cropped-Fortini.jpgdi Ennio Abate

[Questo intervento è apparso su «L’ospite ingrato»]

Con la doppia esperienza di occasionale e non professionale datore e ricevente di pareri su testi di poesia, leggo con curiosità un prezioso libretto dal titolo lunghissimo: “Meglio peccare fortiter”. Poeti e versificatori, ritardatari e aggiornatissimi nei pareri di lettura di Franco Fortini. Edito in questo 2013 da Pacini (Ospedaletto di Pisa) – un’ottantina di pagine, in copertina una paginetta con una decina di nomi di poeti nella nitida grafia fortiniana e una sua foto da giovane (1948), chino e come in agguato, su un’Olivetti Lettera 32 (se non sbaglio) – è stato preparato da Marianna Marrucci e Valentina Tinacci. Le due studiose, già curatrici di Un giorno o l’altro, prima parte del suo «diario in pubblico», hanno attinto all’Archivio Franco Fortini dell’Università di Siena, che conserva ben 500 pareri di lettura da lui stesi per Mondadori, Il Saggiatore, Einaudi e Feltrinelli su testi – editi e inediti – di scrittori – noti o ignoti – attivi nel periodo che va dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta; e hanno messo a disposizione dei lettori il materiale di una loro prima ricognizione, limitata alle opere di poesia.

Il libro ha una Nota di inquadramento di Luca Lenzini dello stesso Centro Studi Franco Fortini; e si articola in una Premessa delle curatrici, cinque capitoletti che rendono conto del materiale e dei criteri di selezione, un’appendice di schede fotocopiate dall’originale e, infine, una puntuale bibliografia di riferimento per lettori volenterosi.

Questi scritti di Fortini sono brevi, folgoranti a volte, sempre letterariamente accurati, mai riconducibili a un denominatore comune; e comunque contigui allo stile del Fortini saggista ed epigrammista. E sono la prova – ecco la “sorpresa” che dà un altro colpetto all’abusato stereotipo dello scrittore ideologico e sempre “col ditino alzato” – di una intensa capacità di ascolto e di «una particolare attenzione per la persona che sta dietro ai versi».

Prima domanda: cosa cercava Fortini nei testi letti da consulente editoriale? Marrucci e Tinacci indicano tre elementi: l’autenticità del contenuto o della materia “pre-poetica”; l’unità del tono o dell’organizzazione del testo; un severo controllo della materia linguistica e ritmica.

Fortini apprezza persino il diarismo, se si presenta come moto iniziale verso l’autentico e non si limita a parlare dei “casi propri” o a scorciatoia per aggirare la fatica della scrittura poetica. Ed è pronto, se c’è, a cogliere l’autenticità anche sotto la «rozzezza». Sembra perciò dire: senza vissuti autentici e profondi e una loro relazione col mondo, la poesia ce la sogniamo. Se il dato personale non viene “bruciato” per diventare altra cosa (secondo Fortini, per afferrare almeno un di più di «conoscenza dell’umano»), si spremono parole, ma il succo che viene fuori è quello del narcisismo e basta.

Cerca poi la qualità delle immagini e delle parole. Per Fortini, scrivono le curatrici, «la poesia ha a che fare con la precisione, l’esattezza, anche la durezza dell’espressione». È per questo che «fa continuamente cozzare, anche nel particolare campo dei giudizi editoriali, la precisione con l’imprecisione, la nitidezza con la nebbiosità».

Seconda domanda: cosa, invece, non sopportava? La «sciatteria linguistica e ritmica», la simulazione di «passioni e sentimenti inesistenti, o troppo superficiali e generici» dell’io, la trascuratezza nel rapporto con il lettore, specie se ammantata di pose oracolari; la «letterarietà» fumosa, scolastica, decorativa, consolatoria o dedita ai buoni sentimenti. Sull’ altro versante, quello del noi, però, contrastava anche i tentativi di usare la poesia come «sponda retorica per un gruppo politico», fosse pure radicalmente «anti-establishment» o intenzionalmente “democratico”. Poiché per lui, in poesia, le posizioni ideologicamente più avanzate non erano, di per sé, più produttive delle conservatrici o arretrate.

