cropped-UOMO-ALLA-FINESTRA_1_bis.jpgdi Francesco Pecoraro

[Qualche mese fa Ponte alle Grazie ha pubblicato il primo romanzo di Francesco Pecoraro, La vita in tempo di pace. È la storia di Ivo Brandani, un ingegnere sessantanovenne che lavora per conto di una multinazionale. I capitoli dispari narrano la giornata del 29 maggio 2015 (Brandani sta costruendo una barriera corallina artificiale nel Mar Rosso per sostituire quella naturale, distrutta dall’inquinamento; si trova all’aeroporto di Sharm el Sheikh in attesa di un volo per l’Italia); i capitoli pari narrano alcuni episodi della vita di Ivo disposti in ordine cronologico inverso. Attraverso la storia di Brandani, Francesco Pecoraro racconta la storia italiana del secondo dopoguerra: sette decenni di pace che nascondono la guerra silenziosa e cupa di tutti contro tutti per conquistare potere, ricchezza, riconoscimento. Una struttura così ambiziosa si regge su una tecnica narrativa neo-modernista, che intreccia racconto in terza persona, monologo interiore e brani riflessivi di romanzo-saggio, e su uno stile idiosincratico e riconoscibile. Per me La vita in tempo di pace è uno dei romanzi più importanti usciti in Italia negli ultimi anni.
Quelle che seguono sono alcune pagine del capitolo intitolato
Città di Dio. Come in Pasolini, la «Città di Dio» è Roma; «Padre» è il padre di Ivo (i familiari del protagonista sono designati con la maiuscola e senza articolo: Madre, Sorella Maggiore, ecc.); non sempre i luoghi della Città di Dio sono chiamati col loro nome ordinario, ma non è difficile riconoscerli (gm)].

In molti hanno cercato di dire qualcosa che aiuti a comprendere la Città di Dio, qualcosa che ne definisse una volta per tutte il carattere peculiare. In molti hanno cercato di afferrarne la natura e il senso per poterla dire, ma le città non hanno senso, sono solo fenomeni di aggregazione umana, affastellamenti di manufatti nel tempo, risultati irrazionali di azioni individuali razionali, dove si avvicendano poteri dominanti che di volta in volta cercano di lasciare il proprio marchio stampato nel corpo fisico dell’urbano, come si fa con i vitelli. Di questa città si è scritto molto, ma nulla ne rende l’idea più efficacemente del suo stesso nome, «Città di Dio», che contiene un bel po’ di enfasi, ma sempre meno di quanta ne contenga la realtà.

Di notte, avvicinandosi alla città lungo una delle antiche strade che ne dipartono a raggiera, già a molti chilometri di distanza, si vedeva apparire un lucore rosso nel cielo, diafano come una minaccia sconosciuta che si avvicinava lentamente dietro le chiome dei pini. Ivo sapeva di quella luminescenza notturna che ristagnava sopra l’abitato, delle nubi di scirocco che ne restavano intrise, perché l’aveva osservata più volte dal sedile posteriore della Macchina di Padre, durante quei ritorni drammatici dalle gite domenicali, quando, fermi in fila negli ingorghi di rientro sulle statali, i genitori litigavano ferocemente, sibilando cose inaudite, piene di un odio che affiorava solo la domenica sera in automobile, e per salvarsi bisognava cercare il sonno […].

Fin dalla terza elementare, nell’anno in cui la famiglia Brandani era tornata tardivamente dallo sfollamento bellico, Ivo aveva abitato in questa città particolare e sempre l’aveva percepita come una specie di peso, come se, anche quando ne conosceva solo una piccolissima parte, tutte quelle strade e piazze, tram e filobus, automobili, pullman, camion e taxi, tutte quelle case e monumenti gli si spalmassero addosso ogni giorno, dicendogli: «Attento, questa forse è bellezza, ma non accoglienza, non bontà, non fratellanza, non protezione, non sicurezza: questa è solo bellezza, non avrà nessuna cura, nessun rispetto di te». Ma Ivo allora non poteva capire e non capì ancora per molti anni, forse non capì mai.

