cropped-colpire-al-cuore.jpgdi Gabriele Vitello

[Il saggio di Gabriele Vitello, L’album di famiglia. Gli anni di piombo nella narrativa italiana (Transeuropa 2013), indaga il modo in cui gli scrittori italiani hanno provato a raccontare gli anni del terrorismo e della strategia della tensione. Pubblichiamo la versione ridotta di uno dei capitoli del libro, nel quale si sostiene che, contrariamente a quanto sostiene il discorso pubblico che riconduce la violenza terroristica a un impulso edipico, in molti romanzi che raccontano quegli anni il modello edipico non è più un dispositivo simbolico privilegiato].

La scomparsa del padre

A volte mi sembra che questa storia si potrebbe raccontare anche […] come uno scontro tra padri e figli. Leggendo con attenzione la biografia dei terroristi, si scopre che soprattutto all’inizio della lotta armata, la maggior parte di loro proviene dalla tradizione comunista di fabbrica, dalle sezioni di partito, da famiglie antifasciste, partigiane. Oppure dal cattolicesimo estremo, dal cristianesimo militante.[1]

Con queste parole, Marco Baliani ribadisce un cliché molto diffuso tendente a considerare la rivolta terroristica come uno scontro generazionale, spesso configurabile nei termini dell’uccisione edipica dell’autorità paterna identificata nello Stato borghese. Si tratta com’è noto di un’interpretazione applicata ancora prima che al terrorismo, alla contestazione giovanile, e avvalorata dal fortunato libro di Gerard Mendel, La rivolta contro il padre, uscito nientemeno nello stesso 1968. Quello edipico è, inoltre, un mito presente negli stessi resoconti autobiografici degli ex-brigatisti, i quali «indugiano spesso sulla descrizione […] del proprio rapporto con la figura paterna o materna» connotando, quindi, «la loro militanza come l’esito di un conflitto edipico, da intendersi quale rivolta al modello di società ereditato dai padri»[2]. La stessa cosa può dirsi anche rispetto alle biografie di alcuni militanti di Prima Linea. Giorgio Bocca ha osservato, ad esempio, che Marco Barbone e Paolo Morandini, due membri della Brigata 28 marzo responsabile del ferimento di Guido Passalacqua e dell’assassinio di Walter Tobagi, «sparano su due che fanno il lavoro dei loro padri, che conoscono i loro padri, che rappresentano i loro padri. E anche Laus e Marano, altri due della “28 marzo”, sono figli della borghesia intellettuale di sinistra»[3].

Il conflitto edipico è in realtà una chiave di lettura logora e superata che, soprattutto, non ci aiuta a interpretare i romanzi sul terrorismo; a questo scopo servono categorie nuove che partano dall’assunto della crisi della figura paterna freudianamente intesa in un’accezione autoritaria e castrante. I contributi teorici offerti da due autorevoli psicanalisti, Luigi Zoja e Massimo Recalcati, sembrano andare proprio verso questa direzione.

Nel suo saggio Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Luigi Zoja capovolge la tesi, formulata da Freud in Totem e tabù, che faceva risalire l’origine della civiltà al parricidio primordiale compiuto dall’orda dei figli. In realtà, secondo Zoja, la specie umana ha superato lo stadio animale grazie all’invenzione della paternità.

Nonostante questo suo ruolo fondativo nel processo di civilizzazione umana, quella del padre è una figura intrinsecamente precaria, perché a differenza del principio materno, di natura fondamentalmente istintuale, quello paterno è un fattore culturale, frutto dell’addomesticamento del maschio animale, non un dato di natura, ma un’adozione che necessita di intenzione e consapevolezza, sempre soggetta quindi ad una sostanziale e costituiva incertezza che la costringe a ridefinirsi continuamente.

Se, come sostiene Zoja, «la storia del padre in Occidente è una linea di lunghissimo declino, spezzata da occasionali risalite»[4], è vero anche che il Novecento ha rappresentato un momento di svolta e di accelerazione straordinaria di tale declino. I disastri provocati dal fascismo e dal nazismo hanno rappresentato «la resa dei conti per l’immagine del padre. I conti finali non furono solo quelli orribili delle stragi o quelli devastanti dei danni, ma anche quelli psicologici dell’autorità in macerie. I pretesi “padri della patria”, i padri pubblici, si erano rivelati così distruttivi da trascinare in un nuovo discredito anche quelli privati»[5].

Un ulteriore punto in sfavore dei padri è stato segnato dalla loro complicità con la civiltà consumistica. I padri del dopoguerra e del boom economico hanno ridotto il proprio ruolo all’interno della famiglia a quello di procacciatori di reddito (breadwinners) accettando di fatto le regole ciniche e competitive del capitalismo. Alla luce di queste considerazioni, è possibile interpretare le rivolte giovanili degli anni Sessanta e Settanta non tanto come l’espressione di una pulsione edipica, quanto come conseguenza di una degenerazione della figura paterna: «quelle ribellioni contenevano la nostalgia di una società ancorata a un valore metafisico e si opponevano a quella contemporanea, in cui compito dei padri è essere lupi tra loro prima che padri»[6].

