cropped-foto_gruppo-1.jpgdi Clotilde Bertoni

[Si parla tanto del 68. Ma spessissimo solo per deplorare la sua scia di sangue, i suoi cattivi maestri, i cupi anni di piombo venuti dopo. In questi giorni, per esempio, la Rai trasmette il secondo episodio della fiction Gli anni spezzati, uno dei punti politicamente ed esteticamente più bassi mai raggiunti dalla televisione pubblica italiana. E allora, torniamo su un momento caldo di quegli anni, la contestazione del 77, attraverso due pezzi dimenticati, di un buon maestro, Gianni Rodari, e di uno scrittore allora giovane, Daniele Del Giudice, usciti su “Paese Sera” l’11 febbraio 1977. Per ricordare che quella contestazione aveva ispirazioni diverse, comunque animate da consapevolezza e passione. Che la frangia violenta era minoritaria. E che la scia di sangue fu voluta, o manovrata, appunto dal potere contro cui insorgevano quei ragazzi, che Rodari amava tanto. Dedichiamo il ripescaggio ai ragazzi di adesso, e con gli stessi sentimenti. Questo articolo è già uscito su «Between» (III, 6, 2013)].

In un periodo in cui il Sessantotto e i suoi sviluppi sono più che mai sotto i riflettori, e più che mai sommersi di cliché e fraintendimenti, val la pena di ridare un’occhiata a due articoli di Gianni Rodari e Daniele Del Giudice, legati a una (assai meno rievocata) stagione successiva, il Settantasette: usciti al principio di quell’anno, sul «Paese Sera» dell’11 febbraio. Sono entrambi concepiti come commenti a caldo sulla situazione del momento; ma entrambi, in modo diverso, vanno oltre, illuminando significativamente la lunga durata, la complessità, le differenti ispirazioni della protesta giovanile.

Si è all’inizio di un periodo rovente: stanno infuriando le polemiche contro la riforma dell’università progettata dall’allora ministro dell’Istruzione Franco Malfatti (che tra le altre cose attacca la liberalizzazione dei piani di studio, e propone l’aumento delle tasse di frequenza); gli studenti sono sempre più divisi tra quelli uniti nei collettivi autonomi, e ostili a tutte le aggregazioni politiche tradizionali, e quelli che ancora si riconoscono nella linea della sinistra e dei sindacati; i primi hanno sfilato la sera del 9 febbraio, i secondi, appunto insieme ai sindacati, la mattina del 10; nei giorni successivi la spaccatura diverrà sempre più insanabile (il 17 si verificherà l’episodio più famoso di quell’epoca, la cacciata di Lama dalla Sapienza). Il pezzo di Rodari, tra i principali animatori di «Paese Sera», appare in prima pagina come corsivo sui fatti del giorno, mentre quello di Del Giudice, giovane firma del quotidiano, figura in «Paese Sera–Libri», e riflette sui nuovi approcci del movimento studentesco alla lettura. 

Sono articoli molto utili per rivedere gli stereotipi e le mistificazioni che impazzano attualmente. La cronaca vivissima di Rodari – che riporta slogan, coglie al volo gesti, traccia fulminee connessioni (citando tra l’altro un film di qualche anno primo sulla contestazione americana, R.P.M. di Stanley Kramer) – mette in luce la passione e la serietà che animavano anche quella fase, punta estrema di anni di protesta ora spesso bollati tutti come una sgangherata precipitazione verso la violenza. E l’altrettanto imperversante tendenza a vedere quegli anni come una confutazione non delle gerarchie o dei vecchi canoni letterari, ma della cultura tout court, è contraddetta dalla messa a punto di Del Giudice, che sottolinea il fervore culturale, a volte troppo ingenuo e categorico ma intenso, del Sessantotto, e d’altronde valuta con equilibrio l’atteggiamento molto più irriverente e insofferente verso i libri che contrassegnava il Settantasette, provando a suggerirne le potenzialità (la fine delle antiche soggezioni ai classici, il primato della ricezione).

Di entrambi, inoltre, colpisce l’apertura. Quella di Del Giudice, che irride i facili anatemi, e alle conclusioni categoriche (gli après nous le déluge di Arbasino, con cui del resto Arbasino va avanti a tutt’oggi, e magari fosse il solo) preferisce la libertà e la flessibilità delle ipotesi. E ancor più quella di Rodari che, da sempre pedagogista appassionato, ormai cinquantasettenne (e prossimo a una fine prematura), conferma il suo amore per le generazioni del futuro, considera con fiducia anche il movimento degli autonomi, mantiene la speranza davanti al disorientamento in corso; e – lui ora bersagliato dalle presuntuose e frettolose condanne dei neoliberali nostalgici – invita a osservare e ascoltare, «senza presunzione e senza fretta».

