di Giorgio Falco
[Oggi termina la stagione venatoria. Questo è il pezzo che ho scritto per l’apertura della caccia. Pubblicato da «Repubblica» il 15 settembre 2013].
Dimentichiamo per qualche minuto l’epica di Hemingway e Faulkner: l’odore del legno al risveglio, il rumore dei passi sulle travi del pavimento, l’aroma affumicato di una colazione prima dell’alba, la preparazione dei fucili, il rumore delle gocce d’acqua sulle foglie, ci guardiamo, mentre sdoppiati siamo dentro, al tepore delle finestre illuminate. Intorno, le foreste del Mississipi, i boschi del lago Michigan, il primo vento d’autunno che soffia tra le foglie arancioni, insieme ai guaiti dei cani, prima distanti e poi sempre più vicini, assecondano il nostro respiro. Le nuvole minacciano qualcosa di più della pioggia, una premonizione per i fili d’erba, e da lì a salire, fino a noi. Niente di tutto questo.
È solo un luogo d’Italia, una quindicina di chilometri a sud ovest di Milano, giorni qualsiasi di questa nostra epoca. Vi si arriva seguendo la pista ciclabile parallela al Naviglio Grande, in mezzo a una parola un po’ desueta che mi piace ancora molto: hinterland. Si passa sotto il ponte della Tangenziale Ovest. In quel tratto – dove sono affissi vecchi manifesti abusivi di un circo, con le tigri che ruggiscono a salve – c’è un momento in cui il sole è nascosto proprio dietro la struttura di ferro e cemento, irradia raggi sopra e sotto, ma in controluce il nucleo sospeso sembra quasi spento, costituito da cenere tiepida, soprattutto se le auto proseguono lente, incolonnate, ferme sopra le nostre teste, e allora possiamo fissare quelle forme con un senso di comunanza, di quiete. Ma dura molto poco. È l’unico luogo dove correre, ho paura di essere investito a ogni passaggio di bicicletta, scooter e persino da qualche auto che passa sulla pista ciclabile reclamando il proprio posto nel mondo. Ai lati, la Statale 494 decaduta a Provinciale 59. I campi del Parco Agricolo Sud di Milano – tra le coltivazioni intensive di mais tenute in vita dalla chimica e le pigre piroette dei trattori – ricordano le stagioni, la fine dell’estate, l’inizio della caccia.
Anche in chi corre lentamente come me, scatta un picco di endorfine, che nel mio caso non regala tanto la sensazione di euforia, quanto l’accelerazione del visibile, ogni cosa del passato e dell’immediato futuro diviene un presente gigante, dai contorni nitidi, come quando vediamo i rami degli alberi spogli o il gesticolare di un uomo nella mezzora prima del tramonto. La seconda domenica dopo Ferragosto, corro adiacente a un campo di mais, le spighe quasi mature. C’è questo cacciatore settantenne, un disarmato d’agosto, insieme ai suoi cani da caccia, muta invisibile tra migliaia di pannocchie, li sento abbaiare e ansimare sul lato sinistro, rovistano tra i fusti di mais, i latrati si avvicinano, forse trovano una preda, immagino un fagiano, un coniglio selvatico, una lepre stanca dopo metri di zig zag tra i paletti di cereali, è circondata a pochi passi da me che non vedo, se non il mais alto due metri. Il cacciatore fischia un suono di richiamo, urla una lingua incomprensibile, lievita rauca dalla terra, cammina appoggiando un bastone, stringe qualcosa di segreto nella mano, forse vi racchiude la ricompensa per i cani. Li allena, lo stabilisce la legge, la giurisdizione vorrebbe mediare l’usanza antichissima, la legge dice che l’allenamento non può avvenire in un campo coltivato: infinite norme senza qualcuno che poi le faccia davvero rispettare, l’unica regola è quella di farcela, tornare a casa salvi anche stavolta.
