron pressé, un limone spremuto. Ma adesso arriva tutto bello liscio e sorridente, appena asimmetrico sotto il baschetto blu. Si accende un «cigarillo» sorridendo, e la sensazione è: di agio, di piacere, di felicità – sopra una lontanissima mestizia.

È immediato anche il piacere di sedergli accanto. Come Foucault, Barthes è professore al Collège de France: 26 ore di lezione all’anno aperte a tutti, cioè idealmente a tutta la nazione: è il «collegio della Francia». Ma a differenza di Foucault, che emana la chiusa energia dei grandi amministratori del Sapere, Barthes sembra sempre ritornare da un perversissimo festino. È il suo festino permanente con la letteratura, il suo ininterrotto «godimento», la sua laboriosissima «jouissance». Agli occhi di un altro, Barthes «è» la letteratura, anche se quest’idea un po’ iperbolica potrebbe dispiacergli.

Caro Roland Barthes, come le dicevo mi sto occupando degli intrecci misteriosi tra linguaggio, scrittura, politica, storia… Lei ha sempre abitato nel linguaggio, nella scrittura. E mi dicono che molti giovani oggi si riconoscono in lei. Ma non posso pretendere che me lo spieghi lei, il desiderio dei suoi lettori…

Mi guarda con gratitudine, sorridendo.

Ormai il suo lavoro copre una trentina d’anni…

«Sì, ho cominciato a pubblicare dopo i trent’anni perché nella mia giovinezza ho passato sei anni in sanatorio. Sei anni di malattia. Vivo con sei anni in meno…».

I suoi primi articoli sono del ’47, su Combat. Il suo primo libro del ’53, Il grado zero della scrittura. Il primo «grande successo» del ’57, Mythologies (in italiano Miti d’oggi).

…ci si potrebbe entrare da mille porte. Ma facciamo così: tutto il suo lavoro è attraversato dall’interesse ai mezzi di comunicazione di massa…

«Sì, ma un interesse ambiguo. Il mio vero interesse costante è stato per la scrittura, la pratica letteraria, che implica una maggior sinuosità…». Se c’era una parola che avrebbe riassunto tutto, ecco, l’ha detta: «sinuosità». «I mass-media erano un oggetto da decifrare e da criticare. L’ho fatto prima con un linguaggio marxista o meglio sartriano, al tempo delle Mythologies, poi con un approccio che si voleva scientifico, al tempo della semiologia».

Dice «al tempo della semiologia» come se parlasse di secoli lontani. Allude agli anni ’64-’67, quando imperava lo strutturalismo e lui cercava di trovare un metodo «scientifico» per capire cosa fanno gli uomini quando parlano, quando «producono senso».

«I mass-media mi interessano sempre. Ma quando ero giovane ero più combattivo. E il mondo era diverso. Oggi vedo di più le ambivalenze di quella cultura, odiosa e amabile… Oggi, o io invecchio, o i mass-media hanno più presa: li vivo come una minaccia per la mia libertà. Il mio atteggiamento è un po’ quello del si salvi chi può…».

Dunque si sente molto lontano dalle Mythologies?

(Vi si parlava di tutto ciò che ingombra la vita quotidiana, dal filetto al sangue ai settimanali alle poetesse-bambine; di tutto ciò che nella vita sembra «naturale» e non lo è perché è un effetto di linguaggio).

«C’è sempre in me una pulsione mitologica; se così posso dire; ma oggi non c’è più un unico sistema mitologico. Per una ragione storica e politica. È cambiata la figura della Sinistra. Ci sono mitologie a destra, ma anche a sinistra. Il potere della cultura delle mitologie attraversa le lotte di classe e si mescola alla delusione verso i regimi comunisti… È difficile situarsi. Si può adottare un atteggiamento combattivo, oppure un atteggiamento più filosofico e più saggio: di presa di distanza… C’è anche un problema di struttura psicologica personale: io non amo la violenza, è un problema che non so risolvere. E poi, che cosa può fare lo scrittore? I mezzi di un tempo sono logorati, firmare petizioni è derisorio, scrivere vuol dire scrivere per gli intellettuali: è acqua sulla gomma, ça glisse, scivola via… Ecco, non so che fare, sono disorientato».

Ma forse anche i media scivolano via: sulle masse…

«È una riflessione che andrebbe fatta. I media forse non mordono. Ma creano immagini. Le società avanzate attuali hanno un consumo enorme di immagini e un consumo minimo di credenze. Nelle società islamiche avviene il contrario. Così, le società liberali sono meno fanatiche, ma meno autentiche. Sono dominate da un immaginario generalizzato quale non è mai esistito al mondo… Persino la Chiesa cattolica: l’immaginario è intatto, la credenza…».