Una delle prime domeniche Padre lo aveva condotto a visitare una massa monumentale bianca, rigorosamente simmetrica, alta come una montagna, ed erano saliti sull’ultima terrazza e Padre spiegava tutto e diceva il nome delle varie cupole, dei colli, degli edifici, e gli indicava la grande roccia del Grande Tempio e quella popolazione di enormi statue corrose. A Ivo l’edificio da cui ammiravano la città non è che piacesse granché, a parte l’enorme affascinante massa di bronzo del Monumento Equestre, la grande pancia verde del cavallo, le sue enormi palle, le sbavature d’acqua sul rilievo delle vene sotto pelle. Nel complesso, quell’enorme edificio gli ricordava la scuola e tutte le cose che gli insegnavano a scuola, attenti/riposo, in piedi/seduti, silenzio assoluto, le parole incomprensibili, imparate a memoria, dell’Inno Nazionale, inzeppate a forza dentro una musica assurda che gli era sempre stranamente sembrata poco seria, una marcetta appiccicaticcia: Siam pronti alla morte! SÌ!

Vivere nella Città di Dio e non amarla fu un tutt’uno per Ivo, cui piaceva solo la geometria e la chiarezza del suo quartiere a nord del Centro Antico, che aveva strade larghe, alberate, i palazzi tutti più o meno della stessa altezza, una quota ordinatrice condivisa da tutta quella zona, da cui si innalzavano spesso torrette, misteriose altane, loggiati persi nello spazio, forse stenditoi, lavatoi, magazzini. Ma è troppo semplice dire che Ivo non l’amasse. Ne era affascinato e allo stesso tempo, istintivamente, ne diffidava, forse perché era una cosa tutt’uno con Padre. All’inizio fu una sensazione confusa, ma col tempo l’avversione si era precisata, rafforzata, e poi, da adulto, si sarebbe trasformata in ostilità aperta: ma se gli aveste chiesto il perché non avrebbe saputo rispondere. Si diceva che Ivo visse tutta la porzione restante della sua infanzia post-bellica, e poi la giovinezza, in una particolare parte della città che gli faceva sembrare ogni altro luogo o quartiere, compreso l’immenso Centro Antico, una poltiglia disordinata e confusa, stretta nel perimetro di mura ancestrali, priva di quel principio di geometria, ordine, prospettiva, di cui era intriso il quartiere in cui era cresciuto e perciò ambigua, ostile, sottilmente repellente. Crescere nell’ordine della forma urbis avrebbe avuto serie conseguenze sulla sua forma mentis, sul modo in cui avrebbe percepito il resto della città e del mondo. Quella che in seguito si sarebbe rivelata una specie di ossessione per la geometria, l’esattezza, il ben fatto, probabilmente aveva origine in quegli anni vissuti nella certezza della forma, nella misura, nella conformità, che sulle prime gli fecero credere che tutto il mondo fosse così, che dovesse per forza esserlo.

