cropped-BlackMirror1x02_0019.jpgdi Matteo Di Gesù

[Una versione più breve di questo intervento è uscita sul «Sole 24 ore»]

Petite pouchette, ‘Pollicina’, è il titolo originale del libretto di Michel Serres che Bollati Boringhieri, nell’edizione italiana, ha vòlto, forse non troppo felicemente, in Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013) L’epistemologo evoca appunto Pollicino -o meglio una sua versione femminile, Pollicina, a rimarcare una differenza di genere tutt’altro che irrilevante- per riposizionarsi dalla parte dei cosiddetti ‘nativi digitali’ e ragionare, con la sua candida arguzia provocatoria (che avevamo imparato a conoscere, tra l’altro, nel Mantello di Arlecchino. «Il terzo-istruito»: l’educazione nell’età futura, Marsilio 1992), sulla rivoluzione del sapere prodotta dalla società digitale: «Il nome della mia eroina», scrive l’autore, «non indica “qualcuno della sua generazione”, “qualche adolescente di oggi”, espressioni un po’ sprezzanti. No, non si tratta di trarre un elemento x da un insieme A, come si dice in teoria. Pollicina è unica, esiste in quanto individuo, in quanto persona, non come astrazione. […] Come un tempo il milite ignoto, il cui corpo giace davvero nella tomba, e alla cui identità si potrebbe risalire con l’analisi del DNA, questo anonimo è l’eroe dei nostri giorni. Pollicino codifica tale anonimato».

Si tratta di una questione nominalistica tutt’altro che capziosa, dunque. Ma, soprattutto, si tratta di una questione di punti di vista: o meglio di sforzarsi di guadagnarne uno davvero diverso, di abbandonare la propria postazione, specie se si tratta di un presidio intellettuale dal quale è ormai compromesso uno sguardo soddisfacente sulle cose (o, ancora peggio, se ci si ostina a volersi rappresentare le cose per come le si scruta da un punto d’osservazione inadeguato), per guardare finalmente da un’altra prospettiva lo stato delle trasformazioni in corso. Senza dubbio, dislocarsi altrove, come fa Serres, gioverebbe a molti analisti della decadenza culturale italiana, a numerosi protagonisti di un dibattito ormai per lo più scadente e inservibile. In fondo basterebbe prendere spunto dai cartoni animati, dai fumetti, dalle fiabe: in Tom e Jerry gli umani entrano “nell’inquadratura” solamente dalle ginocchia in giù, nei Peanuts gli adulti rimangono sempre fuori dalle vignette e di essi si legge tutt’al più la voce, in un balloon senza personaggio (come quella della maestra di Piperita Patty).

Serres postula una serie di enunciati assiomatici su come la percezione dello spazio, del tempo, del corpo, per questa generazione (alla quale egli guarda con manifesta benevolenza, concedendone ben poca al mondo degli adulti), sia radicalmente mutata, ma soprattutto pone drasticamente, senza troppi preamboli, la questione dell’organizzazione dei saperi, della loro smaterializzazione, della loro trasmissione e della loro fruizione, dei nuovi modelli di relazione e negoziazione che questa trasformazione impone. E lo fa indugiando, con sapiente retorica, sull’allegoria del vescovo Dionigi, martire cristiano che doveva essere decapitato sulla sommità di Montmartre: la Leggenda aurea racconta che la soldataglia, stufa della salita, lo decollò a metà strada; ma Dionigi, decapitato, miracolosamente si risollevò, raccolse la propria testa e risalì la china fino alla cima. Pollicina, come Dionigi, tiene tra le mani la propria testa, potendo smanettare su un dispositivo sempre connesso che le permette di reperire un’enorme quantità di informazioni e di condividerle con altrettanta rapidità (sì, l’allusione ai pollici è anche questa, non priva della suggestione sul recupero di una manualità che pareva dismessa): Pollicina ha tra le mani parte di quella facoltà cognitiva che un tempo sarebbe stata ‘interna’. Ma, anziché ingrossare le fila degli apocalittici, turbati da questa epocale decollazione digitale di massa, Serres ci ricorda, sulla scorta di Montaigne, che a «una testa ben piena» è sempre comunque preferibile «una testa ben fatta»: meglio, allora, darsi da fare per rifondare collettivamente le agenzie della mediazione culturale e per istituire nuovi legami sociali orizzontali, assecondando le potenzialità antigerarchiche e inclusive che la rivoluzione informatica dispiega.