Se la riflessione di Zoja si muove entro i binari di una prospettiva dichiaratamente junghiana, Recalacati nel suo La scomparsa del padre si rifà invece a Jacques Lacan e alla sua teoria sull’“evaporazione del padre”[7]. Contrariamente all’opinione di Freud secondo cui «la funzione paterna ha come compito primario quello di proibire ciò che l’Edipo di Sofocle realizza: l’accoppiamento incestuoso con la madre»[8], secondo Recalcati il ruolo del padre nell’educazione del figlio non è limitato all’esercizio della semplice proibizione: infatti, «l’esercizio simbolico della paternità assicura al figlio la possibilità di sganciarsi dalla palude indifferenziata del godimento e di avventurarsi verso l’assunzione singolare del proprio desiderio»[9]. In altre parole, quella paterna non è una funzione meramente negativa, quella per intenderci di dire “no” al desiderio, ma al contrario ha il compito cruciale di unire il desiderio alla Legge garantendo così la libera espressione dell’identità del figlio.

Il progressivo imporsi del “discorso del capitalista” ha messo del tutto in crisi il ruolo di garante dell’ordine simbolico del padre edipico, la sua capacità di unire il desiderio del figlio alla Legge mediante il principio di castrazione. Caduto quest’ultimo, il desiderio degrada a mero godimento compulsivo, sregolato e, in ultima istanza, mortifero. La scomparsa del padre è, dunque, una delle cause principali delle nuove patologie del mondo ipermoderno – anoressia, bulimia e tossicomanie di vario genere – analizzate dallo stesso Recalcati nel suo precedente L’uomo senza inconscio[10].

Malgrado muovano da prospettive molto diverse, Zoja e Recalcati concordano su due punti fondamentali. In primo luogo, entrambi ritengono che la figura paterna stia vivendo ormai da diversi decenni una grave crisi dovuta a un lungo e complesso processo di ridefinizione, finalizzato al superamento del suo antico modello edipico e autoritario. In secondo luogo, entrambi mettono in discussione il cliché che riduce il Sessantotto e la lotta armata all’espressione di un odio edipico verso l’autorità paterna, suggerendoci di leggere l’eversione giovanile come la nefasta conseguenza delle colpe della generazione dei padri, e in particolare di quei padri pubblici che hanno esercitato il proprio potere nel segno della corruzione e della continuità con la tradizione fascista.

La decadenza dell’intellettuale

La crisi della figura paterna corrisponde entro il campo letterario alla crisi dello «scrittore-intellettuale»[11] e all’esaurimento del modello narrativo di tipo edipico.

In Italia, l’ultima generazione di scrittori-intellettuali è composta dagli autori nati intorno agli anni Venti ed esorditi nel dopoguerra come Calvino, Sciascia, Volponi, Fortini e Pasolini. Questa generazione letteraria è stata il bersaglio della contestazione anti-autoritaria del movimento del Sessantotto, secondo il quale – per citare uno slogan di origine cubana allora di moda – l’intellettuale si sarebbe dovuto “suicidare” per fare spazio al militante politico.

Antonio Tricomi ritiene che al fondo delle contestazioni violente e non, sviluppatesi nel corso del lungo ’68, vi fosse un impulso edipico, un desiderio di sbarazzarsi di ogni tipo di figura paterna. Accanto al Pci, che secondo il critico rappresenta il «primo Padre da uccidere per utopisti e guerriglieri»[12], l’altra autorità «che più violentemente è messa in questione è […] quella dell’intellettuale tradizionalmente inteso»[13].

Secondo Tricomi sono gli stessi scrittori ad accorgersi che «le loro opere, e ancor più le loro opinioni politiche, semplicemente non interessano ai giovani militanti e agli operai in lotta per il rinnovamento della società»[14] e pertanto

non è […] un caso che […] nei loro testi teorici, nelle loro stesse opere letterarie, molti di questi scrittori – e soprattutto Pasolini e Calvino – parlino ossessivamente di morte dell’autore, morte della letteratura, morte addirittura dell’arte. Perché non si tratta per ciascuno di loro di fare i conti con una semplice crisi di poetica, determinata dall’esaurimento della stagione neorealista o dal logoramento della lirica e, parimenti, del romanzo. E’ l’umanesimo che essi riconoscono ormai defunto; è la loro funzione pubblica che vedono definitivamente tramontata[15].

Stante la fondatezza delle considerazioni di Tricomi, vorrei tuttavia provare a cambiare punto di osservazione verificando se sia legittimo parlare, piuttosto che di uno scontro tra padri e figli, di una rinuncia da parte degli scrittori-intellettuali al loro tradizionale compito pedagogico, ovvero, al ruolo di garanzia del passaggio di testimone e della staffetta generazionale. Per confermare questa ipotesi, vorrei soffermarmi sui percorsi artistici e intellettuali di due figure esemplari come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.

Innanzitutto, bisogna osservare che, considerata all’interno del campo letterario, la contestazione della generazione dei padri va anticipata al 1963, anno di nascita della Neoavanguardia – un movimento letterario dalla forte sfumatura generazionale: molti dei suoi membri più importanti (Sanguineti, Balestrini, Malerba, Arbasino) sono nati, infatti, intorno agli anni Trenta, un decennio dopo la generazione di Pasolini, Fortini, Sciascia e Calvino. Proponendo nuovi gusti e valori estetici, la Neoavanguardia ha messo fortemente in discussione il binomio di letteratura e engagement della vecchia generazione letteraria coi suoi veri o presunti residui neorealisti e populisti.

