di Gayatri Chakravorty Spivak
Intervista a cura di Ben Conisbee Baer; traduzione di Daniele Balicco
[Questa intervista è uscita sul numero 67 di «Allegoria»].
Gayatri Chakravorty Spivak: C’è qualcosa di stranamente appropriato nell’essere seduti qui, oggi,[1] a New York, a ricordare Edward Said. Edward è stato un importante newyorkese, un intellettuale profondamente coinvolto nella vita di questa città. Per cause geopolitiche, non è riuscito a essere cittadino di un luogo “reale” chiamato Palestina. È stato “tecnicamente” un arabo-americano, anche se è difficile pensarlo come un americano; mentre è normale pensarlo come un cittadino newyorkese.
La storia della sua vita è un buon esempio per iniziare a distinguere fra città-stato (essere cittadini di New York) e stato-nazione (essere cittadini americani). Oggi, con la globalizzazione, gli stati stanno iniziando a perdere potere e privilegi, mentre l’equilibrio fra nazione e città inizia ad essere reinventato. Nella nuova società dell’informazione, alcune metropoli stanno diventando sempre più importanti per conto proprio a differenza di quanto accadeva nel sistema precedente, dove le identità urbane e l’appartenenza nazionale erano sì in conflitto, ma in modo diverso.
Questo nuovo conflitto fra città e nazione ha giocato un ruolo importante nella vita di Said. Consideriamo l’attentato dell’11 settembre. Quello che è successo sconvolse Edward in due modi differenti. Come abitante di New York, rimase intimamente ferito dal successo dell’attacco terroristico. Ma in che modo vi fu coinvolto come arabo? Edward avrebbe voluto, un giorno, poter rivendicare un’identità nazionale palestinese. Aveva iniziato a ragionare, anni prima, in quel preciso contesto, sull’uso politico del terrorismo da parte dello Stato. Persone invidiose del suo coraggio lo definirono sulla stampa “professore del terrore” e questo marchio offensivo lo fece soffrire molto. Edward aveva uno spirito nobile e vulnerabile.
In The Essential Terrorist, articolo che si può leggere nel volume Blaming the Victims,[2] Said sostenne che, come parola e come concetto, il termine terrorismo aveva ormai acquisito uno statuto d’eccezione nel discorso pubblico americano. Si occupò delle definizioni teoriche del concetto di terrorismo solo in quegli anni. Eppure questo lavoro è particolarmente pertinente oggi. Molte delle sue riflessioni acquisiscono ora nuova rilevanza e assumono sfumature inedite rispetto a quando le scrisse.
B.C.B.: Per iniziare questa nostra conversazione ti chiederei di partire proprio da quest’ultimo aspetto. In che modo, secondo te, i primi lavori di Said – sull’orientalismo e sulla rappresentazione simbolica del Medio Oriente – possono avere oggi una risonanza diversa?
G.C.S.: Prendiamo il caso di Orientalismo. Quando uscì alla fine degli anni Settanta, il suo successo fece nascere un nuovo interesse per la storia all’interno degli studi letterari. La prima ondata di studi si concentrò sull’imperialismo britannico in India. Stranamente Orientalismo non ha avuto un impatto così forte sui lavori francesi. Per quanto Said abbia avuto un enorme successo in Francia, la critica letteraria francese non è uscita trasformata dall’impatto di Orientalismo, nonostante in quel libro le più importanti figure di orientalisti siano soprattutto francesi.
Orientalismo ha influenzato gli studi sulla prima modernità britannica, il lavoro di Stephen Greenblatt, la nascita del New Historicism. Sta per essere pubblicato un saggio di Harold Aram Veeser su Said che chiarirà queste connessioni.[3] Per ora lasciami solo dire che le relazioni fra gli studi sull’Impero Britannico e Orientalismo furono, in un certo senso, contro-produttive. Per almeno due ragioni. La prima è che l’India ha conquistato la propria indipendenza da più di cinquant’anni. La seconda è che le questioni che riguardano la politica estera americana in Israele e la politica israeliana nei confronti della Palestina erano periferiche nell’impostazione critico-letteraria di Orientalismo. Nonostante Said sia, allo stesso tempo, un intellettuale politico e un critico letterario, in un primo tempo la connessione fra questi due ruoli non fu percepita con chiarezza. Così, la maggior parte degli studiosi post-coloniali, tanto quelli dell’Asia meridionale quanto quelli della prima modernità britannica, si sono mossi solo su un piano culturale; nessuno di loro si è preoccupato, per esempio, di opporsi alla politica estera americana nella West Bank.
Dopo questa prima ondata di studi, Orientalismo influenzò l’approccio postcoloniale metropolitano, dove i lavori sulla rappresentazione simbolica – come uno scrittore costruisce l’immagine dell’altro – iniziarono ad essere connessi con gli studi etnologici e con quelle figure di migranti metropolitani, che abbiamo imparato a chiamare “diasporiche”. Gli iniziatori di questa tendenza disciplinare hanno potuto impostare il loro approccio teorico a partire dai presupposti basilari di Orientalismo.