Da piccolo, quando usciva dal suo quartiere era sempre con Padre e dai finestrini della macchina vedeva cose che non poteva approvare: fuori dal suo mondo di corrispondenze geometriche, la città era un’accozzaglia di edifici senza capo né coda, sia al centro che in periferia. Non capiva perché si dicesse sempre della bellezza del Centro Antico, che a lui invece appariva come un insieme informe di casette ammucchiate una sull’altra, interrotto da slarghi inaspettati, da pozze di luce sui sampietrini sconnessi, dove incombevano chiesacce nere di sporco, dai cornicioni curvilinei, attorcigliati. Non capiva la bellezza dell’irregolarità, delle chiazze d’umido, degli intonaci scrostati, del sudiciume che si accumulava sulle facciate, delle ghigne dei mostri marini che emergevano dalle fontane, di quelle decorazioni avvinghiate l’una all’altra, che a distanza gli facevano un effetto di cremosità indistinguibile e cancellavano le linee rette. Ivo Brandani a quel tempo era piccolo e non approvava l’insistenza dei motivi a voluta, la presenza invasiva di conchiglioni accartocciati, l’invasività delle spirali, delle facce di leone. E poi i delfini, le palme e palmette ovunque rannicchiate nei timpani, sotto le cornici. Oppure, come in un luogo-con-obelisco detto Mons Citatorius, si sorprendeva per travertini che parevano non finiti di scolpire, inspiegabili inserti di roccia su una facciata liscia, razionale: «Bernini» gli disse Padre. Ovunque ci fosse qualcosa che a quel tempo Ivo Brandani non poteva approvare, qualcosa che gli andava per traverso senza che sapesse dirsene il motivo, prima o poi qualcuno diceva: Bernini. Oppure, ma più di rado, diceva Borromini. Sembrava che nel Centro Antico, dentro quei quattordici chilometri di cinta muraria, non ci fosse stato nessun altro che quei due, sembrava che gli altri ne fossero rimasti schiacciati, dominati, affascinati, fino ad accorparsi tutti nel tracciare assieme a loro volute e palme e grovigli e conchiglie e buccine e facciate ricurve. A Ivo sembrava che, tolti Bernini/Borromini, non restasse altro da raccontare, da dire. «Barocco» diceva Padre.

Della periferia lo stupiva invece lo sfasciume, la continua mescolanza degli oggetti, la presenza di enormi caseggiati e di casette, gli sterminati baraccamenti, gli sterri, le ferrovie, i cantieri, gli stradoni appena fatti, polverosi, le file interminabili di pali e fili elettrici intrecciati, i ruderi, misteriosi inaspettati neri. Ovunque sciatteria, inesattezza, raccogliticcio, pattume, confusione. Gli pareva che nulla avesse un ruolo paragonabile a quello della Grande Piazza Centrale del suo quartiere, dispensatrice di ordine forma e regolarità, alla quale tutti gli altri spazi lì intorno apparivano logicamente conformati e sottomessi.

Ma ciò che più gli procurava fastidio, fino ad indurlo più tardi ad una vera forma di idiosincrasia, erano i numerosissimi ruderi di cui la Città di Dio si vantava e si faceva fregio. All’inizio ne era entusiasmato, quando Padre l’aveva portato in visita ai Fori dell’Impero, al Grande Anfiteatro, agli Antichi Mercati, e poi più tardi all’immensa Villa dell’Imperatore, alla Città Porto. Era il fascino emanato dalle tracce di mondi precendenti, di luoghi che in un tempo lontanissimo erano stati abitati da uomini che si faticava a pensare come noi.

«Erano come noi?»
«Certo, esattamente come noi… Forse un po’ più bassi…» rispondeva Padre.
Tutto questo lo impressionava, ma la cosa che più l’aveva colpito, tanto che in seguito l’avrebbe sempre ricordata, tornandoci su e dubitando della veridicità della notizia, erano state le tracce, così diceva la guida, che un mucchietto di monete aveva lasciato sul pavimento del Foro fondendosi nel corso di un incendio. La nozione di Grande Incendio si andava in lui legando strettamente a quella di Antico, di Centro Antico. Immaginava ciclici inferni di fiamme, l’imperatore incendiario e tutto il resto, ma fu soprattutto il Muro della Suburra a colpirlo, quando Padre gli lesse sulla guida che in antico serviva a separare il Foro dai «quartieri poveri costruiti in legno, tenendoli così al riparo dai frequenti incendi». Vi fu la delusione dell’Anfiteatro, quando si accorse che il pavimento dell’arena era sfondato. Si aspettava di vedere lo spazio dove le belve mangiavano i credenti, invece l’arena non c’era, si vedeva solo un intrico, uno sfasciume di muri.
«È sfondato?»
«È crollato» disse Padre, «quelli sono i locali sottostanti, dove tenevano le belve, i gladiatori…»
«Perché non l’aggiustano?» «Cioè?» «Cioè, perché non lo mettono a posto… Perché non lo riparano?» «Ma che significa? MA CHE DICI? Sarebbe un falso». Padre aveva alzato la voce, facendolo sobbalzare. «…c-come, “un falso”?» «Voglio dire che bisognerebbe costruire una cosa nuova che si andrebbe a mescolare con le strutture antiche… Questa è considerata una specie di bugia, capisci? Devi pensare prima di parlare!»