Il rapporto tra Neoavanguardia e Sessantotto è tuttavia molto complesso. Entrambi questi movimenti intendono screditare la funzione intellettuale incarnata dalla vecchia generazione umanistica, ma da punti di vista opposti: la prima, rivendicando un’idea di letteratura disimpegnata e di una ribellione esclusivamente linguistica e formale, il secondo al contrario in nome della priorità dell’azione politica sull’arte e la cultura. Pertanto, se è vero che la Neoavanguardia prefigurò la contestazione di fine decennio, è altrettanto vero che essa stessa finì per esserne travolta (la rivista dei neoavanguardisti, «Quindici», chiuse infatti i battenti nel 1969). Pasolini, acerrimo nemico di entrambi i movimenti, ha denunciato con particolare vigore il paradossale connubio di questi «due terrorismi […] fusi in una specie di ‘monstrum’». A suo avviso, infatti, «molti contestatori globali hanno creduto di riconoscere il loro correlativo letterario nella letteratura d’avanguardia allora di moda», mentre «i neo-avanguardisti hanno assurdamente fatto loro la contestazione pragmatica, il mito castrista dell’azione ecc., facendo lo gnorri sulla propria ideologia per cui la contestazione era stata solo e unicamente linguistica o verbale»[16].

Prima della nascita della Neoavanguardia, Italo Calvino esprimeva ancora la sua fiducia nel fatto che i giovani potessero ereditare quella volontà costruttiva e dirigenziale che aveva caratterizzato la sua generazione maturata durante la Resistenza[17] – una fiducia che trovava negli stessi anni espressione letteraria in un progetto pedagogico culminante nella scrittura di Marcovaldo (1963), considerato dallo stesso autore un libro per ragazzi. Nel 1966 avviene un fatto importante nella sua carriera letteraria: la morte di Elio Vittorini, uno scrittore che insieme a Pavese ha rappresentato per lui una vera e propria figura paterna. Egli credeva – racconta Calvino a Ferdinando Camon in un’intervista del 1973 – «nel “dio ignoto” che si nasconde nella smania di scrivere dei giovani, aveva una forte vocazione pedagogica nei riguardi degli aspiranti scrittori, ma non per uniformarli a un modello, ma per aiutarli a liberare il “nuovo di cui fossero portatori”»[18].

Silvio Perrella ha riflettuto in modo illuminante sul rapporto tra Calvino e il ruolo paterno. Perrella osserva che «quando nel 1966 muore Vittorini, Calvino non è più figlio, ma non è neppure un padre»[19], dal momento che «la morte del suo ultimo maestro diretto corrisponde a un ulteriore allontanamento dall’attualità e anche al trasferimento parigino dell’anno successivo»[20]. «Anche nel lavoro editoriale, – continua Perrella – Calvino accettò malvolentieri collocazioni paterne»[21]. In effetti, dopo aver pubblicato Le città invisibili, Calvino sceglie di non occuparsi più dei manoscritti di scrittori esordienti e d’impegnarsi invece nella direzione della collana di classici “Centopagine” da lui fondata nel 1971.

Calvino affida negli anni seguenti il «rimuginío sulle difficoltà di parlare ai giovani»[22] al signor Palomar il quale arriva alla conclusione che

la distanza tra due generazioni è data dagli elementi che esse hanno in comune e che obbligano alla ripetizione ciclica delle stesse esperienze, come nei comportamenti delle specie animali trasmessi come eredità biologica; mentre invece gli elementi di diversità tra noi e loro sono il risultato dei cambiamenti irreversibili che ogni epoca porta con sé, cioè dipendono dalla eredità storica che noi abbiamo trasmesso a loro, la vera eredità di cui siamo responsabili, anche se talora inconsapevoli. Per questo non abbiamo niente da insegnare: su ciò che più somiglia alla nostra esperienza non possiamo influire; in ciò che porta la nostra impronta non sappiamo riconoscerci.[23]

L’approdo nichilistico di Calvino va confrontato con le considerazioni di Pasolini, senza alcun dubbio il più acuto interprete della frattura generazionale della fine degli anni Sessanta.

Giunto ormai sul finire dei quarant’anni, Pasolini scopre di essere anagraficamente padre, una figura che all’interno del suo immaginario ha rivestito sempre i tratti negativi del potere e dell’oppressione[24]. Il trauma della scoperta di essere padre si somma poi alla scoperta di avere figli degeneri: mi riferisco ovviamente al conflitto con i giovani contestatori. L’avversione nutrita da Pasolini per il movimento studentesco è testimoniata dai versi del Pci ai giovani, nei quali il poeta pochi giorni dopo la storica battaglia di Valle Giulia prendeva polemicamente posizione a favore dei poliziotti.

Pasolini condannò più volte e in modi sempre diversi i giovani contestatori, ritenendoli figli della civiltà consumistica, spregiatori della cultura in nome dell’azione politica, «ragazzi sfortunati» che non hanno mai versato «lacrime […] per un’ottava del Cinquecento»[25]. La rinuncia di Pasolini a svolgere una funzione paterna nei confronti dei giovani contestatori emerge in modo palmare da un articolo intitolato significativamente La volontà di non essere padre: «Quando osservo, con amore o con avversione, con complicità o con rabbia ecc. ecc. gli studenti del Movimento Studentesco, un sentimento è continuo e certo: la volontà a non volermi considerare loro padre». Contrapponendo al «vecchio mondo umanistico» quello «post-umanistico» in cui vivrebbero ormai i giovani, lo scrittore riconduce la frattura generazionale a quei repentini processi di modernizzazione che hanno velocemente e irreversibilmente trasformato il volto del Paese insieme alle abitudini, all’immaginario e ai sentimenti dei suoi abitanti. Pasolini “vede”, insomma, quella condizione storica e culturale che anni dopo sarebbe stata definita postmoderna[26]. Ciò rende la cesura generazionale della fine degli anni Sessanta unica, poiché a differenza che in passato «stavolta c’è stato, tra un’epoca e un’altra, quasi un colpo d’accetta»[27]. Di conseguenza, qualsiasi progetto pedagogico, qualsiasi tentativo di trasmettere la propria esperienza alle nuove generazioni è del tutto superfluo.