Il criterio unitario che guida questi pareri, anche alla luce della sua poetica generale, potrebbe essere così riassunto: se scrivere poesia è comunque “peccare”, ci si assuma tutta la responsabilità e si abbia il massimo del coraggio. Perciò niente estetismi, versi carini o gradevoli o esangui, «effusività senza freni, “verbiage irrefrenabile”, la pletora, la chiacchiera fuori controllo». In poesia «è meglio peccare fortiter». Questa la formula “protestante” che, desunta da un parere del 1959, è stata ripresa emblematicamente nel titolo del libretto. Il richiamo è all’ onestà della scrittura. Non bisogna ingannarsi o ingannare. C’è una realtà – quella interiore di chi scrive, quella in cui tutti siamo inseriti – da rispettare.

Da qui l’attenzione di Fortini verso gli ambienti d’appartenenza dei poeti esaminati, il valore storico dei testi, i modelli poetici di riferimento del passato e del presente (il «vento delle tendenze»). Non sopportava – questo soprattutto tra anni Cinquanta e inizio dei Settanta – «lo scimmiottamento di modelli malamente orecchiati e l’aggiornamento imparaticcio». Mentre, tra anni Settanta e Ottanta, furono i versi ipercolti e persino sapienti, ma spesso puro involucro privo di «ragione poetica», il bersaglio più colpito.

Tra i vari giudizi – spassosi, lungimiranti, ironici e polemici, esenti sia da preoccupazioni ideologiche che dalle«pastoie dell’accademichese» – ­ne cito uno soltanto. Dei versi della Merini dice:«mi fan venire in mente quelle chiese moderne di Roma che si vedono nei film di Fellini, enfasi novecentesca, scarti ungarettiani, materiali scelti, comunque costosi, ma se poi vai a vedere, c’è una esecuzione frettolosa, da inaugurazione o da fiera campionaria».

A volte – è il caso dei primi pareri per la Mondadori – ci troviamo di fronte a vere e proprie recensioni. Altre volte ci sono analisi dettagliate di qualche passaggio della raccolta esaminata. Ambivalente sembra il suo atteggiamento verso la poesia scritta da donne: da una parte l’incoraggia; dall’altra non ne tace quelli che per lui sono limiti: la chiusura nel quotidiano, la “lagna esistenziale”, la patina letteraria posticcia. Non ha, invece, incertezze nell’individuare sia la novità di poeti come Zanzotto e Pagliarani (nel 1962 accolti nella collana sperimentale Il Tornasole della Mondadori) sia nel valorizzare un poeta già consolidato come Carlo Betocchi; e paradossalmente proprio perché «petit maître» del passato.

Vorrei concludere con una minima riflessione sulle difficoltà di dare e ricevere un parere su una raccolta di poesia. Nel primo caso è evidente che si tratti di un difficile esercizio di potere, di autorità. Ma anche richiedere quel parere e, ricevutolo, dare la giusta risposta è difficile esercizio di potere. Ci sono rischi su entrambi i fronti: di respingere o accogliere, sì, in base ad una propria visione del mondo e della funzione della poesia nel mondo, ma anche a più impalpabili e sotterranei pregiudizi; di adagiarsi su un’approvazione autorevole o bloccarsi per un rifiuto.

È alla luce di questo problema spinoso che ogni incondizionata approvazione di questi pareri fortiniani mi pare precipitosa. Sia per la semplice ragione che solo adesso questi pareri cominciano ad essere esplorati; e ci troviamo di fronte ad un piccolo, sia pur significativo, assaggioin assenza di una visione d’insieme. Sia perché non si può dimenticare che, pur essendoci, è vero, buone ragioni per stare più dalla parte del giudicante che dei giudicati, qualcuno dovrà pur assumersi la difesa d’ufficio dei “diavoli”, cioè degli autori liquidati o “rimandati a settembre”. Del resto, noi abbiamo soltanto i pareri di Fortini e ignoriamo (per lo più) i testi da lui esaminati. A me parrebbe, tra l’altro, interessante conoscere anche le eventuali repliche dei giudicati o i pareri di altri giudici.

Una piccolissima obiezione finale alle curatrici: spesso i medesimi giudizi sull’uno o l’altro autore ritornano con troppa frequenza nelle varie pagine. Il diverso contesto del discorso sembra a me giustificare solo in parte la loro ricorrenza e disperdere l’attenzione del lettore.