Sarebbero svariati gli usi pratici che di questo breve saggio si potrebbero fare nel nostro Paese: arginare i sospiri sconsolati del/della collega docente che, al cospetto di uno studente che tentenna sulla collocazione storica del Pastor fido, rimpiange la solida preparazione di quelli dei tempi andati (manco a dirlo, il collega docente non è capace di salvare un file in formato pdf per trasmetterlo a quello stesso sciagurato studente), tanto più se l’autore è un accademico professore ultraottantenne, quale Serres è; modificare il frame del sempiterno discorso su intellettuali e impegno, che dalle nostre parti si ripropone senza variazioni da una quarantina d’anni (Maurizio Ferraris è tornato recentemente a interrogarsi sulla relazione tra intellettuale ‘novecentesco’ e nuovi media); arricchire una riflessione avviata con provocatoria intelligenza da Roberto Casati con il suo Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere (Laterza); mettere in dubbio la prospettiva dalla quale brillanti autori progressisti sessantenni di successo, con stuoli di “signore mie” al seguito, scrutano (inesorabilmente dall’alto e da lontano) i loro figli. Ma forse, ancora più utilmente, si potrebbe provare a farlo reagire con un saggio che, per tornare all’antagonismo tra vecchi e giovani implicato nel titolo italiano del libro di Serres, della conflittualità generazionale fa un vero e proprio paradigma analitico per scandagliare una crisi culturale e civile pluridecennale; e che, al pari dello scritto del filosofo francese, pone la questione del radicale cambiamento di prospettiva come precondizione per l’efficacia di qualsiasi analisi: Italia revolution. Rinascere con la cultura (Bompiani 2013) di Christian Caliandro, trentaquattrenne storico dell’arte contemporanea e studioso di Cultural studies. «Una delle caratteristiche principali di questa società è quella di usare, in ogni territorio della vita collettiva e civile (politica, economia, impresa, cultura) griglie di interpretazione antiquate, che altrove sono state abbandonate. Queste griglie obsolete vengono adottate evidentemente da cervelli obsoleti», vi si legge al culmine di una lunga, inesorabile disamina della «bolla spazio-temporale» che ha avvolto l’Italia negli ultimi trent’anni, a partire dagli anni Ottanta («i più lunghi del mondo occidentale»). Caliandro auspica un rapido abbandono di questi «inservibili e dannosi schemi obsoleti», prospettando, per una indifferibile presa di coscienza nazionale rifondata su nuovi statuti culturali, un modello concettuale sintetizzabile nella formula «strumenti antichi/schemi nuovi». In effetti, la parte più interessante del lavoro del critico – che suffraga il rigore della sua inchiesta con uno stile incalzante, serrato, a tratti rabbioso: di potente efficacia sono gli intermezzi autoriali su l’Aquila dopo il terremoto, «La capitale spettrale d’Italia» – è proprio il collaudo di queste nuove griglie interpretative nell’anamnesi di questo lungo collasso civile nazionale. Caliandro analizza una grande mole di materiali culturali: romanzi, film, opere d’arte, ma anche canzoni pop, programmi televisivi, tendenze sottoculturali (qui si trovano alcuni dei passaggi più originali e intelligenti del libro), ricavando da essi una serie di tracce, di segni che codificano un omogeneo ancorché articolato discorso sull’Italia contemporanea. Il pregio migliore del suo lavoro è proprio quello di aver saputo ricostruire questo codice e di averlo saputo interpretare, restituendoci un testo credibile quanto implacabile. Ma, una volta inchiodata alle proprie indiscutibili responsabilità storiche la generazione dei baby boomers italiani, la pars costruens del saggio si rivela deludente: l’autore, per interrompere questa trentennale «allucinazione di realtà», prospetta (anche lui!) un ritorno a una vaghissima nozione di “realismo”, sovrapponendo con sorprendente superficialità un’istanza culturale e politica davvero indifferibile (infrangere la bolla di cui sopra) a una nozione estetica ed epistemologica pasticciata e fumosa, che invoca anch’essa legittimazione dal nume consumato del Pasolini di Petrolio.

Se non altro, un nuovo punto d’osservazione sembra essere finalmente presidiato. E, dati i tempi, non è poco.

[Immagine: Charlie Brooker, Black Mirror, prima serie, secondo episodio (Fifteen Million Merits) (gm)].