Ragionando sul tema cruciale per Pasolini del rapporto padri-figli, non si può non menzionare la celebre lettera luterana sui Giovani infelici, nella quale il poeta legge il destino effimero della «generazione sfortunata» come una tragica conseguenza delle colpe commesse dalla generazione dei padri: «Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri. / Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti»[28]. La colpa dei padri risiederebbe secondo il poeta nella loro complicità col fascismo prima, e con la società dei consumi poi. Una diagnosi che ha degli evidenti punti di contatto con le considerazioni di Luigi Zoja rispetto al discredito della figura paterna nel dopoguerra.

L’ultimo e più importante tassello di questa nostra ricognizione sulla figura paterna in Pasolini è costituito da Affabulazione, una tragedia in versi composta nel 1966 e pubblicata la prima volta su «Nuovi Argomenti» nel 1969. Si tratta di una delle opere più straordinarie e attuali dell’intero corpus pasoliniano, dove la crisi della figura paterna e quella dell’intellettuale vengono rappresentate attraverso un ribaltamento del modello narrativo di tipo edipico.

Affabulazione mette in scena la crisi d’identità di un padre, un industriale lombardo che, a seguito di uno strano sogno, viene travolto da una crisi mistica. La moglie racconta al prete che il marito «per pregare Dio non va più in fabbrica. / E magari, pregasse solo Dio! / E’ malato, solo un malato si comporta così! / Si spoglia nudo, al buio, sta delle ore / nudo, sul pavimento: prima di dormire / e prima di cominciare la giornata / fa mille cerimonie, come un selvaggio…»[29].

Le derive misticheggianti sono accompagnate anche da una sorta di attrazione morbosa per il proprio figlio. Seguendo un irreversibile processo di «degradazione», il padre tenta dapprima di farsi vedere da lui mentre consuma un rapporto sessuale con la madre e poi si fa trovare nel suo studio intento a masturbarsi. Egli si reca infine nell’appartamento in cui si è rifugiato il figlio con la sua ragazza, e lo uccide durante un loro amplesso.

Come Teorema, con cui peraltro condivide vari temi e situazioni, Affabulazione costituisce un vero e proprio apologo sulla crisi della famiglia borghese; solo che stavolta questa non è più provocata dall’esterno, ovvero dall’intervento vitalistico-rimbaudiano di un ospite, ma nasce direttamente dalla degradazione della figura del padre il quale, uccidendo il figlio, compie un gesto simbolico di rottura con la morale e la civiltà. In questa figura di «padre degenere»[30], reincarnazione del mitico Crono, si riflette quindi la memoria dei padri terribili della prima metà del Novecento, quei padri che hanno ucciso i loro figli «per mezzo di prigioni, di trincee, di campi di concentramento, di città bombardate»[31]. Il suo aspetto terribile non è, tuttavia, che l’altra faccia della sua stessa impotenza:

I padri, sappilo, sono tutti impotenti: qualunque
sia la loro espressione e il loro portamento
altro non leggi nella loro persona
che la coscienza non ammessa della loro impotenza.

La rivolta del figlio acquista, di conseguenza, un carattere del tutto fantasmatico:

E poi adesso che sto male, adesso
che sono un padre reietto – non più padre,
ma quasi figlio io, un uomo che ha perso la qualità
di uomo, non lavora, non lotta più, perché non può –
adesso, dico, ti è facile ricominciare a studiare,
ed accettare la vita di un privilegiato!
Non hai più, infatti, da contrapporti a tuo padre!
Uno dei due rivali è morto – io!
Con chi dovresti lottare?

Pasolini si rende conto insomma dell’inadeguatezza dell’interpretazione edipica per leggere e raccontare la cesura generazionale della fine degli anni Sessanta. Nella sua tragedia troviamo fissate le linee fondamentali di un modello narrativo ricorrente in molti romanzi sul terrorismo, nei quali, come vedremo, le figure paterne sono segnate da impotenza e sensi di colpa e la ribellione dei terroristi implode nell’atmosfera ovattata e claustrofobica della famiglia.


[1] M. Baliani, Corpo di Stato. Il delitto Moro, Rizzoli, Milano 1998.

[2] A. Tricomi, “Buongiorno, notte”. Perché all’utopia seguì il disincanto, in Idem, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea, Quodlibet Studio, Macerata 2010, p. 17. Lo stesso saggio era uscito precedentemente in inglese e con il titolo Killing the Father: Politics and Intellectuals, Utopia and Disillusion nel volume curato da P. Antonello e A. O’Leary, Imagining Terrorism: the Rhetoric and Representation of Political Violence in Italy 1969-2009, Legenda, Leeds 2009.

[3] G. Bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Garzanti, Milano 1985, p. 248.

[4] L. Zoja, Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 300.

[5] Ivi, p. 208.

[6] Ivi, p. 282.

[7] Cfr. J. Lacan, Nota sul padre e l’universalismo [1968], in «La psicoanalisi», n. 33, 2003.

[8] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 27.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina, Milano 2010.

[11] Cfr. R. Luperini, Controtempo. Critica e letteratura fra moderno e postmoderno: proposte, polemiche e bilanci di fine secolo, Liguori, Napoli 1999, p. 173.

[12] A. Tricomi, “Buongiorno, notte”. Perché all’utopia seguì il disincanto, cit., p. 19.

[13] Ivi, p. 27.

[14] Ivi, p. 28.

[15] Ivi, p. 30.