E allora mentre corro, ripenso a mio padre, a quell’unica volta che è andato a caccia, invitato da due colleghi. Non c’era la finzione di enti e parchi per recintare la gentilezza ed escludere il resto. Era il 1971, esisteva ancora lo spazio, le marcite dei monaci cistercensi arrivati dalla Francia, il lascito di Leonardo da Vinci, la sua geniale ripartizione idrica del mondo, canali, rogge, fontanili, un’idea aggredita da politica e ‘ndrangheta: nuove case invendute, capannoni metafisici, progetti di inutili tangenziali. Il sabato pomeriggio rivedo mio padre trentaseienne, prova l’abbigliamento dell’indomani, gli stivali che calza quando lava la macchina, cammina su e giù nel corridoio, a disagio, i pantaloni infilati negli stivali, una camicia incongrua, azzurra venatoria impiegatizia, sotto un giaccone leggero qualsiasi. I colleghi sono due fratelli, l’appuntamento è alle cinque di domenica mattina: suonano il citofono alle tre. Mio padre risponde assonnato, si veste in fretta, ascolto dal mio letto il rumore degli stivali sulle piastrelle, la pacifica uscita dalla porta.
Si accomoda nel sedile posteriore, manca il pianale, le canne dei fucili sbucano dal bagagliaio, si scosta in un angolo, come se ci fosse un quarto collega accanto. I due fratelli vagano dal sabato sera. Si fermano davanti a una trattoria chiusa, gestita da loro amici. Scende il più giovane dei due, bussa in penombra, apre un vecchio assonnato che accende la luce, il fratello minore torna con tre bottiglie di vino rosso. Imboccano la strada in direzione del Ticino, mio padre non sa bene cosa dire, quei due davanti non sembrano neanche i suoi colleghi. Parcheggiano lungo una strada sterrata, mio padre si offre di portare le bottiglie per rendersi utile, non ha la licenza di caccia, se non fosse per gli stivali, sembra uno a cui hanno dato un passaggio. I fratelli scendono in mezze maniche di camicia, prendono i due fucili, è una fresca nottata di settembre, la luna illumina d’argento il ramo del fiume. Si siedono lungo la riva, parlano di lavoro e di cosa cacceranno appena sarà l’alba, ti devi sempre portare a casa qualcosa, si addormentano cullati dal rumore dell’acqua, mio padre li veglia fumando, i corpi accanto ai fucili.
I capannoni intervallati al mais sono alla mia destra. Se fosse un giorno feriale sentirei l’odore di solvente che esce dai filtri di uno stabilimento. Oggi è domenica, l’azienda è chiusa, sono aperti molti supermercati e centri commerciali. Il parcheggio del superstore è ancora vuoto alle nove, ma il magazzino di ricevimento merci brulica di camion e furgoni, entrano in retromarcia, per essere pronti a ripartire veloci. La grande saracinesca è sempre sollevata, l’interno è buio, in qualsiasi stagione dell’anno spiccano le grandi luci al neon conficcate nel soffitto. Devono esserci molti altoparlanti nel magazzino, gli annunci delle cassiere risuonano fino a me che corro, la cadenza cantilenante sulle sillabe finali: un addetto ortofrutta alla cassa cinque, un prezzo alla cassa dieci, Compagnia dei Servizi alla cassa centrale. Il dlin dlon della merce invade anche il campo sul retro, la strada, le invenzioni dei monaci e di Leonardo da Vinci, la caccia. L’anno scorso ho visto un cacciatore appostato sotto una pianta a cento metri dal magazzino del superstore. Sparava tra un dlin dlon e l’altro, sollevando il fucile quasi in perpendicolare, come un contadino quando raccoglie le olive e aggancia i rami della pianta, scuotendoli per far cadere più olive possibili. Alcuni uccelli sono volati via verso il parcheggio, soglia tra una civiltà e l’altra, un angolo di terra dell’hinterland sud di Milano.
Quando smetto di correre tra gli spari rinnovati, mi rimbombano le orecchie, non solo per i proiettili, la morte e la vita, ma anche per il fischio intervallato a quella lingua incomprensibile d’agosto, né italiano e neppure dialetto, idioma senza un significato evidente se non nella continua riproposizione, resistente al dlin dlon della cassiera, la lingua del vecchio cacciatore che allena i propri segugi sotto il sole estivo, frantuma le sillabe e lancia la propria conoscenza ai cani, alle lepri, a me che senza cronometro e cardiofrequenzimetro appoggio l’indice e il medio sulla superficie delle vene, ascolto i battiti del polso, il sangue pulsa sotto le mie dita.
[Immagine: Lewis Baltz, da The New Industrial Parks near Irvine, California (gf)].