E tuttavia solo oggi le connessioni fra questo libro e la situazione politica dell’Asia mediorientale iniziano ad essere chiare. Qui sta il cambiamento di percezione che l’11 settembre ha imposto. Orientalismo mostra molto bene come la costruzione culturale della razza e la demonizzazione dell’Islam procedano di pari passo. È per questa ragione che il libro assume oggi un significato nuovo, perché la guerra al terrore si basa sulla costruzione simbolica della figura del terrorista. La CNN e i quotidiani ci mostrano ogni giorno costruzioni narrative. L’invasione dell’Iraq è stata legittimata dalla trasformazione simbolica di uno stato moderno in uno stato di terroristi, in uno stato moralmente disonesto; e il tutto solo per far avanzare gli interessi geopolitici americani.
B.C.B.: Orientalismo ragiona soprattutto sull’alterità come negatività, come costruzione simbolica organizzata da un Altro ostile allo scopo di fortificare il proprio Sé. Ovviamente esistono altri modi di pensare l’alterità. Nella tradizione teorica a te più vicina, quella post-fenomenologica, autori come Lévinas e Derrida mostrano come l’idea di alterità renda possibile la rappresentazione dell’altro come evento positivo. In che modo, secondo te, questo secondo aspetto può entrare oggi nel dibattito politico?
G.C.S.: Lasciami parlare un attimo di Said come intellettuale accademico. Said fu un professore universitario serissimo. Ha lavorato alla Columbia University per tutta la vita. Non ha mai preso il suo mestiere con leggerezza. Come insegnante e come accademico, non ha mai pensato che la tradizione post-fenomenologica fosse la strada migliore per impostare la relazione fra politica e letteratura. Nella tradizione filosofica che tu descrivi, il Sé emerge in relazione ad un esterno. Nel lavoro di Lévinas – per quanto l’idea non sopravviva troppo nella traduzione inglese – lo spazio dell’altro è un luogo di distensione. Ma questo accade perché Lévinas utilizza moltissimi concetti diversi per descrivere l’alterità. Ricordiamoci che esteriorità è il sottotitolo di Totalità ed infinito, il suo primo libro importante.[4] Lévinas si chiede: possiamo essere ancora capaci di pensare l’etica dopo la catastrofe della Seconda Guerra mondiale? Il suo lavoro indica una possibilità: considerare il soggetto umano anzittuto per come si forma attraverso un complicato sistema di relazioni – e uso qui la parola della lingua comune “relazione” perché stiamo parlando di Edward Said e non di Lévinas; relazioni, dunque, con l’esteriorità, con ciò che porta verso l’esterno.
Mi piace pensare che quando Said ha analizzato il modo attraverso cui l’Altro è stato costruito come un oggetto da dominare, vale a dire come elemento che permette al Sé imperialista di giustificare la propria missione, stesse in realtà discutendo come questo particolare fenomeno storico si inserisca in un ordine più vasto di problemi teorici inerenti all’idea stessa di tassonomia, che è una forma di descrizione filosofica. Questa è la connessione che suggerisco. Non credo che Said l’avrebbe mai fatta; il lettore deciderà se è interessante.
Dobbiamo però ricordare che Lévinas fu un sostenitore dello stato di Israele. Mentre stava terminando Totalità ed infinito, scrisse anche articoli – poi raccolti nel volume Libertà difficile[5] – nei quali, in modo davvero imbarazzante, si esprime contro il pericolo delle “orde asiatiche”. Ho sostenuto altrove che, in questi scritti, Lévinas nega ai musulmani l’eredità abramitica, li esclude dalle religioni abramitiche. Da questo punto di vista, Lévinas è un esempio perfetto di rappresentazione ed esclusione orientalista. Le connessioni sono dunque complicate.
Derrida ha suggerito che il supporto acritico di Lévinas alla politica israeliana potrebbe derivare dalla sua incapacità di distinguere fra il significato particolare e quello generale della nozione di “terzo”, distinzione che resta implicita nel concetto di relazione fra due volti.[6] Per parafrasare Derrida, c’è un silenzio in Lévinas fra il suo lavoro e il suo impegno filosofico. Di nuovo ci troviamo di fronte ad una questione complicata. Tuttavia, l’esempio storico dell’essere resi altri, su cui lavora Said, e l’idea di Lévinas che il Sé può emergere solo nella relazione con un esterno, non si trovano in una opposizione binaria. Si può pensare Said in modo tassonomico senza usare la tassonomia di Lévinas, come è possibile utilizzare le idee di Lévinas pensandole come un approfondimento dell’argomentazione di Said.
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[1] L’intervista è stata realizzata l’11 settembre 2004, in occasione del terzo anniversario dell’attentato al World Trade Center di New York.