[16] P.P. Pasolini, Dentro la cultura, in Idem, I dialoghi, a cura di G. Falaschi, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 763.

[17] Si legga a tal proposito l’intervento del 1962 su I beatnicks e il “sistema”: cfr. I. Calvino, Una pietra sopra, in Idem, Saggi, vol. I, Mondadori, Milano 1995, pp. 96-104.

[18] Colloquio con Ferdinando Camon [1973], in I. Calvino, Saggi, vol. II, Mondadori, Milano 1995, pp. 2774-5.

[19] S. Perrella, Calvino, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 94.

[20] Ivi, p. 95. Anche Ferdinando Camon ritiene che Calvino «abbia rifiutato d’assumere quel ruolo di “padre” che sembrava toccargli in eredità»: Colloquio con Ferdinando Camon, cit. p. 2775.

[21] Ivi, p. 98.

[22] Ivi, p. 99.

[23] I. Calvino, Palomar, in Idem, Romanzi e racconti, vol. II, Mondadori, Milano 1992, p. 963.

[24] Si veda l’interessante articolo di Gian Carlo Ferretti dove viene proposta una distinzione nella produzione letteraria di Pasolini tra una fase materna e una paterna: cfr. G.C. Ferretti, Mio padre, quando sono nato, in «Nuovi Argomenti», n. 8, 1983.

[25] P.P. Pasolini, Poesia della tradizione (Trasumanar e organizzar), in Idem, Tutte le poesie, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 2003, p. 139.

[26] Cfr. J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

[27] P. P. Pasolini, Maestri e studenti, in Idem, I dialoghi, cit., p. 559.

[28] P.P. Pasolini, I giovani infelici (Lettere luterane), in Idem, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, p. 541.

[29] P.P. Pasolini, Affabulazione, in Idem, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 2001, p. 496.

[30] Ivi, p. 511.

[31] Ivi, p. 542.

[Immagine: Gianni Amelio, Colpire al cuore (gs)].

 

13 thoughts on “Padri e figli. La lotta armata oltre il modello edipico

  1. Però, parlare di una presa di distanza di Pasolini citando la celebre poesia sui fatti di Valle Giulia… In realtà credo che la posizione fosse molto più articolata.

    Ebbe a scrivere lo stesso PPP, in seguito:

    “[…] Proprio un anno fa ho scritto una poesia sugli studenti, che la massa degli studenti, innocentemente, ha “ricevuto” come si riceve un prodotto di massa: cioè alienandolo dalla sua natura, attraverso la più elementare semplificazione. Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista “per pochi”, “Nuovi Argomenti”, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, “L’Espresso” (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (“Vi odio, cari studenti”) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano (per “Nuovi Argomenti”) a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa (“L’Espresso”). Mi limiterò a una nota per quel che riguarda il passo sui poliziotti. Nella mia poesia dicevo, in due versi, di simpatizzare per i poliziotti, figli di poveri, piuttosto che per i signorini della facoltà di architettura di Roma […]; nessuno dei consumatori si è accorto che questa non era che una boutade, una piccola furberia oratoria paradossale, per richiamare l’attenzione del lettore, e dirigerla su ciò che veniva dopo, in una dozzina di versi, dove i poliziotti erano visti come oggetti di un odio razziale a rovescia, in quanto il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità anche di fare di questi poveri degli strumenti, creando verso di loro un’altra specie di odio razziale; le caserme dei poliziotti vi erano dunque viste come “ghetti” particolari, in cui la “qualità di vita” è ingiusta, più gravemente ingiusta ancora che nelle università”.

  2. Caro Massimiliano,
    la ringrazio per il suo commento. Le dirò che uno dei propositi del mio discorso era proprio quello di cercare di andare “oltre” la celebre poesia sui fatti di valle Giulia.
    Rispetto a quanto afferma in merito alla complessità della posizione di Pasolini, le riporto un brano di Gian Carlo Ferretti che cito in una nota della versione originale del mio saggio: «Negli scritti saggistici e poetici di Pasolini, il Sessantotto studentesco come contestazione del mondo dei padri da parte dei figli, passa attraverso un intreccio di atteggiamenti fortemente contraddittori, di amore e avversione, complicità e rabbia, simpatia e orrore. Pasolini, infatti, la considera al tempo stesso come “lotta intestina” all’interno del mondo borghese per un potere non diverso da quello dei padri, rivolta di figli innocenti contro il mondo adulto corruttore, rifiuto dell’“universo orrendo”, disordine o eresia che aspira intimamente all’ordine e all’ortodossia, violenza terroristica contro la “tradizione”, definitiva e totale liquidazione del vecchio mondo amato, forza attivamente anticentralistica e antiautoritaria, opposizione nei confronti degli stessi padri marxisti, e si potrebbe continuare» (G.C. Ferretti, Mio padre, quando sono nato).