 

7 thoughts on “Il digitale ci seppellirà? Le nuove generazioni e i nuovi media

  1. Tutto questo è interessante, ma ho il sospetto che ci sia un po’ troppa enfasi sui “nativi digitali”. In realtà, a mio avviso, la vera frattura generazionale, la voragine antropologica e culturale si era aperta negli anni ’60 e ’70. Dagli anni ’80, come viene affermato anche nell’intervento, è come se il tempo si fosse fermato e l’Italia, in particolare, fosse rimasta sospesa in una bolla di immobilismo e declino. Da allora i cambiamenti riguardano soprattutto le tecnologie; le generazioni sono, nel complesso, assai più vicine tra loro che non trent’anni fa, comunicano meglio e condividono più cose. Nelle scuole, poi, non è difficile imbattersi in insegnanti cinquantenni più bravi dei loro allievi, o almeno più consapevoli, nell’uso dei nuovi strumenti. Quello della “mutazione antropologica” è un refrain che seduce “narrativamente”, per questo è abusato dagli intellettuali. Ai tempi di Pasolini aveva effettivamente un senso, ma oggi rischia di nascondere quello che, invece, caratterizza davvero i ragazzi di oggi: un depotenziamento del rapporto con la parola, con i concetti. E’ quella debolezza concettuale che si nota anche nel momento in cui la montagna dell’analisi e dell’esemplificazione sui nostri tempi partorisce il topolino della riproposizione di un mal definito, appunto, “realismo”. Questo mi sembra più grave, in definitiva, che non saper convertire un file in pdf.

  2. Naturalmente i cosiddetti “nativi digitali” non ci sono. E lo sa bene Roberto Casati. Lo sa bene chiunque vada oltre la cortina di incomunicabilità – purché non sia sciocco, – e intrecci relazioni costruttive e aperte con i giovani presunti nativi fuori dal “digitale”. Servono quel minimo di competenze indispensabili. Il bacucco che fatica a intravedere il pulsante d’avvio del pc, non fa ovviamente testo.
    La tecnologia, da un certo punto in poi, è accessibile a chiunque. Chi scopre di non essere tagliato, si dedichi ad altro e utilizzi altri sistemi, prima c’era l’ippica oggi ci sono un mucchio di attività molto divertenti e cheap.
    Ma, per favore, per favore non sublimi la propria personale inadeguatezza in teorie, in giovanilismi alla moda e in facili giochi linguistici da tavolo; non è tempo.
    Grazie.

    d

  3. Molto, molto interessante, non come il commento inviato stasera che è stato censurato, quello, in effetti, seriamente, non era interessante. Avete fatto bene a censurarlo. Tutti i commenti poco interessanti andrebbero censurati, e non solo in questo blog.
    Davvero, davvero grazie.

  4. @dm

    Non abbiamo censurato il suo commento. Purtroppo il nostro sistema antispam ogni tanto commette degli errori. Ci dispiace.

  5. Quella di Serres è più di una provocazione. L’epistemologo francese coglie un processo in atto: l’obsolescenza della forma-pagina, riproposizione “dolce” dello schema organizzativo incarnato a livello strutturale nella storia occidentale dal pagus contadino e dalla “lottizzazione” dell’accampamento romano. Di fronte alla deriva del monopolio della forma-pagina nell’organizzazione dello spazio mentale abbiamo di fronte almeno tre sfide:
    1) l’obsolescenza dell’istituzione-scuola come manifestazione burocratico-amministrativa della forma-pagina;
    2) la questione della gestione – o per riprendere una categoria di Sloterdijk “l’addomesticazione”- dei corpi delle Pollicine e dei Pollicini emancipati dal monopolio della forma-pagina;
    3) la sopravvivenza della lettura – elemento imprescindibile per sviluppare la mente estesa – nell’ecosistema rappresentato dalle tecnologie digitali.

    Sull’ultimo punto ha ragione Casati: 1) non esiste alcuna mutazione antropologica in atto, i “nativi digitali” sono una comoda etichetta del marketing; 2) gli insegnanti hanno il diritto oltre che il dovere di contrastare il digitalismo, l’ideologia di supporto alle grandi clouds (Apple, Amazon, Google, Facebook) per espandere il proprio giro d’affari.

    Queste considerazioni non riducono però l’importanza delle sfide colte dal saggio di Serres. Della capacità di affrontare il digitalismo come ideologia e di padroneggiare il digitale come tecnologia ne va del futuro, a lungo termine, della professione insegnante e dell’istituzione scuola così come la conosciamo.