2 thoughts on “Sui pareri di lettura di Franco Fortini

  1. Mi compiaccio per la pubblicazione di questo intervento su Franco Fortini, che assume anche il significato, a vent’anni dalla sua scomparsa, di un doveroso tributo ad una delle maggiori figure della poesia e più in generale della cultura italiana del secondo Novecento. Sul tema dell’ascolto, posto giustamente in rilievo da Ennio Abate, vale allora la pena di riferire la testimonianza, che ho appreso da fonte attendibile, di un giovane che ebbe la fortuna di essere suo allievo. Questi ricordava il professor Franco Fortini, insegnante di italiano alle scuole superiori, che in un’epoca di scapigliato anticonformismo sessantottino entrava in classe con il suo impeccabile completo blu, su cui risaltavano ancor più gli argentei capelli e la montatura dorata degli occhiali: un professore che dava del lei, mentre gli studenti avrebbero voluto dare del tu a tutti i docenti. Lo stesso giovane, che confessava di non aver capito molto delle lezioni di Fortini, esposte nondimeno con trascinante eloquenza e intarsiate di aneddoti personali, ricordava pure che l’insegnante-poeta talvolta leggeva i suoi versi agli allievi, versi scritti magari la sera prima, dopo aver corretto i compiti. E confessava quanto gli piacevano quelle immagini incise, nitidamente classiche, quella poesia che, pur nella severità della forma, non dissimulava né le occasioni della sua origine né il bisogno, così fortemente sentito dal poeta, di riportare sulla pagina i problemi e i conflitti della realtà esterna.

  2. Non so se lo studente di cui parla Eros Barone sia proprio Franco Romanò da cui raccolsi nel 1995, a un anno dalla morte di Fortini, questa testimonianza. Penso sia comunque interessante farla conoscere.

    …QUANDO ENTRO’ IN CLASSE IL PRIMO GIORNO…
    di Franco Romanò (1)

    Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere.
    Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò per un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:
    “ Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito Socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”
    Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative, il silenzio era palpabile, denso, tesissimo. Quando ebbe finito di scrivere aprì tranquillamente il libro e cominciò la lezione. Ci accorgemmo subito che non leggeva nulla, parlava divagava creava collegamenti continui fra un autore e l’altro, una situazione e l’altra. Alla fine mi chiesi se fosse stata una lezione di storia o di letteratura italiana oppure di qualcosa d’altro che non capivo. Una volta uscito lui nella classe si scatenò il pandemonio. Gli schieramenti nacquero subito, io li seguivo un po’ defilato, non ero politicizzato, allora, il discorso di Fortini sul marxismo mi aveva lasciato indifferente; scrivevo già poesie e racconti allora e l’unica cosa che ricordavo del suo discorso – anzi che mi martellava dentro in continuazione – era proprio che il mio professore di lettere era un poeta. Non pensavo ad altro.
    Per il giorno dopo ci aveva annunciato una lezione di storia per tutte e due le ore. Entrò in classe e ci disse di alzarci, saremmo andati nell’aula di proiezione della scuola. Per due ore filate ci mostrò film e documentari sulla condizione operaia ai primi dell’ottocento, le prime manifestazioni operaie, la nascita dei sindacati, filmati inediti sulla rivoluzione bolscevica. I suoi interventi erano rari, secchi molto didattici, miravano a dare riferimenti spazio-temporali. Alla fine di quella lezione così anomala (mai era accaduta una cosa del genere in cinque anni di superiori), tornammo in classe e lui mise sulla cattedra una montagna di materiali: volantini, giornali, riviste, semplici fogli di una pagina, fotografie. “ Potete prendere ciò che desiderate, ma non ne siete obbligati… ma mi raccomando di restituirmeli perché sono materiali storici preziosi.”.
    Le sue lezioni erano imprevedibili, a volte entrava in classe e si metteva a recitare interi pezzi dei Sepolcri oppure della Commedia dantesca, oppure un idillio di Leopardi, girando per la classe a testa bassa quasi senza guardarci. Partiva da quelle recitazioni per iniziare il suo commento, non leggeva mai, parlava a braccio ma con un rigore tale da lasciar supporre che si fosse imparato a memoria cosa dire. Non seguiva il programma ma spaziava fra un autore e l’altro, seguiva percorsi suoi con una sicurezza di esposizione e chiarezza assolutamente formidabili. Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava.
    Dopo un mese di scuola ci annunciò che subito dopo il primo compito in classe avrebbe distribuito un questionario cui dovevamo rispondere. Si trattava ci disse di alcune domande sul suo insegnamento: voleva che noi esprimessimo un giudizio, dei suggerimenti e critiche in piena libertà: potevamo firmare il questionario o lasciarlo anonimo. La classe non diede peso alla cosa. Pensavamo tutti al tema, un vero incubo con un insegnante così. Chissà cosa diavolo si inventerà, il giorno prima ne discutemmo, cercammo anche di stanarlo in qualche modo ma lui niente. Passai tutto il pomeriggio a ripassare tutto quello che avevamo fatto, mi chiesi cosa diavolo poteva inventare e il mattino dopo come tutti, attesi con ansia il momento del suo ingresso in classe. Fortini si mise in piedi in mezzo all’aula e cominciò a dettare: “Scrivete una lettera di richiesta di lavoro ad una banca.” Nessuno aveva scritto niente, tutti guardavano verso di lui. “Non siete ragionieri? E allora è di questo che dovrete occuparvi, la letteratura ed altro vi serviranno per la vostra cultura, per la vostra vita ma è questo che dovrete saper fare una volta lasciata la scuola.” Passato il primo momento di sconcerto ci rendemmo conto che tutto sommato scrivere quella benedetta lettera era più semplice di un qualsiasi altro tema ed infatti l’esito fu positivo per tutti. Quel tema sbloccò la classe, fu come una specie di svolta. Quell’uomo strano, a volte un po’ grigio, troppo serio, aveva però la capacità di spiazzarci continuamente. I suoi commenti alle nostre lettere furono talmente divertenti da suscitare ilarità, le esaminava come se fossero dei testi letterari, dimostrava un’ironia che disorientò positivamente la classe, il questionario fu affrontato da tutti senza apprensione. Non so cosa diavolo gli dicemmo, ma ne tenne conto perché qualche modifica nel suo modo di operare in classe la cogliemmo subito. Dei questionari non disse nulla se non una cosa: che avrebbe tenuto conto di tutto tranne di coloro che pretendevano da lui che insegnasse di meno; disse esplicitamente “ Chi ne vuole sapere di meno e non di più non lo posso seguire”.
    Da quel giorno la classe fu decisamente con lui e quella parte più ostile a lui era ridotta al silenzio. Io continuavo a seguire questi dibattiti sempre più accesi con una certa indifferenza, ogni tanto dicevo la mia ma senza scaldarmi troppo; anche in classe, alle sue sollecitazioni, mi tenevo in disparte. Il tono appassionato di Fortini, il suo continuo riferimento al movimento operaio, la sua militanza non mi davano fastidio ma neppure mi entusiasmavano. Quando ci fece fare delle tesine su alcuni momenti importanti del novecento, io scelsi il New Deal roosveltiano, cioè un grande esperimento riformista, che certamente non stava in cima alle sue simpatie. Ma non lo feci polemicamente, fu una scelta di basso profilo come tesi sempre a fare con lui e mi domando ancora oggi perché. Non saprei dire neppure se fosse timore reverenziale o altro.