  3. Grazie all’Autore per l’interessante articolo.
    Mi ha fatto rammentare “Aracoeli” di Elsa Morante.
    Premetto che non conosco la letteratura critica su “Aracoeli”. Mi scuso sin d’ora se dirò sciocchezze o ovvietà.
    A me quel libro parve scritto avendo fissa in capo la figura di Pasolini, un Pasolini dalla cui equazione personale fossero stati asportati talento letterario e successo sociale, lasciato il resto.
    Il protagonista, questo Pasolini Ignoto, parte alla ricerca del fantasma di sua madre Aracoeli, una spagnola di famiglia povera, parente stretta della voce narrante di “Menzogna e sortilegio” (ma anche della madre biografica del Pasolini Noto) che ama un ufficiale di italiano della regia Marina e gli dà un figlio.
    Non ricordo se i due si sposano o no. Comunque, si tratta di una mésalliance, la madre è povera mentre il padre è di famiglia borghese o di piccola nobiltà. Anche qui, ogni riferimento alla realtà biografica di Pasolini e di suo padre mi pare tutt’altro che casuale.
    Seguono tante cose, che solo in parte rammento: ho letto il libro venticinque o trent’anni fa.
    Una scena, però, la rammento. Quando incontra Aracoeli, il futuro padre del Pasolini Ignoto è un magnifico ragazzo, splendido nella sua uniforme estiva bianca; un personaggio da film di Alessandro Blasetti con Amedeo Nazzari. Amedeo parte in guerra, bandiere spiegate. Aracoeli e il piccolo Pasolini Ignoto restano a Roma, trattati da parenti poveri.
    Otto settembre del 1943 e catastrofi seguenti. Il padre del Pasolini Ignoto sparisce. Aracoeli lo cerca (non ricordo se insieme al figlio). Quando lo trova, si è rifugiato un buco di appartamento sporco, pieno di bottiglie di birra vuote. E’ ridotto uno schifo. Indossa l’uniforme dell’alcolizzato e del marginale, è gonfio, stordito e ansioso come una blatta quando si accende la luce all’improvviso. Balbetta, non è neanche violento: fa pena, fa vergogna e si vergogna.
    Diceva la fascetta di “Aracoeli” che il romanzo racconta un viaggio alla ricerca della madre. Sì sì, non c’è dubbio.
    Però, au bout di quel voyage voilà papa, da Amedeo Nazzari a un personaggio di CinicoTV; o per tornare al Pasolini Noto, dall’immagine del Malvagio Padre Militarista e Fascista a questo disgraziato, patetico alcolista, vittima della storia anzi della Storia, visto che il libro è della Morante. Il colonnello Pasolini è morto di cirrosi epatica, e fino all’ultimo ha tenuto un’accurata rassegna stampa personale su suo figlio Pierpaolo, il Pasolini Noto.

  4. L’asse di gravitazione del discorso sul rapporto tra la lotta armata e il modello edipico è, con tutta evidenza, il ‘principio di autorità’, la cui crisi, è bene dirlo, non conduce affatto ad un indebolimento, bensì ad un ‘rafforzamento dell’autoritarismo’. Una società in cui il principio di autorità è vanificato non entra in un periodo di libertà (come aveva giustamente riconosciuto Fichte, cui si deve la creazione della fondamentale categoria storico-filosofica della “terza epoca” o “epoca della compiuta peccaminosità”), ma in un periodo dominato dall’arbitrarietà e dall’anarchia. Così, la nostra società oscilla costantemente tra i due poli complementari della coercizione statale e della seduzione commerciale, che non sono altro che due varianti dell’autoritarismo generato dalla relazione di simmetria tra giovani e adulti. Non può sorprendere allora che su questo terreno si sviluppi la violenza, perché una relazione di questo tipo si fonda soltanto sulla forza. La differenza tra autorità ed autoritarismo deriva infatti dalla presenza o dall’assenza di un fine comune che rende accettabile una relazione asimmetrica e credibile la prospettiva in cui tale fine si colloca. Sennonché, quando questa prospettiva viene meno (come è accaduto a partire dagli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso), il terreno su cui far valere il principio di autorità frana e ai giovani che domandano il perché dell’ubbidienza non basta più la semplice risposta: “Perché io sono tuo padre… Perché io sono il tuo professore”. Sì, ma in nome di che cosa? E in nome di quale futuro? Sono queste le domande che, restando senza risposta, danno luogo ad una situazione in cui i giovani cercano o di essere sedotti o di essere dominati (ancora le due varianti dell’autoritarismo).
    Del tutto illusoria è poi la convinzione secondo cui la contestazione dell’autorità costituita e della gerarchia sociale è sempre, in ogni caso, veicolo ed espressione di istanze di libertà e di emancipazione. Che la lotta contro il colonialismo o il movimento del Sessantotto siano nati dalla contestazione del principio di autorità è indubbio, ma quei fenomeni di ribellione contro un potere oppressivo e di conseguente rivendicazione della giustizia non hanno alcun rapporto con la contestazione dell’autorità che caratterizza società come le nostre, pervase da un individualismo sfrenato e dominate dal primato che il neoliberismo attribuisce alla libertà di mercato e alle relazioni di scambio determinate dalla logica del consumo. Nel “regno animale dello spirito” di hegeliana memoria l’umanità appare infatti costituita da una serie di individui isolati che stabiliscono tra di loro relazioni contrattuali e competitive, dando vita a quell’universo fantasmagorico della merce che toglie ogni spazio alla solidarietà, alle affinità elettive e perfino agli affetti famigliari. Si realizza pienamente ciò che Marx ed Engels avevano descritto nel “Manifesto del partito comunista”: «Dove è giunta al potere, la borghesia ha dissolto ogni condizione feudale, patriarcale, idillica. Ha distrutto spietatamente ogni più disparato legame che univa gli uomini al loro superiore naturale, non lasciando tra uomo e uomo altro legame che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Ha fatto annegare nella gelida acqua del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese. Ha risolto nel valore di scambio la dignità della persona e ha rimpiazzato le innumerevoli libertà riconosciute e acquisite con un’unica libertà, quella di un commercio senza freni. In conclusione, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche ha messo uno sfruttamento aperto, privo di scrupoli, diretto, arido. La borghesia ha tolto l’aureola a tutte le attività fino a quel momento rispettate e piamente considerate. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in salariati da lei dipendenti. La borghesia ha stracciato nel rapporto familiare il velo di commovente sentimentalismo riducendolo a un mero rapporto di denaro».
    Concludendo, una volta preso atto della soluzione ricercata dagli scrittori sul piano della trasfigurazione letteraria di questa realtà (dalla distruzione del modello paterno in Pasolini al rifiuto di tale modello da parte di Calvino), sembra proprio che non vi sia condizione migliore per diventare adulti che l’essere orfani. Ma essere orfani è cosa assai impegnativa e tutt’altro che automatica (non basta il semplice dileguarsi della ‘imago patris’), poiché ci pone di fronte all’arduo passaggio da oggetti a soggetti di amore. Se questo discorso è fondato, allora è altamente plausibile la tesi secondo cui la lotta armata è stata, come diceva Che Guevara, “il nuovo modo di amare” e coloro che l’hanno praticata sino in fondo sono stati non una superfetazione del modello edipico, ma la prefigurazione, per evocare ancora una volta Fichte, di quella “quarta epoca” dell’“incipiente giustificazione” in cui “la verità è la cosa più alta”.