Quando R. B. (così gli piace firmarsi) ebbe finito di analizzare, prima coi mezzi del marxismo sartriano («Il mio marxismo» dice «era comunque un marxismo aberrante; mi ci ero strusciato contro attraverso il trozkismo, che era una maniera di non essere stalinisti..»), poi con quelli della semiologia e dello strutturalismo («per me», dice, «era una pratica di demistificazione dei discorsi, ma al super-io politico era succeduto il super-io scientifico»…), scrisse un piccolo libro che potrebbe essere l’insegna di tutta la sua opera: Le plaisir du texte, il piacere del testo. «…Il testo che tu scrivi deve fornirmi la prova che mi desidera. Questa prova esiste: è la scrittura. La scrittura è questo: la scienza dei godimenti del linguaggio, il suo kamasutra (e di questa scienza c’è un solo trattato: la scrittura stessa)…». Era il 1972. Ed eccolo qui il segreto: tutto il lavoro del «secondo Barthes», S/Z (analisi di un racconto di Balzac), Sade, Fourier, Loyola, Nuovi saggi critici, persino un Roland Barthes, un libro su se stesso, è dedicato alla «scienza dell’agio dei godimenti del linguaggio». Il segreto dei suoi festini, e dell’inaudita libertà di cui sembra godere, è tutto qui.

E poi c’è anche una libertà della letteratura…

«Quando mi allontanai dalla semiologia, si trattava di ritrovare il soggetto che parla, che dice, che scrive. La semiologia vive in qualche modo della morte del soggetto. Ma per quanto riguarda la libertà della letteratura, la letteratura non è più sostenuta da immagini positive nella società. E lo scrittore non è più un valore. Per esempio: i suoi libri non si vendono. In Francia l’ultimo scrittore è stato forse Malraux. Sartre è stato una cerniera: tra lo scrittore e ciò che è venuto dopo, il polemista. Il fatto stesso che si parli di me come di uno scrittore, significa che la società francese ha bisogno di scrittori, ma non li sa o non li può produrre e non li sa riconoscere».

Oltre che dei mass-media e della letteratura, lei si è sempre occupato anche della storia. Sto pensando al suo amore per Michelet, il grande storico della Rivoluzione francese.

«Michelet, è esatto. Ma prima di tutto la sua storia è una storia allucinata. In secondo luogo è una grande meditazione sulla morale. In terzo luogo la sua, più che una storia, è un’etnografia della cultura francese: si occupa del corpo, del nutrimento, dell’abbigliamento… È il tipo di storia che mi attrae».

Ma Michelet indicava anche un grande appuntamento con la storia.

«Sì, formidabile. Ma poi, nella memoria culturale, è diventato uno scrittore radical-socialista, laico, di un progressismo che oggi appare a molti molto sospetto».

Vuol dire che gli appuntamenti con la storia non sono mai quelli che uno immagina che siano?

«In un certo senso… Forse».

Lei aveva preso di recente un appuntamento settimanale coi lettori del «Nouvel Observateur»…

«Sì, ma ho interrotto. Non ero soddisfatto. Ho scritto quindici cronache e poi ero stanco. C’era un’interrogazione sul mio lavoro, e riguardava di nuovo i mass-media. Volevo far sentire la mia voce, una voce non gloriosa, non perentoria, non obbligata alla retorica della forza e della sicurezza come quella dei giornalisti, che pure hanno molto talento: discreta, esercitata su piccoli problemi, la voce di uno scrittore…».

Non ha funzionato?

«Non ero soddisfatto».

Sono difficili gli appuntamenti con la storia?

«Non so. A vent’anni c’è il mondo. Ci si può pronunciare. Poi passa il tempo. Dopo un certo tempo, trascorso chissà dove, non si sa se il mondo è cambiato o se sono io che sono cambiato… È difficile pronunciarsi».

Cioè, la storia non esiste?

«Proprio così. La storia è la biografia».

Si scusa. Deve telefonare. Stavo per domandargli un migliaio di cose. Sapendo già «da dove» sarebbero venute le risposte. Ha scritto di sé, in quel libro su Roland Barthes: «A volte ha voglia di lasciar riposare tutto quel linguaggio che c’è nella sua testa, nel suo lavoro, negli altri, come se il linguaggio fosse anch’esso una delle membra affaticate del corpo umano; gli sembra che se si riposasse dal linguaggio, si riposerebbe tutto intiero, grazie a un congedo concesso alle crisi, agli echeggiamenti, alle esaltazioni, alle ragioni, ecc. Vede il linguaggio nelle parvenze di una vecchia donna affaticata…».