Continua su «Between»

[Immagine: Tano D’Amico, Assemblea all’Università di Roma, 1977].

 

9 thoughts on “Dal ’68 al ’77. La contestazione giovanile nello sguardo di due scrittori

  1. Eh, sì. Ma diranno che Rodari era abituato a parlare solo ai bambini. E che Daniele Del Giudice era troppo giovane. E loderanno ancora la vergognosa e togliattiana tesi di Asor Rosa sulle “due società”. Provate a ripubliccarne qualche stralcio, su! Non prendetevela solo con Arbasino. Asor Rosa fa scuola a tutt’oggi (ultimamente aveva dato qualche buon suggerimento anche a Napolitano…) . Ed ha anticipato il futuro di sempre: da una parte i baroni ( ora anche ex- sessantottini; ce ne sarà qualcuno che si riconoscerà nella foto?) e dall’altra i precari a vita.

  2. Il ’77 mi abbaglia, sempre.
    Già di per se è un trauma, personale e collettivo. Non sopporto inoltre la pesante catasta di banalità e di luoghi comuni sopra depositata i, che ammorba la memoria, involgarisce il pensiero e l’esperienza e impedisce qualsiasi elaborazione del trauma. I due pezzi di Rodari e Del Giudice, , anche per la “presa diretta” degli slogan, fanno viceversa risuonare nel presente con freschezza e senza troppi filtri i fatti di febbraio, esordio del ’77.

    Mi vengono in mente due “nodi” e due luoghi da proporre alla discussione e alla lettura:

    1) la “cacciata” d Lama a Roma alla Sapienza, in febbraio appunto, con tutto il portato simbolico e le conseguenze non solo su quell’anno, ma fino a noi. Emblema di una rottura e svelamento, denudamento di una contraddizione.
    -2)l’arte ma anche la vita, a Bologna al Dams nel 77, di Andrea Pazienza: forse nei suoi disegni è nascosta la risposta, polisemica e ambigua, ai quesiti aperti dal punto uno.

  3. Senza gli articoli di Rodari e di Del Giudice il discorso di Clotilde Bertoni resta monco. Comunque il 68 fu un fenomeno quasi planetario, il 77 un fenomeno solo italiano, quasi esclusivamente romano e bolognese. In quell’arco di tempo si consumarono le esperiene della sinistra extraparlamentare ed eterodossa. L’atteggiamento molto irriverente nei confronti dei libri e della cultura era già insito nel movimento del 68. Basta leggere quello che rimane il saggio più lucido di quella particolare stagione: Contro l’università di Guido Viale.

  4. Grazie a tutti per questi immediati commenti, che offrono subito nuovi spunti.
    Per Muraca: certo, il mio discorso non è che un breve preambolo agli articoli di Rodari e Del Giudice che ho ripescato da “Paese Sera” e che abbiamo ripubblicato su “Between”; li si può leggere cliccando sul link che compare qui in fondo.
    L’irriverenza del 77 verso la cultura fu molto diversa da quella del 68, come appunto Del Giudice sottolinea; beninteso poi, tra i due movimenti ci sono altre radicali differenze.

  5. Daccordo. I due movimenti furono molto diversi, e occorrerebbero diverse pagine per spiegarlo. Io ho voluto semplicemente sottolineare una delle principali differenze.

  6. Gli articoli di Rodari e di Del Giudice sono veramente molto interessanti. Non penso di acerli letti a suo tempo, anche se seguivo “Paese sera”.

  7. @ Clotilde Bertoni

    Non intenda la domanda che sto per farle come mera provocazione. Mi chiedo però quale obiettivo abbia oggi questo ripescaggio delle «ispirazioni diverse, comunque animate da consapevolezza e passione» delle contestazioni del ’68 e del ’77 contro – questo è il sottinteso che colgo – «la frangia violenta [e] minoritaria» che – in esse o ai margini o al di sopra o in parte contro – vi operò.

    Provo a fare delle ipotesi:

    1. Si tratta *soltanto* di una generica, affettuosa, nostalgica dedica-augurio «ai ragazzi di adesso, e con gli stessi sentimenti»?

    2. O *soltanto* di una normale revisione storico-letteraria del recente passato, che rientra nella routine di un lavoro accademico ritagliato sul secondo Novecento?

    3. O contiene *anche* un (velato) suggerimento politico ai ragazzi d’oggi, affinché riprendano *soltanto* le “belle bandiere” finite nella polvere (per responsabilità di chi?) e lascino perdere le “cattive” (quali potrebbero essere oggi? Il grillismo? Il forconismo? Il sovranismo?)?