  5. “Se questo discorso è fondato, allora è altamente plausibile la tesi secondo cui la lotta armata è stata, come diceva Che Guevara, “il nuovo modo di amare” e coloro che l’hanno praticata sino in fondo sono stati non una superfetazione del modello edipico, ma la prefigurazione, per evocare ancora una volta Fichte, di quella “quarta epoca” dell’“incipiente giustificazione” in cui “la verità è la cosa più alta” (Barone)
    Alcuni dubbi:
    1. Il “nuovo modo di amare”, qui assimilato alla lotta armata (esercitabile in effetti solo a pochi: i più coraggiosi e allenati a condurla), pare troppo simile all’odio, indispensabile per condurla sino in fondo. Sembra, dunque, assume una forma più distruttiva che costruttiva.
    2. Non è questo “modo d’amare” (idealizzato) proprio quello di sempre, quello tipicamente rivendicato dai dominatori (o degli aspiranti al dominio) in concorrenza tra loro?
    3. Del tutto indefinita appare questa verità “più alta”. Se essa restasse, però, inaccessibile ai molti, vuol dire che può essere o sarà perseguita e forse raggiunta solo da un’élite; e magari donata poi ai molti. Restiamo in una dimensione eroicistica e prometeica, mi pare.

  6. Caro Abate,
    se permette mi intrufolo. Io non lo so che cosa avesse in testa Che Guevara quando disse che la lotta armata è “il nuovo modo di amare”: immagino parlasse della rivoluzione più o meno comunista/indipendentista che aveva fatto a Cuba e tentava di fare in America Latina.
    Ometto le valutazioni politiche in merito, ognuno la pensi come crede.
    Ma secondo me, qui, più che tirare in ballo Prometeo e l’eroicismo, io tirerei in ballo, terra terra, il coraggio, la coerenza e la volontà di rispondere delle proprie scelte, che sono la base di qualsiasi vera autorità, comunque declinata; e già che ci siamo, sono anche i requisiti dell’autorità paterna. Guevara, tanto per tornare a lui, ha dato prova di averne a carrettate.
    Poi uno coraggio, coerenza e responsabilità li può mostrare anche senza sparare un colpo o tirare un pugno, ci mancherebbe. (Certo che quando si rischia la pelle tutto si fa più serio, e meno facile diventa chiacchierare a vuoto). Però l’autorità vera, quella di cui tanto si lamenta, e giustamente, la mancanza, si conquista così. Il resto è violenza, o seduzione, che dell’autorità sono parodie e contraffazioni.

