di Pietro Bianchi
Mettiamoci il cuore in pace. Non esistono film che riescano a mostrare sullo schermo il capitalismo finanziario. Il capitalismo è una faccenda troppo complessa per essere ridotta a una storia e a una serie di immagini. Il cinema invece ha bisogno di una messa in scena, di un’idea che possa essere “immaginarizzata” e diventare l’epopea di un protagonista, l’immagine di un luogo, l’affetto di una relazione. E infatti nella storia del cinema è stato possibile creare delle immagini della libertà, dell’amore, dell’odio e della violenza, o anche di concetti più complessi e persino astratti come il bisogno di Dio, l’irrazionalità delle pulsioni, lo scorrere non-lineare del tempo etc. Ma del capitalismo invece no, non è mai stato possibile crearne un’immagine.
Perché il capitalismo resiste al fatto di essere messo in immagine? Innanzitutto perché non è un singolo avvenimento, ma una logica invisibile (anche se intellegibile) che mette insieme eventi diversi che pur essendo lontanissimi, e molto spesso ignari gli uni degli altri, sono legati tra loro. Che cosa hanno in comune la City londinese, con le fabbriche del sud-est asiatico, le miniere di rame del Cile, i circuiti internazionali della logistica, l’agricoltura della California etc.? Nulla apparentemente. O meglio, nulla a livello del loro immaginario. Ma dal punto di vista delle relazioni economiche capitalistiche, i loro destini vivono in una fortissima dipendenza reciproca. Chi infatti al cinema ha tentato di porre il problema della rappresentazione del capitalismo – come Sergej Ėjzenštejn, Alexander Kluge o Jia Zhang-ke – non l’ha fatto tramite la messa in scena di una narrazione, ma tramite l’incontro/scontro di immagini lontane tra loro. Se invece si tenta di ridurre il capitalismo a un’immagine o a una storia esemplare non si può che feticizzarlo: ovvero non si può che mistificare una mediazione complessa di relazioni sociali in una storia. Del capitalismo insomma non c’è immagine. O meglio, qualunque immagine è parte di esso (dato che non esiste immagine che non sia del capitalismo). Il problema è la loro relazione. Il problema è il loro montaggio come aveva capito Ėjzenštejn.
Sta qui la differenza tra Wall Street – Il denaro non dorme mai di Oliver Stone, dove il mondo finanziario di Wall Street è preso come emblema delle storture del capitalismo contemporaneo, e ne diviene un simbolo, e il nuovo bellissimo film di Martin Scorsese, The Wolf of Wall Street. Scorsese non ha realizzato un film sul mondo della finanza, ha voluto semmai estrarre dal mondo finanziario un unico particolare, che tuttavia è fondamentale: quello del suo effetto anestetico rispetto ai rapporti sociali che stanno attorno, come se fosse un modo per renderli opachi e invisibili. C’è una differenza, sottile e tuttavia sostanziale, tra fare della finanza un simbolo del mondo circostante e ridurla a un principio di cancellazione della realtà, ad un’esperienza di intontimento, come quella di chi prende un Quaalude, la droga onnipresente del film. La finanza è in The Wolf of Wall Street un’esperienza di accecamento. È un registro dell’esperienza che permette di non vedere nient’altro che se stessi e il proprio capriccio tenendo il mondo reale con i suoi conflitti a distanza. Senza mai porsi alcuna domanda. Senza mai chiedersi perché.
Lo dice anche Matthew McConaughey nel suo fulminante monologo di iniziazione a Wall Street: nessuno sa se la borsa andrà su, giù, o se si metterà a girare in circolo, e men che meno lo sanno i broker che non fanno altro che convincere investitori privati e istituzionali a mettere i soldi sui loro titoli (con strategie molto opache e doppiogiochismi). L’unica cosa che un buon broker deve fare è impedire che gli investitori portino via i soldi dal mercato azionario, perché in questo modo i soldi diventerebbero reali e il gioco al rialzo si interromperebbe. Bisogna insomma far di tutto perché il mondo reale venga cancellato e stia il più lontano possibile. Il mondo reale deve servire solo per fare cassa, come si vede nelle moltissime scene dove lavoratori sul lastrico vengono convinti a mettere i risparmi di una vita in titoli tossici (i famosi penny stock) di nessun valore, ma su cui gli intermediari guadagnano con le commissioni.
Questo effetto di anestetizzazione, di obnubilamento, di vero e proprio euforico high, sballo, è il tratto fondamentale di The Wolf of Wall Street. Scorsese, come sempre con il suo cinema, non lo affronta astrattamente ma lo incarna in una figura che narra il film in soggettiva come se fosse un prodotto della propria mente. Con tutte le storture e falsificazioni del caso. Perché è così che l’affetto di anestetizzazione e di accecamento si riesce a vedere al cinema. Lo si vede quando diventa un corpo.