Quello fu l’inizio del suo modo di considerare l’antico che pervade la città da ogni parte. Ci mise del tempo, perché il fastidio si insinuava lento nella sua mente. Sulle prime fu un disagio leggero, per esempio quando gli capitava di vedere la fossa centrale della piazza detta di Argentina, piena di macerie incomprensibili, file di colonne rotte, erbacce, gatti, immondizie. Le poche volte che prese il treno, la città accolse il suo ritorno con le muraglie nere della Porta detta Maggiore, e poi dei resti degli acquedotti e di un ninfeo dedicato alla dea Minerva. Uscendo dalla città in automobile era una continuazione di questa roba, una serie infinita di oggetti enigmatici, vuoti, sfasciati, inutili, che si perdevano in lontananza negli sterminati pratacci che circondavano l’abitato, ruderi incrostati di baracche, oppure coperti di vegetazione, caos nel caos della periferia, dove tutto sembrava accatastato alla rinfusa, i vuoti improvvisi, gli sterrati, le gru dei cantieri. Più tardi cominciò a domandarsi: “Ma perché dobbiamo tenerceli a tutti i costi, conservarli come cadaveri deposti in tombe scoperchiate, se ormai sono ridotti così male e non possono più servirci a nulla? Perché dobbiamo tenerci queste buche immonde piene di gatti, erbacce, rifiuti, solo perché dentro ci conserviamo alcune muraglie lerce costruite dagli antichi?”
«Vedi» diceva Padre, perito edile, «questo è l’opus reticulatum e questo è l’opus incertum…»
Chissenefrega, gli sarebbe venuto da dire, ma dirlo davanti a Lui sarebbe stato un errore fatale.
«I nostri antenati erano grandi costruttori» diceva Padre con orgoglio, «per questo oggi i loro edifici stanno ancora in piedi».

«Per me sono troppo rotti, papà» azzardò una volta. Subito si pentì, ma non successe niente, perché quello era uno dei misteriosi, rari momenti in cui Padre non era pericoloso: noioso sì, perché sempre impegnato nella maniera di chi insegna, ma, chissà perché, non pericoloso. Tuttavia era meglio non rilassarsi, perché poteva sempre stranirsi all’improvviso, imprevedibilmente. Per Ivo era la solita reticenza, la stessa cautela di sempre. Odiava quelle uscite per la città, non lo interessavano le lezioni di Padre e nemmeno l’opus reticulatum & l’opus incertum, non gli piaceva doversi trattenere dal dire quello che pensava, stare sempre attento alle parole, camminare sulle uova. Padre era occupato principalmente ad ascoltarsi, pronto a incazzarsi per qualsiasi contraddizione, obiezione, domanda di troppo, e però qualche domanda doveva farla, se no si sarebbe irritato per l’altro verso: «Non mi ascolti? Non dici niente? Non te ne frega niente?». Quello era Padre, non si poteva cambiarlo, darlo indietro. Quello gli era toccato e quello doveva tenersi. Non ci si poteva ragionare, era una creatura stagna, blindata, impenetrabile. Tuttavia era Padre, lo temeva ma intimamente gli portava rispetto ed era ancora lontano il momento in cui si sarebbe consentito per la prima volta di formulare pensieri come: “Il coglione dice sempre le stesse cazzate”.