  7. @ Abate

    Sette anni fa Edoardo Sanguineti concluse con queste parole la conferenza stampa di presentazione della sua candidatura a sindaco per la città di Genova: «Che il proletariato esista e continui ad essere sfruttato è un segreto di Pulcinella. Bisogna restaurare l’odio di classe. I padroni ci odiano e noi non odiamo più loro». Ritengo che le considerazioni enunciate da questo intellettuale marxista, che è senz’altro da annoverare, per i suoi contributi non solo poetici ma anche saggistici e teatrali, fra i maggiori esponenti della cultura italiana di questo ultimo quarantennio, siano, oltre che del tutto giuste in linea di fatto (il proletariato esiste, è in continuo aumento numerico ed ha ormai un’estensione mondiale), pienamente condivisibili in linea di principio. L’odio di classe per gli sfruttatori e gli oppressori, congiunto all’amore per gli sfruttati e gli oppressi, è infatti lo spartiacque morale, politico e umano che separa i comunisti dagli opportunisti di tutte le risme.
    «È evidente che dobbiamo rendere spiacevole l’assistenza, dobbiamo separare le famiglie, fare della case di lavoro una prigione e rendere la nostra carità ripugnante». Basta citare questo passo di uno scritto di Tocqueville per cogliere non solo l’odio di classe verso i poveri, ma anche la prospettiva del ‘welfare dei miserabili’ verso cui tendono le misure adottate dai governi di questi ultimi anni e l’idea di ‘capitalismo compassionevole’ che ispira i liberisti di tutte le sfumature e le loro campagne contro la spesa, i lavoratori e i servizi pubblici. La verità è che ci troviamo di fronte ad una classe dominante animata da un feroce spirito vendicativo e incline ad adottare, contro chi protesta e manifesta, soluzioni di tipo ‘genovese’ come quella attuata nel luglio del 2001. Tale classe vuole riportare indietro, all’epoca dei ‘padroni delle ferriere’, i rapporti sociali di questo paese; percepisce se stessa come superiore sia rispetto al suo popolo che rispetto agli altri popoli del mondo; mira a vendicarsi per i colpi ricevuti negli anni Settanta del secolo scorso, quando la sua arroganza fu duramente contrastata per almeno un quindicennio (da qui l’odio inestinguibile per il ’68); tende a criminalizzare politicamente ogni presa di posizione antitetica al sistema borghese-capitalistico. Così, gente che guadagna come minimo duecentomila euro all’anno dice a chi ne guadagna venticinquemila o che vive nella precarietà o con pensioni da fame, che costoro sono il problema (non da risolvere ma) da eliminare. In questo inizio del ventunesimo secolo i ricchi, i borghesi e il loro ripugnante ‘entourage’ vogliono rendere questo paese ancor più diseguale di quanto dimostrino le abissali differenze di reddito, proprietà e aspettative di vita, che separano sempre di più le classi, gli strati e i ceti. Non a caso, sul piano della spartizione della ricchezza prodotta in Italia, il reddito destinato al lavoro è tornato, rispetto a rendite e profitti, al 46,6%, cioè ai livelli del 1881: in altri termini, è tornato indietro di quasi 130 anni.
    Di fronte ad una ‘razza padrona’ che ha scatenato da decenni una spietata e vittoriosa lotta di classe, incaricando contemporaneamente i suoi portavoce prezzolati di propagare a livello della pubblica opinione la menzogna ideologica secondo cui le classi e la lotta di classe non esistono più e il marxismo è superato, le classi sfruttate e le forze comuniste che intendono rappresentarne gli interessi immediati e a lungo termine non hanno alternativa: o lo sfruttamento illimitato del capitalismo congiunto alle guerre, alla distruzione dell’ambiente e alle crisi economiche o la lotta rivoluzionaria per una “società di liberi e di eguali” a partire dalla centralità di un sano odio di classe verso il sistema borghese-capitalistico.
    Come ha scritto un altro poeta e saggista italiano della seconda metà del Novecento, Franco Fortini, «oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.»

  8. Personalmente, mi guardo bene dall’affidare l’argomentazione e quindi di verificarne la validità sulla base di parolone buone per tutte le occasioni come libertà o amore o termini similmente ambigui.
    L’affermazione del Che ci può stare benissimo, anche la lotta armata può essere manifestazione d’amore. Ma qualcuno potrebbe soggiungere: “E allora, che sia amore, odio, indifferenza, cinismo, cosa cambia? Una lotta si qualifica alla fine in base alle proprie modalità, il suo successo e certamente i suoi fini, non in base al fatto di associarvi l’amore”.

  9. @ Buffagni

    Caro Buffagni,
    si può non ragionare anche su cosa avesse in testa il sicuramente coraggioso Che Guevara in quei turbolenti (a livello mondiale) anni Sessanta? Tanto più dopo che quella sua visione politica, quell’idea che il modello di rivoluzione cubana potesse essere riprodotto in Bolivia e chissà nell’intera America Latina, è stata bloccata da Usa, Cia e compagnia brutta. «Il coraggio, la coerenza e la volontà di rispondere delle proprie scelte» sono solo alcuni dei presupposti di un’agire politico costruttivo. Non gli unici. Non possiamo ridurci al romanticismo. Mi spiace dover fare proprio io il Sancho Panza, ma con tutta la simpatia che ho per i coraggiosi e gli audaci e il rispetto massimo per il Che, le chiedo: se la sentirebbe di proporre oggi in qualche parte del mondo la strategia “fochista” di Guevara e dei suoi compagni? Ho la sua stessa antipatia per il «chiacchierare a vuoto», ma non penso che «tutto si fa più serio» solo «quando si rischia la pelle». La pelle va rischiata per le cose che contano. E purtroppo oggi non riusciamo a ridefinirle queste cose che contano né a organizzare fosse pura una minoranza attorno ad esse. O non è così?

    @ Barone

    Mi spiace che lei (o eravamo passati al tu in dialoghi trascorsi?) non abbia risposto a nessuno dei miei tre dubbi. Sanguineti, Fortini, il marxismo, l’odio di classe e l’amore per gli sfruttati e gli oppressi come valori. Sì, ma oggi? Dove lo vede questo «sano odio di classe verso il sistema borghese-capitalistico»? O come lo si può alimentare? E bastano poi i sentimenti per condurre, non dico una « lotta rivoluzionaria per una “società di liberi e di eguali”», ma una minima lotta di sopravvivenza contro la “razza padrona”? (Ci ascolta qualcuno se continuiamo ad usare questi termini? Disturbiamo i piani di Renzi & C?).

  10. @ Abate

    Rileggi con attenzione (e apprezza la simmetria): nel primo capoverso del mio intervento ho risposto al tuo primo quesito, nel secondo capoverso al tuo secondo quesito e nel terzo capoverso al tuo terzo quesito. Hai bisogno di un’ulteriore parafrasi che commuti il discorso indiretto in discorso diretto per acquisire un accesso più agevole alla mia replica o può bastare?

  11. Caro Abate,
    la strategia dei fuochi di Guevara non era una buona idea neanche al tempo suo, come dimostra il suo esito fallimentare.
    Sono poi d’accordo che il coraggio non basta, sennò i veri eroi sarebbero i praticanti del bungee jumping. Dico solo che senza le virtù paterne, di cui si parlava qui, non si combina niente: sono condizione necessaria, non sufficiente. E’ romanticismo? Va bè, sarà romanticismo. Cordialmente.

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