    L’anno finì in fretta, l’eco dei suoi discorsi, del modo in cui commentava la poesia, le sue aperture, i suoi voli che sapevano abbracciare campi vastissimi, avevano lasciato il segno su tutti noi. Alla cena di fine anno, fu una vera e propria sfilata, ognuno voleva salutarlo personalmente, anche quelli che l’avevano osteggiato. L’ultimo giorno di scuola ci disse che ci aveva dedicato una poesia, la lesse e come aveva promesso lesse anche dei versi tratti da ‘Foglio di via’. Devo dire onestamente che rimasi un po’ deluso. Mi sembrò che la ricchezza delle sue spiegazioni, la forza di certe sue intuizioni critiche, l’apertura a trecentosessanta gradi che dimostrava nei confronti delle avanguardie della letteratura europea fossero raccolte solo in parte dalla sua poesia. Non ho cambiato idea. Per me il Fortini più grande rimane il saggista, l’intellettuale a tutto campo, il critico della cultura, lo studioso del marxismo ed il militante. Testi come ‘Verifica dei poteri’, come ‘I cani del Sinai’ e altri successivi, mantengono tutta la loro forza. Pochi hanno saputo come lui scavare nei problemi e nelle vicende di questo secolo con coerenza e sapienza critica. Non voglio dire che il poeta sia minore, questo in definitiva lo dirà il tempo, ma ho la netta sensazione che l’accento che dal momento della sua morte è stato posto continuamente sul Fortini poeta (che non ebbe in fondo in vita riconoscimenti pari ai complimenti che riceve ora la sua poesia), servano a nascondere e ad occultare altro, la sua figura ingombrante e severa, poco italiana (almeno in senso convenzionale), calvinista e perciò fastidiosa, nonostante lui avesse dichiarato nell’intervista a Tito Perlini di alcuni anni fa di essersi convinto ad abbandonare il protestantesimo per ragioni profonde, che nella stessa intervista sono abbondantemente spiegate. Certe sue scoperte sono pietre miliari per la cultura italiana di questo secolo, specialmente per quella cultura che non è rimasta nei binari tradizionali: la sua traduzione di Simone Weil, Brecht, le sue lezioni di letteratura, l’instancabile fedeltà ai suoi ideali non sono mai venuti meno. Eppure tutto questo non à mai andato a scapito della sua criticità; non si può certo dire che Fortini abbia coltivato una qualche ortodossia marxista o marxiana. Nella sua coerenza c’era semplicemente questo: il crollo del socialismo reale non fa diventare agnelli i lupi di ieri e comunque non è una ragione sufficiente per mettersi a frequentare salotti berlusconiani o per bruschi cambiamenti di campo e atteggiamento etico.
    Mi restano ancora poche cose da dire e la memoria torna ancora una volta al professore di lettere. Finito di leggere ‘ Foglio di via’ ci chiamò ad uno ad uno e ci scrisse una dedica personale su ogni quaderno. Purtroppo quel quaderno è andato perso nei vari traslochi, non me ne do pace ma le cose andarono così. Forse fu un lapsus da parte mia, oppure semplicemente fu una sbadataggine, chissà. Quello che aveva scritto però lo ricordo: “ Ad un leale avversario “ seguito dalla sua firma. Mi aveva messo fra i suoi oppositori, lì per lì ci rimasi male ma non aveva in fondo tutti i torti. Doveva passare un anno perché le sue parole operassero su di me in profondo. Mi avvicinai lentamente alla sinistra, poi vi fu il ‘68… Da allora lo incontrai personalmente solo tre volte: la prima fui io a telefonargli, mi ricevette a casa sua con una straordinaria cordialità, si ricordava perfettamente di me, parlammo di politica, io ero vicino al Manifesto e lui mi disse che facevo bene, discutemmo a lungo ci lasciammo con l’intento di rivederci, ma la cosa avvenne solo un anno dopo ed in una situazione ufficiale, diciamo così. Io ero un dirigente del movimento studentesco della Bocconi ( allora si diceva così), ero andato al Turismo dove lui insegnava a tenere un collettivo con gli studenti medi. Ci salutammo calorosamente , lui assistette al collettivo, ma la cosa finì lì. La terza volta fu a Torino molti anni dopo. Gabriele Contardi aveva appena vinto il premio Calvino con il romanzo ‘Navi di carta’, Fortini era il presidente di quella giuria e Gabriele sapeva che era stato il mio insegnante. Mi chiese di andare a parlargli insieme. Contardi gli disse che eravamo nello stesso gruppo di scrittura, che scrivevo anch’io. Io glissai, Gabriele non poteva sapere che c’era una cosa che non avevo mai detto a Fortini: che scrivevo. Qualcosa mi impediva di parlargliene, il nostro rapporto, per quanto limitato, era stato imperniato su altro, su quello doveva rimanere. Fortini per me era stato uno dei tanti padri, e non si può, passata l’adolescenza far leggere ad un padre i propri versi. E così è stato.

    [ da “Se tu vorrai sapere…Testimonianze per Franco Fortini”, dicembre 1996, Biblioteca Civica di Cologno Monzese, 1996]

    (1) Chi volesse sapere cosa fa oggi Franco Romanò può consultare il suo blog: http://agendadiscrittore.blogspot.it/

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