Torna dal telefono. Sorride. Ci sono tanti modi di essere contemporanei della propria storia, che non esiste. «Caro Roland Barthes…».

[Immagine: Roland Barthes].

 

14 thoughts on “Il piacere perverso della letteratura. Intervista a Roland Barthes

  1. Ringrazio @ Niccolò Scaffai per avere pubblicato questa bella intervista. Non è sempre facile capire cosa intenda dire Barthes – è uno scrittore insieme troppo prudente e troppo avventato. Il risultato di questo suo temperamento (per usare un termine d’epoca) è che finisce per scrivere e parlare quasi solo per allusioni: Barthes suscita così il lettore ad adottare il suo stesso temperamento, che è una sorta di scetticismo imprudente – e forse era quello che gli interessava fare. C’è però una cosa che dice chiaramente in questa intervista; dice che «non c’è più un unico sistema mitologico». E si rende conto che capire questo significa vedere più le ombre proiettate sulla vita dallo studio della letteratura e della cultura, che non la luce che questa attività può gettare sulle nostre vite e quelle degli altri.

  2. R.B. afferma il declino delle “grandi narrazioni” come istituzioni capaci di produrre senso nella nostra società.Dopotutto, lui stesso, che ci ha insegnato a nominare il piacere del testo semiologicamente inteso, è stato affascinato dalla cultura del “frammento” ben prima che fosse diffusa la parcellizzazione del sapere prodotta dai moderni mezzi di comunicazione di massa. Ho sempre trovato davvero entusiasmante la sua capacità di lettura del mondo e la sua familiarità quasi carnale con il linguaggio.

  3. In una lettera inviata a Sebastiano Timpanaro il 3 aprile del 1966 Cesare Cases così commentava un giudizio espresso dal suo corrispondente: “Forse esageri nel definire Lévi-Strauss un vero asso del ciarlatanismo o neociarlatanismo, perché una solida base scientifica ce l’ha […]. E’ vero che d’altra parte pecca ancor più gravemente chi possedendo il rigore scientifico se ne serve a scopi di ciarlataneria, mentre è meno riprovevole il caso del ciarlatano puro, che la scienza non l’ha mai nemmeno annusata. Tale è p. es. lo strombazzatissimo Roland Barthes, che è stato qui in questi giorni e che mi sembra di un’ignoranza davvero monumentale, benché insegni alla scuola ‘des Hautes Etudes'”. Credo che Cases avesse colto nel segno e che la produzione barthesiana degli anni successivi abbia confermato questo giudizio. Personalmente devo tuttavia essere grato al critico francese per avermi fornito, con il suo centone intitolato “Frammenti di un discorso amoroso”, un equivalente colto dei foglietti che avvolgono i cioccolatini della Perugina: equivalente che si rivelò quanto mai suggestivo e fruttuoso nelle lunghe conversazioni telefoniche intercorse con una ‘bas-bleu’ alla quale facevo la corte…

  4. Valutare Barthes con criteri di erudizione e credibilità accademica è un segno di vera idiozia. Poi Lévi-Strauss ciarlatano, vabbè. Certo che l’invidia è proprio il tratto antropologico peculiare dell’intellettuale italiano.

  5. Grazie Niccolò. Uno dei miei più cari maestri chiamava in privato Barthes “asinone”. La sua “deriva” dalla semiologia al piacere del testo è spesso apparsa come un’abiura, un po’ imbambolata, e segno o sintomo di una crisi o spappolamento di un’intera generazione. Da un po’ di tempo però sono portato a credere che – al di là degli eccessi fra liquidazioni e celebrazioni – nell’ultimissimo Barthes, nel suo saggismo narrativo e diaristico, vi sia una modesta verità ereditabile, praticabile oggi: l’identificazione percettiva del lettore con l’opera come risorsa energetica e cognitiva dell’esperienza letteraria. Nel suo diario, all’epoca dei corsi al College de France, il primo agosto 1978 Barthes scrive “La letteratura, è questo: che io non posso leggere senza dolore, senza soffocamento di verità, tutto ciò che Proust scrive nelle sue lettere sulla malattia, sul coraggio, sulla morte di sua madre, sulla sua tristezza, ecc”.La Recherche di Proust nella “Camera chiara” di Barthes non è solo materiale interstestuale ma anche apparizione fantasmatica e vitale. (Cfr. G. Mattia Gallerani, Roland Barthes e la tentazione del romanzo, Morellin, 2013, pp. 183-85)

  6. Questa “deriva”, Emanuele, spaventa gli accademici (gli strutturalisti poi!) perché mostra che nel loro lavoro è compresa una sensibilità da lettore, diversa dagli strumenti tecnici. Todorov lo ha detto meglio di me: “Si può parlare di letteratura solo facendo letteratura”.