[2] E.W. Said, The Essential Terrorist, in Blaming the Victims. Spurious Scholarship and the Palestinian Question, a cura di E.W. Said e Ch. Hitchens, Verso, London-New York 1988, pp. 149-158.
[3] H.A. Veeser, Edward Said: Life, Politics, and Thought, Routledge, New York 2010.
[4] E. Lévinas, Totalité et infini: essai sur l’extériorité, M. Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. di A. Dell’Asta, Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980.
[5] E. Lévinas, Difficile liberté: essais sur le judaïsme [1963], Albin Michel, Paris 19944; trad. it. di S. Facioni, Difficile libertà: saggi sul giudaismo, Jaca Book, Milano 2004.
[6] J. Derrida, Adieu: à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997; trad. it. di S. Petrosino, Addio a Emmanuel Lévinas, Jaca Book, Milano 1998.
[Immagine: Edward W. Said Reading Room, Columbia University, New York. Foto di Daniele Balicco].
grazie per questo ricordo di Edward Said. In alcuni passaggi è davvero intenso e commuovente.
Ringrazio “Le parole e le cose” per questa condivisione. Una curiosità: dove si trova questa reading room dedicata a Said che compare nella foto allegata al suddetto articolo?
Grazie a chi risponderà.
«Mi piace pensare che quando Said ha analizzato il modo attraverso cui l’Altro è stato costruito come un oggetto da dominare, vale a dire come elemento che permette al Sé imperialista di giustificare la propria missione, stesse in realtà discutendo come questo particolare fenomeno storico si inserisca in un ordine più vasto di problemi teorici inerenti all’idea stessa di tassonomia, che è una forma di descrizione filosofica. Questa è la connessione che suggerisco. Non credo che Said l’avrebbe mai fatta; il lettore deciderà se è interessante.» L’osservazione di Spivak è fondamentale, soprattutto se la si collega a quelle che si potrebbero definire le antinomie del pluralismo, proprie della cultura postmoderna. Che la costruzione dell’Altro sia funzionale e speculare alla legittimazione del “Sé imperialista” è allora un assunto dialettico che risulta utile anche come criterio di interpretazione del nesso tra pluralismo ed egemonia, che in forme più o meno raffinate e più o meno variegate innerva la cultura capitalistica. In questo senso coloro che considerano la pluralità un valore in sé, oltre ad esprimere un punto di vista ingenuamente liberale, sono dei puri formalisti che non si rendono conto della varietà sorprendente di forme che, ad esempio, possono assumere il razzismo e il classismo.
In realtà, esattamente come gran parte del pensiero postmoderno, l’ideologia del pluralismo porta nel suo grembo la consapevolezza della propria identità. Accade così che, invece di fondere delle identità separate, essa le moltiplica, poiché il pluralismo presuppone un’identità proprio come la mescolanza presuppone la purezza. Traducendo nel linguaggio dell’epistemologia, è, per l’appunto, «l’idea stessa di tassonomia che è una descrizione filosofica». Detto altrimenti, non esistono ordini del discorso che siano neutri, simmetrici e innocenti. L’immagine leibniziana della torre dall’alto della quale è possibile dominare la pluralità dei differenti punti di vista conferma ancora una volta il carattere strategico che assume, nel pensiero dell’età moderna e nelle tarde derivazioni postmoderne, la corretta definizione del nesso tra pluralismo ed egemonia.
È proprio qui che cade, fra l’altro, il punto di intersezione, non ricordato in questa intervista, fra gli interessi di studio di Edward Said e il potente influsso che esercitarono nella loro esplicazione le categorie teoriche di Antonio Gramsci, così come, per i molti aspetti in comune, fra le stesse biografie di questi “intellettuali diasporici” (un tema affascinante che varrebbe la pena di approfondire). Tornando alla questione del nesso tra pluralismo ed egemonia nell’àmbito della cultura dominante, occorre quindi sottolineare, come suggerisce Said, che solo una cultura pura può essere ibridata e che, in effetti, come scrive questo autore nel testo ormai classico su “Cultura e imperialismo: letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente”, «tutte le culture sono intrecciate le une alle altre; nessuna è singola e pura, tutte sono ibride, eterogenee, straordinariamente differenziate e non monolitiche». La prova della verità di questa osservazione è costituita, per un verso, dal carattere sommamente eterogeneo della cultura del capitalismo e, per un altro verso, dalla natura inflessibilmente unidirezionale della ideologia in cui pulsa il “cuore di tenebra” di questo modo di produzione, di scambio, di circolazione e di consumo delle merci, dei simboli, dei codici, dei linguaggi e dei segni.
@ chiara selleri
La Edward Said Reading Room si trova all’ultimo piano della Butler Library – che è la biblioteca centrale della Columbia University a New York
@ Eros Barone
Condivido ogni singola riga. Grazie davvero per aver voluto condividire con il sito una riflessione così acuta ed articolata