  6. “Il nuovo ordine dei sensi”, imposto dalla cultura digitale, dimostra come la storia della conoscenza umana non abbia il carattere progressivo e unilineare postulato dalla concezione ‘stadiale’ (per cui si verifica necessariamente una successione di passaggi da forme di intelligenza più semplici e indifferenziate a forme più complesse e differenziate), bensì un carattere oscillatorio, come sembra indicare, soprattutto fra le giovani generazioni, definite da Raffaele Simone “avanguardia di una migrazione a ritroso”, il primato attuale dell’orecchio e della visione non-alfabetica. Il razionalismo adulto di Simone mi appare, peraltro, preferibile al giovanilismo senile di Serres. E’ noto che una delle domande che Simone si pone sulle conseguenze della “Terza Fase” riguarda la scuola (e, più in generale, l’educazione), che egli definisce efficacemente come «un sito dedicato» . In effetti, se si guarda ad essa come al luogo della ‘riproduzione’ (ossia del trasferimento delle conoscenze presso le nuove generazioni) e come ad un punto nevralgico di intersezione dei processi che segnano il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna, occorre riconoscere che il peso della scuola è cambiato. Esso si è ridotto, poiché la scuola non è più la sola, e neanche la principale, agenzia che abbia il compito di diffondere il sapere iniziale, se si esclude la sua funzione specifica, non vicariabile da altre agenzie, che consiste nel creare conoscenze iniziali complesse (la matematica elementare, ad esempio, si continua a imparare meglio a scuola che fuori). Un insieme di fattori, che comprende la difficoltà oggettiva connessa al compito di operare il passaggio dalla conoscenza iniziale a quella evoluta, la resistenza degli stessi insegnanti e l’enorme impegno richiesto da un programma di evoluzione cognitiva continua, rende la scuola, per un verso, cognitivamente lenta di fronte ai processi di accrescimento e accelerazione della massa di conoscenze, scatenati dalla rivoluzione informatica e telematica, e, per un altro verso, metodologicamente lenta di fronte ai processi di diffusione delle metodologie di accesso ai depositi della conoscenza (dalle enciclopedie e dai dizionari alle banche-dati e ai repertori). D’altra parte, se è vero che la scuola non è il luogo della espansione, della circolazione e della interconnessione, in forme sempre nuove, delle conoscenze, ma è il luogo in cui alcune conoscenze vengono trasmesse e classificate, è anche vero che le conoscenze offerte dal mondo esterno sono qualitativamente inferiori a quelle scolastiche, poiché sono ‘deboli’, scarsamente codificate e grammaticalizzate.
    Quale conclusione è allora possibile trarre alla luce della disàmina fornita da Simone? A mio sommesso avviso, questa: dalla constatazione che sono in corso radicali cambiamenti nei modi di produzione della cultura non deriva necessariamente che tali cambiamenti comportino il passaggio da una cultura del libro ad una cultura del testo digitale. Rispetto agli atteggiamenti estremi di chi paventa grosse perdite o di chi proclama grossi guadagni (atteggiamenti che, per un verso, si possono caratterizzare attraverso la contrapposizione bipolare fra l’‘ideal-tipo’ del ‘catastrofista’ e l’‘ideal-tipo’ del ‘panglossiano’, ma che, per un altro verso, sono riconducibili ad un comune determinismo tecnologico), la posizione più corretta sembra essere quella intermedia, che si traduce nello sforzo di saldare la nuova cultura alla cultura alfabetica, valorizzando, da un lato, la capacità argomentativa e la deduttività razionale di quest’ultima e pervenendo, dall’altro, ad un’integrazione di codici di tipo diverso (verbali, iconici e acustici). In altri termini, di fronte alla sfida delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione la scuola (per usare un’icastica espressione di Musil) non può “tenere il broncio al proprio tempo”, sempre più profondamente segnato da tali tecnologie, ma deve adottare una visione bifocale che, senza nascondere talune implicazioni negative ìnsite in esse, le consideri tuttavia come opportunità di cui valersi, operando per indirizzarle verso sbocchi positivi: la scuola, insomma, deve accettare la sfida, pregna di conseguenze potenzialmente eversive, che i nuovi scenari comportano rispetto al suo attuale modo di essere e di fare, e deve saper porre in atto le necessarie contromisure. Del resto, è da tempo che gli insegnanti più sensibili ai nuovi scenari e più attenti alla sfida che ne consegue si stanno muovendo in questa direzione.

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