    Nel mio precedente commento ho tirato in ballo il nome di Asor Rosa, uno dei mostri sacri della cultura di sinistra italiana che ben rappresenta una delle sue parabole: quella – semplifico –“ operaista-piccista-golpisto-democratica”.
    L’ho citato per vedere se qualche commentatore reagiva. E per contenere sia l’eventuale piega amarcord che gli interventi di Rodari e Del Giudice potrebbero incoraggiare sia la strisciante riproposizione, che mi è parsa di cogliere nella presentazione dei loro testi, della (solita e debole per me) tesi dei movimenti, che sarebbero sempre “innocenti” *per natura* (Ahi Rousseau!), contro le minoranze, che sarebbero invece, sempre *per natura*, burocratiche, prevaricatrici, giacobine (Ahi Robespierre! Ahi Bakunin!). Specie se marxiste, leniniste, gramscian-non-togliattiane, maoiste, polpottiste (e stop, per il momento).

    Aggiungo che spiegare «la scia di sangue», che poi è seguita negli anni Settanta (già a partire dalla decapitazione del primo movimento, quello del ’68, e dal fallimento dell’ipotesi di costruzione di una «nuova sinistra»), come «voluta, o manovrata, appunto dal potere contro cui insorgevano quei ragazzi, che Rodari amava tanto» mi pare lettura consolatoria e generica.(Se non si ragione su cosa sia questo “potere”, su chi lo esercita e chi lo subisce; e non si dice da quanto tempo dura «la scia di sangue» e chi o addestra i macellai o gestisce e distribuisce qua e là i mattatoi da cui essa proviene; e se le democrazie l’arrestino o semplicemente la deviino verso le loro periferie, ecc).

    Amici-che ( compagni/e è termine fuori uso) il Novecento è finito male e il XX secolo continua a ingrossare «la scia di sangue» ( e non solo) . Come non si può pensare al 1917 in Russia tacendo di quel che venne dopo ( e non per sola colpa del ’17), non si può pensare mai più il ’68 o il ’77 tacendo quello che è venuto dopo (e non per sola colpa del ’68 o del ’77). Guardiamoli ’68- e ‘77 nella interezza della storia di cui fecero parte; e magari spingendo lo sguardo anche più indietro (o molto più indietro). Pensiamola tutta la storia. Non ci tagliamo la nostra fettina speranzosa, scartando le fettine bruciacchiate o disgustose o persino repellenti.

    Attendo un suo approfondimento. Ovviamente “da blog”.

  8. Caro Abate, le assicuro che nel mio intervento non ci sono sottintesi né riproposte striscianti né intenzioni di condannare le minoranze, né tantomeno pretese di dare suggerimenti politici ai ragazzi d’oggi (non ne sarei mai in grado). L’unico obiettivo era quello dichiarato: riproporre due testi dimenticati, mai più riediti (per quanto ne so) e, come ho provato a dire nel preambolo, anche un po’ utili a combattere una certa vulgata sugli anni Settanta, pericolosa non per chi, come lei e gli altri commentatori intervenuti, conosce benissimo quel periodo, ma per altre persone meno informate o più smemorate.
    Beninteso, poi, si tratta di un’utilità parziale, limitata. Come dice giustamente lei, di una fettina. Bisogna andare oltre, certo: ritornare anche su fettine di sapore diverso; e come sempre dice lei, ragionare sulla natura del potere di quegli anni, interrogarsi sulla durata della scia di sangue, guardare più indietro e anche molto più indietro, riflettere d’altronde su cosa è venuto dopo, pensare la storia nella sua interezza.
    Ma per fare questo, almeno per come la vedo io, ci vuole tanto tempo, tanta riflessione e anche tanto spazio. Circa quanto lei ipotizza, posso dirle che no, al momento non sto facendo nessun lavoro sulla seconda metà del Novecento, finora ho lavorato e lavoro su tutt’altro; però è un periodo che mi interessa, e me ne occupo quando posso, con interventi, come questo, molto circoscritti. Lancio qualche spunto e mi fa piacere se, come in questo caso, viene raccolto anche polemicamente, se apre una discussione: ma per come la vedo, le discussioni servono a confrontarsi, a rimettere in gioco le idee, non a tirare le somme.
    Anche se la seconda metà del Novecento diventasse il mio oggetto di lavoro principale, procederei lentamente, per tasselli. Del resto così vanno avanti solitamente i lavori di ricerca, e nessuno da solo cambia il mondo; semplicemente, messi insieme, a volte possono servire: e, mi creda, per me – come per tutte le persone coinvolte in questo blog, direi – non sono mai routine ma passione.

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