[…]

Ma la ricetta della Città di Dio era fatta anche di altri ingredienti. Mentre le aree centrali si espandevano superando i colli, nel frattempo, lontano, si erano formate altre concentrazioni umane. Tra la città palazzinara dei Cinquanta e Sessanta (ma anche dei Settanta, degli Ottanta, dei Novanta e di tutti i decenni successivi, fino a oggi: quella cultura lì non cambiò mai, quella gente rimase sempre fedele a se stessa, solo più ricca, più ignorante, più potente) e questi nuovi luoghi abitati, spesso si stendevano grandi vuoti, in seguito occupati dai lunghi edifici a stecca e dalle torri dei nuovi quartieri di edilizia pubblica, detta «popolare», che riflettevano la cultura ufficiale degli urbanisti, in opposizione radicale con le baraccopoli da un lato (per gl’infimi e i disgraziati) e le palazzine dall’altro (per i non-poveri e per i ricchi). Nel corso degli anni, un popolo di centinaia di migliaia di umani era giunto alle porte della città dai luoghi più diversi. Si trattava di genti antiche, arcaiche, contadine, appenniniche, che conservavano dentro di sé una diversità totale dalla città dove andavano a insediarsi, fardelli culturali pesanti e diversi, che presto, già con i loro figli, si sarebbero perduti e per sempre. Questo popolo si era, subito & automaticamente, degradato al rango sub-urbano di borgatari, con i loro insiemi di baracche attestate sui pianori, oppure annidate nel fondo fangoso di qualche valletta tufacea, aggrappate agli acquedotti, nei prati antichi e lontani, lasciati liberi dalla città e dalla campagna. Eppure anche questa era città, città nascente, larvale, ma pur sempre città. Furono embrioni molto estesi del successivo formarsi di luoghi forti, in un arcipelago di borghi primordiali & straccioni, nati secondo modalità arcaiche di aggregazione spontanea, su alture, anfratti e pieghe dell’Agro, oppure aggrappati a pre-esistenze dell’Antico, come appunto acquedotti, resti di ville, tombe fuori scala. Le borgate fecero città in due modi: consolidandosi in proprio, cioè resistendo ai tentativi di abrogazione, oppure provocando l’intervento dei pubblici poteri perché costruissero nuove case per i «meno abbienti» che coi loro tuguri stringevano d’assedio il nucleo borghese et piccolo-borghese della città. Così nacquero agglomerati nuovi, grossi e pianificati dall’alto, che fecero anch’essi da capisaldi per la successiva saldatura delle fasce esterne con la città centrale.

Solo molto dopo si sarebbero viste altre masse di immigrati, stavolta non peninsulari, assediare la città in altro modo, molto più disperato e ancestrale di quello, gente che si sarebbe annidata sotto i ponti e i viadotti in cemento armato dei raccordi, sul greto dei due fiumi, in grotte e latomie tufacee, dentro rifugi incredibilmente fragili raccogliticci provvisori, sotto sporti edilizi e cornicioni, in nicchie raso terra, in catacombe e antri archeologici, dentro fabbriche abbandonate, per anni a costituire comunità post-atomiche, vivendo dei cascami di una città nel frattempo diventata ricca, a farsi servi, a prostituirsi, a darsi a commerci abusivi. Alcuni si sarebbero dedicati all’accattonaggio, altri avrebbero frugato tra i rifiuti nei cassonetti in cerca di rame, altri ancora al furto, al lenocinio, o semplicemente all’inedia alcolista, in un ultimo oblio senza speranza. Ma i più sarebbero andati regolarmente al lavoro, di nascosto e sotto-pagati, in modo del tutto funzionale alle diverse attività economiche, prima tra tutte l’eterna edilizia.