  7. Vorrei ringraziare @ Emanuele Zinato e @ Lorenzo per avere postato le loro riflessioni. Forse influenzato dal titolo del post, ho sottolineato solo il lato oscuro di quell’esperienza ambivalente che sono lo studio e la lettura di testi letterari – che come ogni esperienza vera sono un’apertura al rischio. Sono d’accordo con @ Emanuele Zinato: l’importanza della lettura di testi letterari come esperienza per l’ultimo Barthes (e anche per Sontag), è forse una verità ereditabile e praticabile – è di sicuro ciò su cui scommettono gli approcci cognitivi alla letteratura (anche se lo fanno all’interno di un orizzonte filosofico diverso: ma qui il discorso porterebbe troppo lontano).

  8. “Qualche responsabilità sulle condizioni di rischio di sempre maggior marginalizzazione,
    ovvero di pericolo, per dirla con Tzvetan Todorov, in cui versa
    specificamente la nostra disciplina, è legata all’idea di lettura accademica decisamente
    ristretta al testo letterario, il cui studio rimane sostanzialmente
    indifferente al lettore concreto e all’atto della lettura inteso come fenomeno
    unico e irripetibile, limitando di fatto le potenzialità didattiche della letteratura.
    Tale impostazione è divenuta nel corso della seconda metà del xx secolo
    pratica invalsa anche nella scuola, nella quale sono stati schierati, e si continuano
    a utilizzare, tutti gli strumenti messi a disposizione dagli approcci critici
    più significativi del Novecento, e in particolare quelli legati al formalismo
    e allo strutturalismo. Il pericolo in cui versa oggi la letteratura (di perdita del
    ruolo sociale, vanificata la sua funzione coesiva e identitaria, se vogliamo; e
    soprattutto individuale, nei confronti della persona: formativo, educativo, immaginativo,
    socializzante e altro di cui dirò più avanti: insomma, per la vita)
    sarebbe in qualche modo anche legato alla degenerazione di pratiche didattiche
    divenute eccessivamente inaridenti, volte a insegnare (e così perpetuare)
    la disciplina critica in sé piuttosto che a valorizzare le opere e il rapporto del
    lettore/studente con queste. Questa chiusura degli studi letterari alla lettura
    come atto concreto, psicologicamente e storicamente situato, che coinvolge la
    mente e il corpo del lettore, per quanto funzionale all’identificazione della disciplina
    e alla sua stessa epistemologia, può limitare le potenzialità didattiche
    della letteratura” (Natascia Tonelli, Lo sguardo dell’italianista: letteratura, scuola, competenze, in I Quaderni della Ricerca Loescher 6. Per una letteratura delle competenze, gratuitamente scaricabile all’indirizzo: http://www.laricerca.loescher.it/index.php/quaderni/89-quaderni/706-i-quaderni-della-ricerca-06).

    Ecco, per rivedere il nostro modo di insegnare la letteratura, leggere o rileggere (o leggere e rileggere) Barthes non può che fare un gran bene. Insegnanti di Tfa, per favore, datelo da leggere ai futuri colleghi. Al posto dell’unità didattica.
    Il lettore, l’esperienza, il piacere del testo, il rapporto col testo, il rapporto impossibile col testo, l’asintoto infinito, lo scacco infinito del rapporto col testo.
    Altro che “centralità del testo”: in sé formula (per certi versi) ineccepibile, purtroppo troppo spesso scusa per infilzare il testo alla bacheca delle farfalle, così almeno sta fermo, il maledetto.

    Cito non letteralmente il tema di uno studente (non mio, ma mi garantiscono della sua intelligenza e anche applicazione allo studio): alcuni insegnanti non ci chiedono solo di fare il programma, di studiare la letteratura e di “studiare a memoria Dante” (sic), per fortuna ogni tanto ci fanno un po’ di educazione civica, così un po’ di realtà entra in aula.
    Vi rendete conto? L’educazione civica più reale della letteratura! La letteratura come istituzione triste e grigia incapsulata nel programma! Rifletto, riflettiamo.

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