Jordan Belfort, il protagonista del film (che è un personaggio realmente esistente e interpretato da Leonardo Di Caprio), non è un grande broker, non fa parte dei grandi gruppi finanziari che sono a Wall Street da un secolo. Arriva a Wall Street in pullman a ventidue anni appena uscito dal college e vuole fare carriera, con l’entusiasmo che avrebbe qualunque ventenne quando inizia il suo primo lavoro. Che il film non sia un Bildungsroman, ovvero che non mostri alcun percorso di maturazione soggettiva, nemmeno negativa, lo capiamo subito non solo dal cinismo che gli viene riversato addosso (“Volete sapere che suono hanno i soldi? ‘Fanculo questo, che merda quello, troia, cazzo, pezzo di merda’. Non riuscivo a credere a come si parlavano tra loro. In pochi secondi sentivo già di esserne diventato dipendente”) ma anche dal fatto che questo mondo si mostra subito come insostenibile e in preda a un eccesso senza limiti. Il lunedì nero del 1987 è uno dei primi giorni di lavoro di Jordan, ma nemmeno un’esperienza così drammatica lo porta ad imparare una lezione e a condurlo a una “maturazione”. Anzi, Jordan appena dopo essere stato licenziato conferma nuovamente a sua moglie la certezza che lui diventerà un miliardario. È già dipendente da questo eccesso senza limiti. Dovrà solo ricominciare ancora più in basso. Ed essere ancora più wolf.
La carriera di Jordan Belfort dopo l’87 non è quella di chi si rende conto della profonda precarietà del mondo finanziario a fronte di un crack, ma quella fulminante di un outsider pronto a tutto. Scorsese non lascia trasparire nessuna emotività nemmeno quando vediamo le truffe più ciniche, dove lavoratori della classe media vengono convinti, con delle vere e proprie balle, a investire in aziende che a malapena esistono. Il gruppo dei più stretti collaboratori di Belfort sono tutti uomini di strada del Queens, dei loser senza alcuna preparazione universitaria, gente che al più era abituata a vendere erba come secondo lavoro. E che nella vita vuole solo fare soldi. Tutto il resto è come se nemmeno esistesse. Il loro successo non si accompagna ad alcun processo di soggettivazione simbolica, neanche nella direzione di una discesa agli inferi verso un cinismo consapevole. Se in un qualunque vecchio film di Scorsese avremmo potuto assistere a un processo di mutazione soggettiva e di assunzione della propria consapevolezza (come in Taxi Driver), qui non accade nulla. È come se Jordan, il suo braccio destro Donnie (interpretato da Jonah Hill) e i loro compagni non fossero soggetti, non abbiano senso di colpa, dubbio, sofferenza, inconscio: sono delle pure istanze pulsionali monodimensionali. Vogliono solo godere, scopare, drogarsi e fare soldi senza che mai vi possa essere lo spazio per una domanda o per un momento di drammaticità. Senza che mai possa esserci un limite. Il registro drammatico è infatti il vero grande assente di questo film: perché è il registro del conflitto, della scissione, dove due istanze si scontrano e non trovano una forma di mediazione. Significativamente Scorsese decide invece di scivolare più spesso nel grottesco e persino nel comico (come nella lunga sequenza dove Jordan e Donnie prendono i potentissimi Lemmon 714, una tipologia di Quaalude particolarmente potente) in direzione di una monofonia assoluta. Non c’è spazio per dei soggetti, che sono per definizione attraversati da una divisione, ma solo per degli Uni indivisi.
Per riuscire ad anestetizzare completamente ogni elemento divisivo, assume un ruolo di primo piano l’uso di sempre nuove modalità di sballo che si ripetono lungo tutto il film. Non è solo l’enorme spazio che hanno le droghe (dal crack, alla cocaina, alle pastiglie di medicinali come Quaalude o Xanax) ma è, in modo ancor più radicale, la rappresentazione di una dimensione dell’esperienza dove nulla viene assunto tramite la mediazione della propria soggettività ma solo tramite un corpo. Un corpo intransitivo, che non rimanda a nient’altro, che non si fa nemmeno parola. Un corpo che è puro godimento, che è pura pulsione. Per questo motivo The Wolf of Wall Street non è un romanzo di formazione. Perché non c’è l’esperienza di un soggetto, ma solo quella di un corpo pulsionale.
Ma l’anestetizzazione che cancella la domanda soggettiva, prima ancora che essere corporea, è etica. Nessuno in questo film prova mai un senso di colpa, né una qualche esperienza di dubbio o di riflessività, nemmeno di fronte alla morte che significativamente viene citata tre volte e sempre senza batter ciglio, quasi come se fosse un evento come un altro (un collega suicida, che viene menzionato en passant da Jordan mentre sta parlando delle abilità sessuali di un’altra collega; la zia Emma, che desta preoccupazione solo perché faceva da prestanome di un conto in Svizzera –, e l’amico Brad che nonostante venisse presentato come uno degli amici più fidati ci viene detto che muore a 35 anni di attacco di cuore mentre lo vediamo avere un rapporto sessuale con diverse ragazze nello stesso momento). Anche la sessualità sembra essere guidata dal modello del godimento solitario con l’oggetto, persino quando si tratta della propria moglie. Le sequenze più eloquenti però sono quelle dell’ufficio della Stratton Oakmant: una specie di carnevale ininterrotto, un tripudio di “cocaina, testosterone e fluidi corporei” dove l’eccesso ha le sembianze senz’altro delle droghe e del sesso compulsivo, ma anche di una violenza che si manifesta in modo insensato e improvviso. Si vedono alcuni dipendenti che fanno sesso nei corridoi, nei bagni, negli ascensori; Donnie a un certo punto piscia di fronte a tutti su un contratto che si vorrebbe rifiutare, e in generale tutti i discorsi motivazionali di Jordan, sempre più invasati, mostrano un surplus di violenza gratuita e vengono accolti sempre con schiamazzi, urla e manifestazioni di gioia quasi estatica. Sembra che tutto venga elevato all’eccesso senza limiti. Non è malvagità, come rileva giustamente il padre di Jordan. È osceno.
The Wolf of Wall Street ci parla allora del un cambiamento di una forma soggettiva – dal soggetto della domanda a quello della pulsione –, che è epocale, e che per la prima volta Scorsese affronta in maniera così aperta. Tuttavia nonostante il film mostri dei personaggi che rifiutano la propria dimensione di soggetti, che sono anestetizzati rispetto al rapporto con l’Altro (inteso non solo come altra persona, ma anche come qualunque istanza che possa mettere un argine al godimento pulsionale), a un certo punto, al culmine del proprio eccesso, non è possibile non incontrare un limite. Quale è questo limite? Da persone che prendono 15 Quaalude al giorno, che vanno a prostitute 5-6 volte alla settimana (senza preservativo e nel boom dell’AIDS) o che sniffano cocaina quotidianamente, ci si aspetterebbe che il primo limite sia quello del corpo. Ma non è così. Indipendentemente dal riferimento al romanzo da cui è tratto il film (nulla avrebbe vietato di prendere altre scelte), Scorsese prende un’altra strada.
Si sa che nei film americani quando qualcuno trova una valigetta con del denaro che non possiede, vuol dire che a questa persona sta per accadere qualcosa di estremamente pericoloso. L’etica protestante ha sempre guardato con sospetto al denaro che non viene guadagnato con il sudore della propria fronte (“Con il sudore del tuo volto mangerai il pane” si dice nella Genesi). E infatti anche Jordan Belfort, che ha passato la vita a usare soldi creati da altri e dei quali si è appropriato con la truffa, alla fine troverà il suo incontro con la Legge che lo costringerà, volente o nolente, a non sorpassare un limite. Ma sarà sufficiente la Legge per uscire da questa individualità monadica e gaudente, ignara di ciò che ha fatto e di ciò che provocato, e interessata solo – anche di fronte alla morte – ad avere un sufficiente numero di Quaalude? Non si tratta forse ormai di una soggettività che è compiutamente oltre la Legge? La conclusione del film che mostra Jordan Belfort usare la stessa strategia dei suoi inizi a Long Island ci lascia intendere che nemmeno l’incontro con la Legge è riuscito a porre un limite al suo godimento eccessivo e illimitato. Che nemmeno la distruzione del suo patrimonio, della sua famiglia, delle relazioni con i suoi amici, ha prodotto una forma di maturazione soggettiva. Che, insomma, avere un Bildungsroman con questo tipo di soggetti è impossibile. La figura della circolarità e della ripetizione è infatti quella che contraddistingue una persona che non cambia e che vuole solo godere, indipendentemente dal mondo circostante. Forse per dare forma alla pulsione non è ormai più possibile ritornare al limite della Legge. Forse è proprio il caso di provare a prendere un’altra strada.
[Immagine: Leonardo DiCaprio in Wolf of Wall Street di Martin Scorsese].
un testo veramente acuto che a partire dall’analisi di un film va ben oltre l’analisi del film.
“Del capitalismo insomma non c’è immagine. O meglio, qualunque immagine è parte di esso (dato che non esiste immagine che non sia del capitalismo). Il problema è la loro relazione.” Un simile assioma, ammesso che sia vero, è di natura teologica, poiché conferisce al capitalismo, nel medesimo tempo, l’onnipotenza e l’invisibilità. Lars von Trier, Luis Bunuel e Michelangelo Antonioni, per citare i primi nomi che vengono in mente, sono così serviti. Tuttavia, affermare poi che il problema, in base a questo assunto, è la relazione tra le immagini, se non è contraddittorio con quell’assioma, rettifica in qualche modo lo ‘Standpunkt’ totalizzante appellandosi alla lezione di Ėjzenštejn e spostando l’ottica dalla sostanza spinoziana alle monadi lebniziane. In effetti, se è giusto riconoscere che non vi è una rappresentazione metafisica più aderente alla struttura del capitalismo di quella offerta dal filosofo delle monadi “senza porte né finestre”, è pur vero che il ‘caput mortuum’ di questa esegesi è pur sempre l’accreditamento al capitalismo del controllo di tutto l’asse paradigmatico del linguaggio (in questo caso filmico), laddove ai suoi critici non resta che agire su quello sintagmatico (impresa davvero disperata in mancanza di una rivoluzione come quella sovietica o quella cinese e non facile da surrogare anche con lo spessore e la profondità di una cultura come quella tedesca). Il cerchio di questa ‘petitio principii’ si può forse chiudere tirandosi su con il codino del Barone di Munchhausen e ammettendo, con Joseph de Maistre, che la Provvidenza scrive diritto su righe storte…
Lars von Trier, Luis Bunuel e Michelangelo Antonioni infatti sono, anche, parti delle immagini del capitalismo in quanto società dello spettacolo, industria culturale, personaggi dell’immaginario dello spettacolo, anche, invece che persone della realtà. in quanto dipendenti dai mezzi, detenuti dal capitalismo, per la produzione culturale. è un dato di fatto. quanto al problema della relazione tra immagini, io credo che non vada inteso come “problema” cioè come ostacolo, ma solo come indicazione che solo un approccio critico dialettico, che appunto può essere evocato in certi frangenti come una questione di montaggio di immagini appunto dialettiche ( lo auspicava anche benjamin del resto) che comprenda anche il negativo, può rapportarsi alla potenza totalitaria del capitalismo per tentare di redigerne una mappa, che non dovrebbe mai ipostatizzarsi ovviamente, e in qualche modo di contrapporvi una forza. riconoscere al capitalismo il controllo paradigmatico del linguaggio non è poi uno schierarsi per esso ma la constatazione dell’entità delle forza avversa (all’umano). e certo la situazione è tra le più disperate della storia dell’umanità a causa di un dominio tecnologico senza precedenti nella storia dell’umanità. infatti dalla tua coltissima critica non esce null’altro che una vasta cultura, la tua, impotente come la mia contro il controllo paradigmatico del linguaggio da parte del capitalismo come scrivi. e sei costretto a dopo tanta ingegneria culturale a finire a proverbi.
…una bellissima lettura
Caro Colantoni, grazie delle Sue considerazioni, che mi sembrano confermare e approfondire le mie, più o meno come può fare un pittore che si sposta lievemente per cogliere sotto una nuova angolatura il paesaggio contemplato. Lei converrà tuttavia con me che il pittore, se può modificare il suo angolo di osservazione, non può tirare fuori da se stesso il paesaggio. Parimenti, se le condizioni della critica e la critica delle condizioni coincidessero, non crede anche Lei che lo spazio stesso della critica verrebbe meno? Come sempre, e come insegna la dialettica, a cui anche Lei si richiama, il punto magico sta nel coniugare correttamente, ossia asimmetricamente, tra di loro la categoria della totalità e la categoria della contraddizione, scoprendo alla fine che si tratta della stessa categoria ed evitando sia la deriva verso un assoluto speculativo più o meno mascherato (l’Altro, lo Spirito, Dio, il Capitale ecc.) sia la mera registrazione di contraddizioni non mediate (in termini marxiani, si potrebbe evocare il “doppio mulinello” fra l’ipostatizzazione del dato, per un verso, e il positivismo acritico, per un altro verso). Resta, comunque, indubitabile che il miglior servizio che si possa rendere al capitalismo è quello di considerarlo così potente da assorbire ed annullare ogni contraddizione. Sennonché la regressione ad un livello precritico ha come prezzo l’ignoranza di quel paradosso teologico dell’onnipotenza che si può formulare nel modo seguente. Se Dio è onnipotente, può fare ogni cosa; dunque, Dio può creare qualcosa che non può spostare? Sia che alla domanda si risponda sì, sia che si risponda no, si dimostrerebbe in entrambi i casi che Dio non è onnipotente, o perché non è in grado di creare un simile oggetto, o perché non è in grado di spostarlo. Detto ciò sul piano teoretico, soggiungo che, sul piano artistico e sociologico, il film qui recensito suscita in me un vivo interesse per più ragioni, che vanno dalla fonte letteraria che lo ha ispirato alla produzione del regista che lo ha diretto e alla personalità dell’attore che interpreta il ruolo di protagonista, senza trascurare il contributo che esso può dare alla conoscenza della dimensione antropologica del capitale (scritto ovviamente con la ‘c’ minuscola) e alla lotta contro di esso.
Egregio Barone la ringrazio e concordo.
La migliore lettura del Lupo che abbia trovato.
anche se sulla questione di Dio, insomma siamo sul sofismo, ovvero è una questione che potrebbe interessare mia nonna dotata dell’atto perfetto della fede e quindi capace di vedere questo suo Dio del sofisma come una questione reale più che culturale. diversamente per me la questione se Dio, che lei prima lancia in verticale come una palla da tennis nel timore dell’evocazione di un assoluto e poi me la schiaccia a fare punto con la racchetta , questo assoluto ricusato pocanzi , del paradosso teologico dell’onnipotenza, e che come schema è anche appunto una forma di quel positivismo acritico sempre ricusato. anche sul fatto del paesaggio direi che si il pittore ne tira fuori da se stesso almeno una sufficiente parte che poi noi chiamiamo stile che non è che l’impasto della sua materia interiore con la materia invece della mimesis, oltretutto la pittura ha trapassato i paesaggi da almeno un secolo arrivando al puro paesaggio interiore, non so penso a kandinski, rotko, pollok etc ( sebbene io sia un fervente partigiano della pittura dal 2 al 600). faccio una certa fatica a dialogare con la sua impressionante erudizione con la semplice forza delle mie idee, e le sono grato della sua tolleranza in questo senso. però sebbene apparentemente contrapposti su alcuni stilemi, in realtà io sono pienamente d’accordo con il suo rigore nel non concedere nulla di più di quanto non si sia preso al capitalismo e di opporgli una indomita ragione. non capisco perchè lei in qualche modo accusa sia me che l’autore della critica invece di non fare questo. per me è chiarissimo invece l’esatto contrario. inoltre lei è intervenuto su un testo di critica cinematografica pretendendone un rigore che soltanto la filosofia può perseguire senza diventare slogan perchè ha le prospettive temporali di una meditazione ad ampissimo raggio. se questo testo di critica cinematografica avesse ambito a definirsi filosofia non avrei certamente avuto lo stesso entusiasmo. vi sono in questo testo delle affermazioni tutte da verificare che non passerebbero il vaglio di una lettura filosofica ma il testo invece supera se stesso come una mera critica cinematografica ed è pèrciò una bellissima critica cinematografica che arricchisce moltissimo lo spettatore , credo, con delle interessantissime -suggestioni-. mi sono sentito solo di difenderlo in questo senso dal suo approccio invece rigorosissimo e rimproverante in senso filosofico. io non riconosco affatto al capitalismo una totalità compiuta, solo una vocazione e una potenza totalitaria che va studiata con mente raffinatissima per trovarne i punti in cui potersi confrontare senza essere semplicemente spazzati via. resta anche un problema di nuda vita oltre alla vita qualificata ed emancipata dalla ananke dei filosofi. insomma io sono dalla sua parte e anche, credo, l’autore della critica di cui stiamo discutendo e lei secondo me ci ha fraintesi prendendo troppo letteralmente le lettere sia mie che della critica in questione, invece che guardare la luna lei si è un po fissato sul dito. del resto intelligenze non comuni sono soggette a sopravvalutazioni o sottovalutazioni che talvolta pero sono la via improvvisa delle grandi intuizioni della storia.
Caro Colantoni, per fortuna non ci sono soltanto i paradossi teologici, ma anche, per limitarci d alcuni esempi di produzione cinematografica anti-borghese e anti-capitalistica, “Il fascino discreto della borghesia”, “Il fantasma della libertà”, “Deserto rosso”, “Blow up”, “Dogville” ecc. ecc. Io mi sono limitato ad esaminare la validità di un prolegomeno teorico, peraltro decisivo, della recensione del film di Martin Scorsese, senza intervenire sul corpo della medesima. Vedo che sussiste fra di noi un largo accordo sui concetti di totalità e di contraddizione intorno ai quali mi sono soffermato nelle mie osservazioni riguardanti l’impianto teorico della recensione di Pietro Bianchi, e di ciò mi ritengo pago, poiché, come diceva il vecchio Hegel, “contra negantes principia non est disputandum”.
con ciò Caro Caio, Mevio ti saluta con il piacere di aver conversato con un buon maestro.
speriamo non facciano un film da questo capolavoro
http://tysm.org/?p=10633
Caro David, vedo che conosci i dialoghi tra Caio e Mevio e ti ringrazio per questa citazione. Quanto ai “buoni maestri”, devo dirti che non mi sono mancati, anche se spesso l’incontro e il dialogo con loro si è svolto solo sulle pagine dei libri che leggevo. Forse anche per questo essere un “buon maestro” è ancora per me solo un’aspirazione, non una condizione.
Da non credere, ma cassate i commenti non in linea con l’adorazione dilagante?
M.
Scrivevo semplicemente che c’è da augurarsi che la pesantezza del commento sia inversamente proporzionale alla bellezza del film.
Caro Michele,
le nostre regole in materia di commenti sono esposte qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=12167
Il suo primo commento rientrava in una delle categorie di cui si parla qui sopra. Non le diciamo in quale.
Non mi dite in quale, perché neppure a voi riuscirebbe l’impresa di inserire il mio commento in una qualsivoglia categoria dello spirito che sfugga al decoro e alla civiltà cui apparteneva pienamente.
Pretendo naturalmente pienissime scuse e il riconoscimento pieno delle migliori intenzioni.
Vedo le regole, scorgo le regole, leggo le regole. Ma perdiana, non trovo l’italiano. Si dice infatti, testuale: «Nei post pubblicati a nome «Le parole e le cose», la moderazione viene gestita dai coordinatori del sito, che in questo momento Massimo Gezzi, Guido Mazzoni e Gianluigi Simonetti».
In questo momento cosa?
Comunque, ripeto: le scuse rientrano tra le basilari questioni educative che regolano i rapporti tra simili. Avete sbagliato, può capitare. Soprattutto avete trovato un cittadino consapevole dei suoi diritti. Anche su una piattaforma in cui i «moderatori» credono nella bislacca teoria della sopraffazione.
m.
Dunque, adesso siete in ambasce. Non volete più cassare i post, perchè altrimenti offrite ulteriore materiale alla mia indignazione. Nè serenamente pubblicate, perchè sentite l’esigenza di tenere il punto ridicolo delle vostre regole/convinzioni.
Ma sono io a spingervi a una decisione, qualunque essa sia. Farà di voi uomini più fortificati. Coraggio.
L’inazione era deleteria. Ottimo.
(naturalmente testerò ancora la vostra stravagante idea di democrazia collettiva. Farò come i controlli del doping nel ciclismo: entrerò senza farmi annunciare)
m.
Caro Michele,
quello che lei ha giustamente rilevato si chiama refuso. E’ una cosa che capita quando si scrive al computer. La ringraziamo di avercela segnalata: è stata corretta. A proposito: “perché” e “né” si scrivono con l’accento acuto.
Il suo primo commento conteneva un giudizio sprezzante e gratuito sull’articolo di Pietro Bianchi. Noi censuriamo sempre questo tipo di interventi perché le opinioni immotivate non ci interessano.
Giovanotti, sprezzante e gratuito sono parole gravi, di cui evidentemente non avvertite il peso linguistico. Le mie opinioni non erano per nulla immotivate, altrimenti non avrei perso tempo per declinarne su una piattaforma a me non consueta. È una questione di logica, prima ancora che di contenuti.
Comunque, ripeto: accetto volentieri le vostre scuse, fiducioso che si possa sbagliare e soprattutto riconoscerlo anche in modo postumo.
Ps. Refuso non è forse una tecnicalità della lingua italiana?
Una questione ancora, forse la più profonda. Voi non avete titolo per «censurare» alcunchè (quando non per atti violenti, ma allora si tratterebbe di ordine pubblico, roba minima), la censura è sopra qualsiasi vostra aspettativa, non è in dono a nessuno e chi se ne fregia rischia d’essere seppellito da una risata.
m.
Caro Michele,
il fatto che lei perda tempo a declinare le sue opinioni non vuol dire che queste siano motivate, o comunque interessanti per noi. Senza considerare che Pietro Bianchi ha perso molto più tempo di lei a scrivere un articolo che lei liquida senza argomentare.
Dall’insieme dei suoi commenti ci sembra di poter dire che le sue opinioni non ci interessano. Non perché siano polemiche nei nostri confronti, ma perché le troviamo gratuite. E anche un po’ invadenti.
La ringraziamo per l’attenzione che ci ha dedicato: se vorrà tornare a visitarci, e a declinare le sue idee, sappia che la censureremo ogni volta che ci sembrerà opportuno. Quanto alla storia dei diritti, noi la pensiamo come Pasolini: “A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano”.
Censurare la normalità. Progetto affascinante ancorché terribile. Non ci riuscirete, non ne avete la stoffa. Non avete nemmeno le forbici. Non avete.
Caro Michele,
ci riusciremo perfettamente. Il messaggio che le abbiamo appena pubblicato è il suo ultimo intervento su “Le parole e le cose”, a meno che lei non si metta a scrivere cose argomentate e interessanti, come di solito fanno i commentatori che pubblichiamo.
Bravissimo, sono entusiasta dal modo in cui ha descritto questo film. Aggiungo che penso che questo analisi può allargarsi, con diversità di gradi, a tutto il corpo sociale.
Ottima analisi, ma temo, purtroppo, che solo una fetta minoritaria del pubblico che si appassionerà al film sarà in grado di cogliere queste sfumature, al contrario dell’occhio attento di P. Bianchi.
Il perchè – secondo un mio parere azzardato – sta nella “voluta noncuranza” con cui Scorsese ha deciso di rappresentare le scene, al limite della sciatteria rispetto ai suoi standard, al punto che se si guardasse “Prova a prendermi” di Spielberg ( che ha sempre privilegiato il racconto all’immagine ), ci si potrebbe anche chiedere chi sia il vero l’autore di TWoWS.
Questa scelta è stata senz’altro dettata dalla necessità di ottenere una corrispondenza immediata con la commedia, che Scorsese aveva affrontato nei primi anni da cineasta con eccellenti risultati, ma ricalcando l’abitudine che hanno contraddistinto tutti i sui film del nuovo millennio – “Al di là della vita” escluso – : la scelta di non rischiare, cioè di non appesantire il linguaggio cinematografico con una regia virtuosa e più riflessiva come invece in passato, limitandosi a restare sulla superficie delle cose, dei personaggi e dei fatti narrati. Affidandosi più al montaggio che alla cinepresa.
In questo caso, in verità, si potrebbe anche parlare di una scelta programmatica: parlare dell’effimero di riflesso con un metodo altrettanto effimero, ma siamo sicuri che questa scelta non appiattisca troppo un film di 3 ore – e quindi fortemente voluto e sviluppato al punto da confutare un intento esclusivamente blockbuster – e che, suo malgrado, tutti gli aspetti che l’articolo mette così bene in vista, restino in realtà invisibili ai più ?
Buonasera
Veramente un’ottima disamina, giocata su più piani, con cura, sin nello specifico, godibile e ricca di spunti che, devo dire, mi hanno arricchito molto.
Questo film di Scorsese l’ho apprezzato molto, però mi ha entusiasmato molto meno di Casino e di Quei bravi ragazzi. Certo, opere diverse, ma ho colto una direzione artistica meno matura in quest’ultimo. Mentre la padronanza del mezzo, per Scorsese, è ormai alle stelle, completa.
Di Caprio è un mostro che catalizza il film su di sé e ho trovato gli equilibri tra protagonista e vicenda, sbilanciarsi man mano che si avvicinava l’epilogo, purtroppo.
Una nota negativa, a mio avviso, è la scelta di Margot Robbie (se non ricordo male il nome) chiamata a impersonare la seconda moglie di Belfort. Se si pensa al potenziale espresso tra la Stone e De Niro in Casino e questo tra lei e Di Caprio, mi vien male. Amy Adams sarebbe stata probabilmente la migliore da scegliersi.
Mi è dispiaciuto leggere del litigio con un utente di questo Blog, spero con tutto il cuore che ci sarà modo di migliorarsi tutti.
Buon lavoro e buon arricchimento
Bellissima lettura. Non so, però, fino a che punto il film non abbia natura, come Lei dice, di Bildungsroman. Se da una parte, infatti, il film descrive un mondo senza valori, senza scrupoli e, quel che è peggio, senza rimorsi e senza redenzione, dall’altra è di tutta evidenza come il regista e gli spettatori non provino certo sentimenti compiacenti o, semplicemente indifferenti, nei confronti di questa faccia della realtà.
Prova ne sia che Lei stesso, giustamente, chiude la Sua recensione dicendo “Forse è proprio il caso di provare a prendere un’altra strada”.
La difficoltà è cogliere i segnali per comprendere se, questo film, comunque faccia parte di una certa propaganda. Cosa che ho rilevato ad esempio in Shutter Island, sempre di Scorsese, ma il discorso si complica.
Pregiatissimo Dottor Bianchi,
Lei ha disossato il film di Scorsese, insomma, l’ha fatto, in termini molto più semplici, a pezzettini. E’ riuscito, nella Sua encomiabile analisi, a rendere la Complessità come soggetto primario ed a spiegare quanto questa Complessità sia fatta di elementi apparentemente antitetici eppure in relazione tra loro, tramite uno o più denominatori comuni: quelli che permettono alla Complessità, in questo caso al Capitalismo, di mantenere forma ed efficacia e capacità distruttiva ed autodistruttiva.
In fondo, non viviamo forse in una società dove forme diverse che sembrano combattersi, riescono ad inglobarci, privandoci ogni giorno di Spazi Vitali, dentro e fuori di Noi, mentre ci dicono, tramite una disinformazione mirata, che sono nostra sostanza di vita ?
Credo che una via di salvezza possa trovarsi nella capacità che ogni singolo individuo possiede, ovvero nella capacità di mettersi e mettere in discussione, scalzando le maschere che cercano di impedire ad un rinnovato Umanesimo di ritrovare l’ Autenticità dell’Essere.
Cordialmente,
Fausto Soregaroli
“Sell me this pen”, la battuta finale del film, per me suggerisce l’idea che capitalismo e individuo possono tornare a volersi bene. Quindi non condivido il giudizio secondo cui questo non è (anche) un romanzo di formazione. Alla fine pure piuttosto banalotto e rifritto in olio molto vecchio, visto che fioccano da tutti i lati le didascalie alle didascalie lacaniane.
Il ritmo e Di Caprio tengono desta l’attenzione. Ma i meriti filosofici io non li vedo, soprattutto considerato che non c’è un solo tratto femminile non sessuale degno del minimo interesse, da nessuna parte, mai. In tre ore di narrazione una cosa così è semplicemente stupida, non testimonia la riduzione della donna a merce.
Questa analisi di Bianchi racconta in maniera egregia il declino dell’occidente. Mi chiedo se l’ autore abbia per caso letto, il saggio di Beatrice Balsamo sul mito di Antigone: la sorella che salva. L’imperativo dittatoriale del”godi godi godi” si declina ormai in ogni ambito relazionale del nostro sistema. Dopo la caduta degli dei, ecco la caduta dell’umano, un precipizio senza fondo, il vuoto del narcisismo patologico imperante. L’impero appunto dei non sensi, perché senza limite non può esserci vero godimento. (Basta leggere i testi di Massimo Recalcati inerenti alla tematica del desiderio ) . L’immaginario collettivo della cinematografia statunitense lavora su differenti piani simbolici, e Scorzese sa maneggiare gli archetipi, all’interno di un contenitore etico. Purtroppo nessuno ormai si sofferma sul significato profondo di questo termine, che ci fa dono del limite ma anche del libero arbitrio. Il viaggio dell’eroe così caro agli sceneggiatori americani si spoglia del vero godimento che si possa provare nel tornare a casa dopo il superamento delle prove. In un mondo popolato solo da antagonisti , cosa resta oltre la libera scelta? Andrò a vedere il film con il filtro di una bellissima condivisione. Ponendomi il limite del pensiero fecondo dell’altro.
Il protagonista di Casinò non cresce, non si evolve, non impara nulla. Nemmeno quelli di Quei bravi ragazzi o Toro scatenato. Di solito sono personaggi sconfitti dalla legge o dalla vita stessa, ma che si battono e ricominciano. In Taxi Driver c’è l’annichilimento. Insomma il Bildungsroman in Scorsese non c’è mai stato. In the Wolf of wall street è vero che che la realtà scompare per divenire un ‘trip’ anestetico e anestetizzante, ma il punto centrale è che questo mondo drogato, pompato, esaltato, e illegale ordina e guida la nostra società. Scorsese non parla del mondo della finanza, ma del nostro mondo. Che è dominato da bestie (vedi il leone, orso, lupo iniziali) ed è bestiale: ecco perchè scompare l’affettività. Il nostro mondo reale, guidato da chi prova a vivere nel surreale (la Ferrari bianca e la villa con piscina e l’angelo biondo/moglie e la droga e il lago marziano di Ginevra) è un inferno dantesco. Vedi il leone (la pubblicità iniziale), ecco la Lupa (the wolf), ecco la Lonza (la lussuria di tutto il film). E se Bedford alla fine del film ricomincia, ricomincia non perchè la legge non lo frena (la legge è ibernata nel freddo dei condizionatori o arriva in netto ritardo, come l’agente dell’FBI), ma perchè è in un girone infernale: tutto ruota. Tutto ricomincia.
‘Quanto alla storia dei diritti, noi la pensiamo come Pasolini: “A) Le persone più adorabili sono quelle che non sanno di avere dei diritti. B) Sono adorabili anche le persone che, pur sapendo di avere dei diritti, non li pretendono o addirittura ci rinunciano”.’
Giustificare la censura di un commento critico con una citazione fuori contesto di Pasolini è veramente encomiabile, degno dell’inquisitore che si appella al santo patrono. Pasolini parlava della dignità delle persone umili, non della presunzione dei blogger censori.
Riguardo alla recensione del film: penso che nessuno abbia visto il film come Bildungsroman. La sua cifra stilistica sta nell’eccesso grottesco e nella comicità senza freni, che assume connotati sempre più irreali. Forse sarebbe stato più interessante capire chi è questo Jordan Belfort che decide di scrivere un libro sulle proprie esperienze (magari proprio per rifarsi con un successo editoriale dal discredito e dalla miseria?). Ma evidentemente Scorsese non aveva in mente qualcosa di così insolito.
@ Francesco Tamburini
non abbiamo censurato un “commento critico”. Se lei legge i nostri commenti, troverà moltissimi “commenti critici”, compreso il suo, che infatti pubblichiamo senza alcun problema, perché ha un contenuto.
Invece il commento che abbiamo censurato rientrava in un modo di intendere la discussione culturale che troviamo inutile, gratuito e implicitamente offensivo. E’ per questo che non lo abbiamo pubblicato.
Ci sarebbe un solo modo per porre fine alla discussione: pubblicare l’intervento incriminato. In modo da far giudicare autonomamente i lettori sul contenuto del commento e sulla qualità del suo scrittore. Da uomini di lettere dovreste sapere che la miglior critica è la realtà stessa, nuda e senza veli. Lasciate che l’inutilità, la gratuità e l’arroganza dello scrittore, se veramente esistono, si palesi dalle sue parole e non dal giudizio che voi date di esse.
Gli altri interventi dell’autore non solo hanno già riassunto il contenuto del messaggio censurato, ma, benché in tono piccato, sono scritti senza offese personali ed in tono civile. La reiterata rinuncia a pubblicare il commento sembra più fondata su una questione di principio che di contenuto.
Bisognerebbe distinguere attentamente il troll e la semplice provocazione.
“Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere e chi rifiuta di essere scandalizzato è un moralista, il cosiddetto moralista”.
@ Michele
Coraggio Michele, insisti. Agli inizi di quest’esperienza di LE PAROLE E LE COSE anch’io mi sono beccato l’accusa di essere un troll. Poi penso che almeno un po’ si siano ricreduti. E, se non hai ragioni serie per non usare nome e cognome reali, presentati per quello che sei altrove. Ad es. tra i tuoi amici, ecc.
@Francesco Tamburini
Questo sito ha le sue regole:
http://www.leparoleelecose.it/?p=12167
Nascono dall’esperienza, sono semplici e funzionano. E’ grazie a queste norme che la discussione su LPLC si è sempre mantenuta vivace, interessante e civile: lo chieda a Ennio Abate. Non cambieremo certo per Michele.
Tra l’altro le regole servono a evitare quello che sta accadendo in questo post, e cioè che il dibattito sui commenti o su presunte questioni di principio distolga l’attenzione dall’argomento del post. Nei giorni scorsi abbiamo fatto un’eccezione, da ora in avanti ritorniamo alla regola. Questo è l’ultimo commento sul tema dei commenti. Nessuno è obbligato a seguire LPLC se non condivide le nostre forme di moderazione.
premetto che in se il testo di questa critica è molto bello come ho scritto alcuni interventi fa. non avevo ancora visto il film. dopo aver visto il film le mie idee a proposito del fatto che questo testo e il film abbiano una qualche convergenza sono venute completamente a mancare. il testo dice cose plausibili in se, e le dice con una grandissima maestria, sulle cose che il film evoca a mio modo di vedere in una ottica completamente diversa.
UNA POSTILLA SUI LUPI DI WALL STREET
«There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about». O. Wilde
a un certo punto una giornalista di Fox magazine , emblema di wall street. ( volpi contro lupi) fa un articolo sul nostro eroe che incazzatissimo dice alla moglie che quella troia gli ha fatto una stroncatura in piena regola chiamandolo “il lupo di wall street” al che sua moglie gli dice però stai bene con i capelli ( cioè risulti comunque simpatico, sei bello) e aggiunge “io so che non esiste una pubblicità negativa” ,frase capitale ..E INFATTI…”fox aveva fatto di me un eroe” dice l’io narrante. “il giorno dopo ero assediato da giovani con il mito della ricchezza che volevano lavorare con me” ecco in questo passaggio c’è una specie di outing inconscio del vero rapporto che il film ha con il mondo che vorrebbe stroncare, che appunto coincide con la formula di Guy debord “tutto ciò che è rappresentato è buono, tutto ciò che non è rappresentato è cattivo” (societa dello spettacolo 1968). come la apparente stroncatura di fox magazine è l’inizio della vera apoteosi del nostro eroe, cosi questo film non è che l’ennesima “cattiva pubblicità” che il mondo del feticismo della merce, che possiede anche le condizioni della produzioni dello spettacolo, cioe i soldini per fare questi filmini, produce su se stesso per attestare faraonicamente il mito del suo potere, che in quanto potere sovrano, cioè quel potere che è in grado di eccepire ogni regola, se ne fotte di ogni morale vigente nella down town degli schiavi, quella per intenderci che si vede in un fugace piano sulla metropolitana dove il poliziotto(/tribuno della plebe, che ha ucciso il lupo torna a casa e dove i tristi personaggi , silenti comparse, ombre della vita, sono aneu logou- senza voce,-ovvero senza autorità politica- modo con cui i greci chiamavano gli schiavi ( ben diversa è la metropolitana del cielo sopra berlino invece dove Wenders ci fa sentire le voci interiori piene di umanità ). Concludendo questa brevissima postilla : non importa che uno dei lupi sia stato ucciso. la foresta dove essi vivono e straziano le loro vittime è più florida che mai e questo film ne canta l’epos….
best regard. David Colantoni.
Manca completamente, nell’analisi fatta, la cosapevolezza che le azioni di Jordan sono liberatorie per lui stesso e tutti i suoi dipendenti. La vita del suo amico, istituzionalizzata nel matrimonio, è un inferno, come è infernale la metropolitana che porta a casa il suo antagonista. Quando lo inquadrano dopo il processo, sembra quasi che egli si chieda se vale la pena lavorare per un sistema legale che ritiene onesta la miseria e l’annullamento personale, ma punisce la vitalità e quell'”andare oltre” che sono proprie della natura dell’essere umano libero.
Complimenti al giornalista. Testo veramente descrittivo, di un mondo fatto solo di “pulsioni”, Forse l’unica immagine del capitalismo è la pulsione stessa( e se si… Quale?!? visto che non si fermano davanti a nulla)