Così, ancora per lungo tempo, la Città di Dio sarebbe stata sede di tutte le forme umane di sopravvivenza: dai cacciatori-raccoglitori nella mondezza, ai trogloditi nelle caverne, ai nomadi, agli agricoltori, ferma restando la pastorizia originaria che continuò ancora per i decenni a svolgersi anche in aree verdi centrali, dove si videro a lungo pascolare animali addomesticati. Ancora negli anni Dieci del Duemila, in cui Ivo Brandani bambino pensava che si sarebbe realizzato il Futuro, in città avrebbero vissuto pecore e cavalli e maiali, vacche conigli galline, e in segrete enclave di natura avrebbero lungamente scorrazzato, non visti, volpi, cinghiali e molte altre specie selvagge. Il Futuro di fantascienza, che Ivo sognava da ragazzino, non sarebbe mai arrivato. Ciò che invece arrivò non era immaginabile nemmeno dagli immaginatori professionisti di Urania, che avrebbero tutti commesso l’errore di non pre-vedere quanto Passato avrebbe trascinato con sé il Futuro e neppure le conseguenze di quelle tecnologie informatiche, allora ancora relegate nei laboratori più avanzati, dentro grossi contenitori pieni di bobine e nastri magnetici e schede perforate […]. Insomma, tra quell’immensa, sconclusionata, città di baracche e casette abusive e la colata lavica di palazzine borghesi vomitata dal centro, si veniva formando una fascia di quartieri popolari costruiti dagli enti per l’edilizia sociale, tutti, salvo qualche eccezione, fatti di casermoni di sei-sette piani, torri di dieci, dove Ivo mai avrebbe voluto abitare, perché gli sembravano da poveri, e lo erano. E poi gli stradoni a quattro corsie tra le sequenze sterminate di grossi oggetti edilizi irti di antenne televisive, pieni di finestre e logge, ben distanziati gli uni dagli altri a lasciare spazio per lande incolte e fangose, pratacci dove i ragazzini giocavano a palletta, piccole discariche dove in cima a mucchi di rifiuti troneggiava l’eterno Cesso Dismesso, intero o spaccato, che ancora oggi vedi ovunque e che potrebbe a buon diritto costituire un emblema da imprimersi sul vessillo nazionale, com’è il Cedro per la bandiera del Libano, la Foglia d’Acero per quella canadese. Ivo aveva imparato a riconoscerlo, il Cesso Dismesso: lo si trovava ovunque ci fosse un terreno apparentemente abbandonato, anche nel suo quartiere, in angoli nascosti dove poteva capitare durante i suoi giri in bicicletta, oppure giù per la scarpata del Fiume: il solito scaricaticcio da piccola demolizione, montarozzi fatti di frammenti d’intonaco, tegole a pezzi, foratini frantumati, vecchi frigoriferi, cacche. Il Cesso Dismesso marcava l’incuria di un luogo e segnalava la forma mentis degli abitanti della Città di Dio (e dell’intero Paese).

[Immagine: Uomo alla finestra, disegno di Francesco Pecoraro].

 

4 thoughts on “La vita in tempo di pace

  1. Romanzo straordinario. Per la ricostruzione geologica (e a ritroso) della storia italiana dal dopoguerra fino ad oggi, per l’ambizione e la vastità del respiro e del disegno, lo accosto ad Underworld. Lingua prensile, ricca, agile; scienza ma anche lirismo; c’è tutto.

  2. Secondo me è uno dei tre o quattro romanzi veramente decisivi della letteratura italiana dell’ultimo quindicennio (a andarci piano). Va letto, e diffuso e promosso in tutti i modi possibili.

  3. Sono d’accordo, queste pagine sono davvero notevoli. Sarebbe anche importante esplicitare quali sono gli altri romanzi che riteniamo davvero importanti, almeno negli ultimi dieci anni.

  4. bello. l’intreccio di capitoli mi ricorda william faulkner, palme selvagge. o è una mia impressione? lo leggerò presto. buona giornata.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *