di Rino Genovese
[Esce in questi giorni, edito da Manifestolibri, L’altro Occidente. Dall’Avana a Buenos Aires, di Rino Genovese, volume che raccoglie Cuba, falso diario e Tango italiano, due singolari, personalissimi, antiesotici libri di viaggio apparsi negli anni Novanta e da tempo irreperibili in libreria. Si tratta di opere di grande interesse, tra l’altro, per la maturazione di un gusto e più precisamente di un genere letterario che sarebbe diventano addirittura di moda nel decennio successivo, e che potremmo definire, con Genovese, “falso diario”. Anticipiamo la Prefazione che l’autore ha scritto per questa nuova ristampa e ringraziamo l’editore per averci permesso di riprodurla].
I due brevi lavori riuniti qui in un unico volume sono stati scritti tra il 1991 e il 1997, e apparvero separatamente in prima edizione presso l’editore Bollati Boringhieri di Torino rispettivamente nel 1993 (Cuba, falso diario) e nel 1997 (Tango italiano). Si tratta di libri di viaggio dotati di una duplice peculiarità, così da essere qualcosa di diverso dai libri di viaggio puri e semplici. La prima caratteristica è che si propongono come dei piccoli saggi storico-politici sulla situazione del mondo dopo la fine del comunismo sovietico – con riferimento ai destini del regime cubano, nato a differenza di altri da un’autentica rivoluzione, a quelli della martoriata vita sociale e politica argentina, ma anche nel confronto con un’Italia che proprio allora si stava cacciando in quel buio da cui non è ancora uscita. La seconda è che sono, al tempo stesso, tra i primi esempi italiani di ciò che oggi si è soliti chiamare autofinzione nel senso di un’autobiografia di fatti non accaduti, o parzialmente accaduti, per riprendere una definizione di colui diventato un campione del genere, Walter Siti. Tre piani tra loro connessi, dunque: il reportage, il momento della riflessione saggistica e quello più propriamente narrativo.
Quando incontrai Giulio Bollati, a cui avevo spedito il manoscritto che di lì a qualche mese sarebbe diventato il Cuba, falso diario, la prima cosa che mi disse fu: «Ma tu a Cuba ci sei veramente stato?». La domanda non era affatto peregrina, e anzi dimostrava l’acuta sensibilità di lettori come Giulio e la sua compagna e collaboratrice Agnese Incisa. Nell’isola ero sbarcato ben due volte nel corso del 1991: vi avevo incontrato delle persone (durante il difficile período especial susseguente alla perdita degli aiuti economici provenienti dai paesi del «campo socialista»), ma ne avevo scritto come in sogno, reinventando i personaggi reali nel segno della mia nostalgia per un passato rivoluzionario che non era stato o era stato solo in minima parte: sicché, a causa della maniera stessa in cui l’avevo scritto, si poteva presumere che si trattasse di un lavoro di pura fantasia. (Del resto non sono, non sono mai stato un viaggiatore: la trasvolata dell’Atlantico è già per me un’impresa eroica, e le radici intellettuali francofortesi mi hanno indotto a guardare sempre con sospetto il turismo, anche quello politico-culturale, come una forma di esperienza sostanzialmente impossibile, in ogni caso più o meno prefabbricata). Così il titolo che fu scelto, quel falso diario, e anche lo slogan che apparve in quarta di copertina, quasi un ossimoro – «un reportage obiettivo da un’isola della fantasia» –, avrebbero dovuto mettere sull’avviso il lettore.
Invece la cosa non fu recepita. Ci furono sì diverse recensioni (ne ricordo una malevola di un «pentito», Pierluigi Battista, già giornalista del manifesto, e un’altra al contrario molto favorevole di Maurizio Chierici), ma erano incentrate sulla questione relativamente secondaria «Cuba sì, Cuba no». Non fu compreso lo sforzo di riprendere, attraverso lo strumento del sogno, i fili di una storia che era stata anche nostra come sinistra europea e italiana con simpatie terzomondiste. Da una parte, i duri e puri di Rifondazione comunista, per lo più, mi rimproveravano di criticare il regime castrista, e dall’altra gli ex, diventati nel frattempo liberaldemocratici o conservatori, di Cuba e della sua dittatura non volevano più sentir parlare. A me l’isola e la sua storia interessavano soprattutto per ciò che eravamo stati noi, per come avevamo considerato o dimenticato noi stessi nello scorrere degli anni e nel mutare delle situazioni, per capire in che cosa i nostri giudizi sul «socialismo reale» si erano rivelati sbagliati, anche quando avevamo duramente criticato quel sistema, e in che modo potesse proseguire la lotta per la trasformazione della società. Ciò che per me era importante era estrarre un succo, affettivo e conoscitivo, dalla drammatica vicenda che non eravamo stati capaci d’intravedere, cioè dal crollo di quel mondo di cui Cuba faceva parte. Il mio io narrante, il personaggio autobiografico in cui mi ero transustanziato, andava perciò a Cuba come si va in un vivente museo delle difficoltà incontrate dalle rivoluzioni del Novecento, in particolare da quelle nel terzo mondo, che erano state poi le uniche vincenti dopo l’ottobre sovietico.
[…] Il libro commercialmente non andò male, anche se non sfondò. Bollati non riuscì a vendere le seimila copie di cui aveva fantasticato all’inizio, ma circa quattromila sì. Il mercato, già in quegli anni, non era facile per una casa editrice medio-piccola e indipendente come la sua (me l’aveva scritto lui stesso in una lettera di qualche tempo prima rifiutando a malincuore un mio libretto precedente molto più radicale, che gli sarebbe piaciuto pubblicare, ma per il quale gli sembrava che non ci fosse mercato): però il mancato maggiore successo di Cuba, falso diario (sotto certi aspetti addirittura «ruffiano» nei confronti del lettore) si spiega proprio con il fatto che la sinistra italiana in quel momento stava cambiando pelle e non voleva che le si ricordasse di essere stata filocastrista. Con Aldo Garzia, che avevo conosciuto dopo l’uscita del libro e a Cuba era stato a lungo come inviato del suo giornale, ne parlavamo spesso. Intorno all’isola c’erano o la rimozione o l’esaltazione, mai un atteggiamento critico capace di volgere lo sguardo all’indietro, magari con ironia nei confronti delle delusioni trascorse, e tuttavia disponibile a proiettarsi in avanti per riprendere un discorso socialista su altre basi.
Sull’onda del piccolo successo ottenuto con il primo libro, fu concepito il secondo, Tango italiano: un viaggio a Buenos Aires in cui, nel paragone costante con l’Italia, avrei dovuto cercare di cogliere il nucleo emotivo di quel paese lontano e insieme così vicino al nostro. Nel mio viaggio trovai un’Argentina che mostrava le piaghe della tragedia vissuta sotto la dittatura militare e follemente proiettata verso quel crac cui il neoliberismo, anche questo in salsa peronista, di lì a qualche anno l’avrebbe condotta. Dal punto di vista letterario la strategia dell’autofinzione era ancora più accentuata, con il personaggio autobiografico che fin dalle prime pagine dichiara di chiamarsi proprio come me; il viaggio sarebbe stato più che vissuto rivissuto in una specie di trance, grazie all’apporto stilistico di una narrazione all’imperfetto proustiano e, tematicamente, mediante un io narrante in costante stato di semiubriachezza. Il tutto avrebbe dovuto rendere la grande malinconia argentina, connaturata al paese in quanto terra d’immigrazione, e rafforzata da ultimo dalla fitta popolazione di morti desaparecidos.
Il fiasco fu pressoché totale. C’era stata la scomparsa di Bollati, che mi aveva gettato in uno sconforto via via aggravatosi anche per altri motivi e da cui sarei uscito solo molti anni dopo. La sua casa editrice, già con qualche difficoltà finanziaria ma priva ormai di una guida, aveva cominciato a fare acqua da tutte le parti. Di Tango italiano furono imprudentemente tirate tramilacinquecento copie, se ne vendettero poco più di mille; il resto, nel tempo, è andato al macero o è finito nelle librerie della seconda scelta. Mi piace comunque ricordare le recensioni di Filippo La Porta, piuttosto contraria, e quella di Massimo Onofri in particolare sintonia. Il libro, come mi disse Antonio Moresco con cui organizzai qualche presentazione comune (in quello stesso 1997 era uscita la prima edizione del suo Lettere a nessuno), era più interessante di quello cubano, più sofferto, con la morte argentina onnipresente, e in effetti ci avevo lavorato cercando di dare fondo a tutte le mie capacità espressive. Ma niente. Compresi allora che la macchina editoriale, il suo impegno, il suo spendersi o no per sostenere un titolo, sono determinanti per decretarne il sucesso o l’insuccesso. C’è però un elemento intrinseco all’opera che la rende più «difficile» del precedente testo su Cuba. Si tratta di un motivo più strettamente filosofico incardinato nella mia biografia intellettuale.
Questo motivo (che ho ripreso in altra chiave nel Trattato dei vincoli, uscito con molto ritardo nel 2009) ha a che fare con l’immagine del labirinto, del resto così essenziale in Borges e nella cultura latinoamericana. Con Moresco, con Carla Benedetti, anche con Sandro Bernardi, parlavamo spesso del labirinto e del modo in cui criticarlo. Non ci soddisfaceva l’idea di una letteratura tutta autoreferenziale e intertestuale che a quella immagine era legata. Un libro che conduce a un altro libro, poi a un altro ancora, la biblioteca infinita dentro cui ci si perde, come se nel mondo delle lettere non ci fosse mai la possibilità, o meglio il dovere, di cercare, scrivendo e leggendo, di fare riferimento a qualcosa di esterno alla letteratura. Esiste pure una versione storico-politica del labirinto che ha a che fare con l’eterogenesi dei fini. La si ritrova in Il generale nel suo labirinto di García Márquez (che a un certo punto è citato in Cuba, falso diario): Simón Bolívar, in conclusione di una vita dedicata alla causa dell’unità sudamericana, si rende conto di aver fallito e di essere prigioniero di un labirinto da cui non uscirà più. Stando a certe letture, l’autore, amico personale di Fidel, lo avrebbe indirettamente raffigurato attraverso il capostipite dei caudillos sudamericani, volendo mostrare come quasi inevitabilmente una rivoluzione si cacci in un labirinto. Sarebbe la rappresentazione della inanità degli umani sforzi. Come che sia – anche se non si accetta questa visione tardomoderna o, a seconda dei gusti, postmoderna, sostanzialmente il portato di un’impasse cui ci si rassegna –, è impensabile trattare dell’America latina senza confrontarsi con l’immagine del labirinto. Anche perché essa ha degli immediati punti di contatto con una determinata prospettiva filosofica europea. Labirintica è un’ermeneutica che, di testo in testo, d’interpretazione in interpretazione, rischia di smarrire il quid della ricerca in una sorta di gioco di specchi con la verità. Borges, d’altronde, può essere letto come un allievo sui generis di Schopenhauer e, più indietro, dell’idealismo soggettivo di Berkeley: ogni saldezza della conoscenza si sbriciola sotto un apparato conoscitivo puramente mentale, senza che nemmeno sia possibile distinguere la vita vigile dal sogno.
Moresco, da naturalista leopardiano attento ai corpi e ai loro destini planetari e cosmici, ritiene che quella del labirinto sia un’immagine del tutto falsa in quanto nell’esistenza di ciascuno si dà una freccia visibilissima che ne indica l’uscita, cioè la morte. Ma le cose non stanno proprio così, in quanto, come la tragedia dei desaparecidos insegna, la morte stessa può essere soltanto l’estrema propaggine del labirinto in cui i corpi stessi sono inghiottiti. Ciò è tematizzato in Tango italiano, come il lettore scoprirà da sé, mediante la perdita da scomparsa alla cui prova anche l’io narrante è sottoposto.
Ma c’è di più: il mio libro non propone una semplice liquidazione del labirinto quanto piuttosto una sua critica dall’interno. La tesi è questa: se anche tutto fosse solo labirinto, perfino la morte, il fatto stesso che viviamo e comunichiamo implica che un’uscita dal labirinto continuamente la cerchiamo e la troviamo vivendo. In maniera implicita è la riproposizione, nonostante le catastrofi del Novecento, di quelle «illusioni» leopardiane – prima tra tutte quella del progresso – senza le quali nessuno potrebbe vivere. È la modernità stessa, pur inceppata, che si rianima per il semplice fatto che ci sia qualcuno disposto a credere alle sue promesse e a tentare di realizzarle. In analogia con il pensiero di Hume – secondo cui noi giudichiamo così come respiriamo, perché non possiamo esimerci dal giudicare come dal respirare –, l’incessante e inevitabile attribuzione di realtà su quelle che, da un punto di vista metastorico, sono illusioni, fa sì che la modernità e il suo movimento, nonostante tutto, non restino intrappolati nel labirinto.
Alla fine è ancora un’apertura progressista quella che si può ricavare dai miei due piccoli libri riuniti insieme. E non potrebbe essere diversamente per chi propone il socialismo, sia pure come utopia e non come scienza. Mi consola poter pensare che furono proprio delle divergenze intellettuali e politiche intorno a questo punto centrale, e non dei banali dissapori, a staccarmi dai miei amici di allora, quelli con cui per un momento trovai una sponda nella Bollati Boringhieri. Raramente i libri sono il frutto di un ingegno solitario, più spesso sono il risultato di un contesto, di un insieme di incontri, di discussioni, di passioni comuni e contrastanti. Tango italiano lo fu al massimo grado. Forse proprio per questo, con il dissolversi di quel contesto, non poteva che riconsegnarmi alla mia solitudine di autore.
[Immagine: Fidel Castro e Diego Armando Maradona].
Ho letto i libri di Genovese, sono belli. Quello che mi colpisce leggendo la nuova introduzione è l’estrema sincerità dell’autore. Che parla di insuccesso, di perdite. E valorizza il sentimento dell’amicizia e della collaborazione. Grazie, Rino.
I liberali,viste le condizioni in cui si trovano i paesi occidentali, dovrebbero finirla di chiamare Castro ‘caudillo’, tener conto delle condizioni in cui si è trovata Cuba , e quelle in cui si trova la gran parte della popolazione in Occidente. Con il pensiero unico e il mercato globale non abbiamo molte speranze di vivere in un mondo decente, tra lobby, oligarchie corrotte, banche, e paesi dove i bambini non possono sopravvivere.Abbiamo fatto già abbastanza danni con guerre, mercati, spoliazione di materie prime.
Adesso speriamo nell’America Latina, che prima gli si trova dalle nostre parti.USA avevano riempito di feroci dittatori, e di tirannie crudeli. Non c’è libertà se ci si muore di fame. Se non c’è lavoro. Ora si tende al lavoro schiavile.
Le acque si muovono, le correnti anche ed emergeranno prima o poi. Il progresso non si trova dalle nostre parti.
Seavete soldi fate i liberali, se non li avete, e se vivete con poco, aspettate che la specie umana rinsavisca. Deve succedere.
Incuriosito dall’argomento e soprattutto dalla patente di autofinzione rivendicata da Genovese, mi sono procurato nelle vecchie edizioni della Bollati “Cuba falso diario” e “Tango argentino”. Ecco, non so di preciso se essi corrispondano all’idea di autofiction che sto approfondendo nelle mie ricerche, dacché il mio approccio è vicino alle idee di Genette, Colonna e ad alcune cose di Donnarumma nel marcare una netta distinzione fra (in linea teorica) autobiografia veridica e racconto d’invenzione, ma non è questo l’importante. Volevo solo dire che ho trovato i due libri di straordinario interesse, a rileggerli vent’anni dopo alla luce di quanto è avvenuto dall’una e dall’altra parte dell’Atlantico, narrazioni molto efficaci e degne di un romanziere autentico, coinvolgenti e capaci di riflessione filosofica, anche se, mi pare, la partenza e l’arrivo rientrano nel dominio più proprio di molta letteratura novecentesca (-inizio una ricerca alla cieca, non conosco nè l’oggetto nè me che lo osservo, realizzo che non c’è un senso alla fine delle peripezie, fallisco con dignità la mia inchiesta-).
Al tempo stesso, e mi rivolgo direttamente a Genovese, vorrei fare una domanda magari inopportuna. Sono stato studente alla Normale per un paio d’anni, mi diplomo quest’anno, e non credo di averla mai vista, né alcuno degli studenti di filosofia che conosco ha mai lavorato con Lei. Sta ancora a Pisa? Terrà dei corsi prima o poi? Gli argomenti di cui parla mi interessano parecchio.
Caro Marchese, visto che ti sei procurato le vecchie edizioni per premio hai diritto alla nuova, che volentieri ti invierò: il mio indirizzo di posta elettronica è rinogeno@tiscali.it. Che io sia molto novecentesco, nel bene o nel male, è vero. Mi sono ritirato dall’attività seminariale in Normale già dal 2005. Non ho corsi da nessun’altra parte. Il pessimismo italiano nel frattempo mi ha travolto. Ciò non toglie che potrei riprendere prima o poi.